mercoledì 31 ottobre 2012

Quel giorno che tremò la notte 13


TREDICI

La notte di buio e di stelle aveva smorzato il ritmo del traffico. Tante auto nei due sensi di marcia, soprattutto ritorni dal fine settimana. Roberta aveva accennato ad addormentarsi un paio di volte, Romano era tenuto sveglio dal desiderio.
“La prossima è la nostra” le disse e guardò l’orologio sul cruscotto. Erano le dieci e ventidue, ancora mezz’ora fra statali e provinciali e sarebbero arrivati.
“Ci siamo?” disse lei.
“Alle undici, non prima” e intanto ripassava la strada che aveva percorso spesso, non negli ultimi anni, preso dal lavoro. Mai di notte. Una cittadina, due o tre paesi e la salita al colle, uno fra i tanti di quella parte d’Italia, terra di boschi di faggio e di castagno. Meno di un’ora e sarebbe arrivato nella casa dei nonni materni. Dentro quei locali, correndo nell’aia, rovistando nel pollaio aveva raccolto i ricordi migliori della sua infanzia. E la morte dei nonni era stato il suo primo incontro con il dolore. Il nonno era basso, secco, gambe curve da fantino, labbra furbe e piccoli occhi infossati; la nonna era tonda per i chili, regalo delle gravidanze, ma lì nessuno si fermava e lei s’era fatta curva di schiena e non si sarebbe più messa dritta. Senza dar peso alla deformità continuava a voler bene a suo marito, a servirlo e a servire la terra, il piccolo orto, i pochi animali che mantenevano con cura, e con mano ferma sgozzavano per ricavarne i gustosi pranzi che Romano adorava: la pelle croccante del pollo, il coniglio in bottacchio con le olive nere. 
La casa dei nonni: una porticina con la tenda fatta di fili di plastica che si metteva d’estate, quando la porta era sempre aperta. Una scala ripidissima, dai gradini alti che per montarci sopra doveva tirar su il ginocchio. Prima della scala, sulla sinistra, una grande cucina dove mangiavano, ma alla festa si saliva ai piani alti, nella sala buona, con il pavimento di grosse piastrelle rosse squadrate malamente e rosicchiate dal tempo. Sulla destra le camere. Il bagno era stato progettato dopo, segno di una modernità che aveva dato dignità alla vecchia latrina, un gabbiotto di legno grezzo sistemato in fondo al cortile.
La casa antica comprendeva il pollaio, galline, conigli e la prima erba che aveva imparato a tagliare col falcetto e a dare in pasto alle bestie, con immensa soddisfazione. Una casa fatta di odori buoni, che salendo dalla cantina di prosciutti e salami e vino in botti erano penetrati nei mattoni e nell’intonaco, nella credenza, nel tavolo e sulla vecchia ottomana.
I nonni se n’erano andati, più vecchi che giovani ma sempre prematuramente per lui; senza di loro non ci tornava volentieri in quella casa d’Appennino, tessera del mosaico di un paese anziano, senza futuro, abbandonato lassù ai vecchi e agli animali, con poche case ristrutturate e tante abitazioni abbandonate. Ma andarci con Roberta era come ritrovare felicità in quella strada, giunta agli ultimi tornanti.

***  

“Che ore abbiamo fatto?” disse Roberta in mezzo a uno sbadiglio.
“Ti avrei svegliata” disse Romano. “Ci siamo, te l’avevo detto, mancano tre minuti alle undici.”
“Era ora.”
“Dillo a me. Che fai?”
“Mando un messaggio ai miei.”
“Ti dispiace?” e le allungò il suo cellulare. “Prima che rompano i coglioni.”
Arrivò l’ultima curva, un tratto in piano, svolta a destra, il cortile. Un solo, piccolo lampione mandava scarsa luce sulla ghiaia, che venne rimestata dalle ruote e rantolò.
Romano frenò, spense il motore, le luci: “Salta giù, ci siamo” le disse.
La notte era fresca. Un gran silenzio, buio.
“Ma siamo soli?” chiese Roberta. “E’ un paese fantasma?”
“Più o meno.”
Presero le valigie. Nel silenzio grande lo sferragliare della chiave nella toppa si amplificava. Roberta dava un po’ di luce col suo cellulare.
“Ma ci vedi?”
“Ci vedo, ci vedo” e la porta si aprì. “Il problema è trovare l’interruttore centrale.”
“Ci voleva una torcia.”
Romano brancolò, tastò, chiese la luce fioca dello schermo del telefonino, aprì una piccola anta, mise le mani in altro buio, trovò l’interruttore. Fu luce sulla ripida scala, e subito dopo si accese anche la lampadina della grande cucina sulla sinistra.
Romano ritrovò il profumo dell’infanzia. Ma era stanco e senza voglia di ricordi. 
“Qui dovrebbe esserci un divanoletto.”
“Che è questo” e Roberta indicò il solo divano nel grande locale, con tavolo, una vasca più che un lavandino, una cucina economica a legna e carbone.
“Se vuoi dormiamo qui.”
“Se no?”
“La camera dei miei nonni, di sopra.”
“E i tuoi cosa dicono?”
“I miei?” e rise.
Roberta prese tempo, perlustrò la cucina, guardò la lampada che mandava una luce insufficiente. Scelse: “Di sopra, se ti va.”
“Come vuoi tu” e prese le valigie.
La scala era ripida e stretta, coi gradini consumati, i bagagli rendevano la salita difficoltosa. La piccola porta che immetteva nel tinello cigolò, Romano trovò subito l’interruttore sulla destra. C’era umidità, freddo. Da mesi nessuno entrava più lì dentro. Si pentì di averla portata in quella topaia.
“Che facciamo? Accendiamo il fuoco?” chiese Romano. “Qui si ghiaccia.”
“Ma non è tardi?”
“Il camino c’è, la legna anche, non ti garantisco, non lo accendo da una vita.”
“Ma se andassimo a dormire?” disse Roberta.
“In camera dovrebbe esserci una stufetta elettrica.”
“Basterà quella.”
“Intanto vediamola, la camera.”
Un corridoio di un paio di metri, un’altra porta sulla destra, con i vetri smerigliati. Un altro interruttore e sempre una luce ridotta, che lasciava nel mistero buona parte del locale.
Si vedeva il letto; l’armadio, il comò, un’ottomana erano ombre in bianco e nero.
Roberta si lasciò andare sul materasso, la rete metallica cigolò, s’alzò della polvere. “Sono sfinita” e si mise a ridere. Pareva soprattutto felice.
Romano passò un dito sopra il piano del comò, raccolse sul polpastrello polvere grassa, umida. Dentro di lui girava un’emozione che andava controllata.
“Aspetta” disse Roberta. “Dov’è il bagno?”
“Qui, ti faccio strada.”
“La doccia?”
“La doccia? Massimo ci sarà un doccino nella vasca. Vediamo.”
“Ma ci sarà l’acqua calda?”
“Fra due o tre ore. Dobbiamo accendere il boiler.”
“E come ci laviamo?”
“Non ci laviamo.”
“Facciamo scaldare una pentola d’acqua.”
Entrarono ma in due non ci stavano: lo spazio era occupato da una vasca in ghisa laccata, a forma di poltrona, dove era impossibile sdraiarsi. Romano aprì il rubinetto del lavandino, ne uscì acqua a singhiozzi, di un colore scuro di ruggine e terra; con lo scorrere l’acqua divenne trasparente. La sfiorò: “E’ un ghiaccio.”
“Io la faccio scaldare. Trovami una pentola, per favore.”

***  

La pentola fu trovata, e anche un fuoco a bombola di gas liquido. Non fu recuperata, invece, la stufetta elettrica, che avrebbe dovuto scaldare la camera da letto.
Romano aveva fatto alla svelta, una sciacquata, si era sfiorato il mento, la barba pungeva, le avrebbe dato fastidio. Si era messo nel letto, rabbrividiva, le lenzuola erano freddoumide, c’era odore di chiuso, di vecchio. La mobilia aveva perso il buon profumo di legno, tarlata dalle bestie e dal tempo. Sopra di lui un lampadario con una lucina da trenta watt, non di più. Il letto dei suoi nonni era una rete metallica alta da terra quasi un metro, con una testata d’ottone lavorato ad arabeschi e volute. Si mise a dondolare sul materasso, sentì il canto delle maglie metalliche.
Dietro i suoi capelli, lunghi per nascondere un principio di calvizie, appeso alla parete pendeva un grosso quadro della Sacra Famiglia. Il crocifisso stava sul comodino. Sul comò foto in bianco e nero e uno specchio; i suoi nonni lo curavano, vestiti con gli abiti nuovi del loro matrimonio. Si chiese se quello ero lo stesso materasso sopra il quale era stata concepita sua madre.
Sentiva Roberta nello sciabordio dell’acqua. Cercava di non immaginare nulla.
“Muoviti, fa freddo” le urlò, sapendo che difficilmente avrebbe sentito. Continuò il rumore dell’acqua sopra Roberta. Lei non rispose. 
Silenzio. L’acqua non sbatteva più. La luce del minuscolo bagno si spense, la porticina cigolò, restava la modesta illuminazione del lampadario sopra il letto.
Roberta entrò. Indossava un pigiama giallo tenue. Sembrava una tuta da jogging.
“Che freddo che freddo che freddo…” e scivolò nel letto, non lo abbracciò, non si svestì, non lo accarezzò. Si accomodò sul fianco sinistro, sul lato destro del letto grande, si raggomitolò come una gatta pigra e freddolosa, si lamentò più volte per quell’aria gelida, per quell’umido che bagnava il lenzuolo, disse che era stanca morta e gli augurò la buona notte.
Romano ammutolì. Scherza o fa sul serio?
“Buonanotte” ripeté Roberta.
Aveva capito, certo che aveva capito. Romano rispose con una voce offesa, lamentosa. S’alzò per spegnere la luce. Non c’erano abatjour sui comodini.
“Che fai?”
“La luce.”
“No. Lasciala accesa.”
“E perché?”
“Ho paura.”
“Ci sono io.”
“Non mi basti.”
“Se lo dici tu” e tornò sotto la pesante coperta di lana grezza.
Romano si rapprese nella sua delusione. 
Ma la rabbia cedette al desiderio. Allungò il braccio. Non ci arrivava a toccarla. Si avvicinò strisciando sul lenzuolo. La rete cigolò. Ora la sfiorava, le accarezzò la schiena, le dita scivolarono sotto il pigiama, risalì sino ad accorgersi che era senza reggiseno.
Roberta tremò, sospirò, si fece più vicina. Disse “Fa freddo” e restò immobile.
Lo stava spiazzando. Confondendo. La voglia di lei dilagava, aveva rotto gli argini ma la temeva. Stava ragionando troppo. Non doveva andare a finire così. Muti nell’imbarazzo. 
Lei sul fianco e lui sul fianco, addosso, a curarsi, a spiare la reazione, pronti ad un’altra mossa. Ma era amore o una battaglia? Non avrebbe dovuto essere tutto più semplice? Lo scontro violento di due passioni? La soluzione di una lunga attesa? 
Romano le toccò l’addome piatto, teso. Con l’indice penetrò nell’ombelico. Lei disse “Mi fai il solletico” e si scansò; lui non capì se quel tono era scherzoso o irritato. 
Salì con la mano e lei cambiò il ritmo del respiro e lui le accarezzò i seni. Era la prima volta che li sentiva. Prese aria in lunghi respiri mentre lei gli guidò la mano più in basso.
Lui disse “Aspetta” e si tolse i boxer, cercò sotto il cuscino, con il gomito picchiò sul comodino, il crocifisso cadde, imprecò a mezza voce, lo trovò, lo aprì coi denti.
“Io” gli disse e cercò la sua mano.
“Ma sei scema?”
“Perché?”
Con la gola riarsa dall’ansia disse “No, no” e lei lo sfiorò. Aveva dita sottili, unghie lunghe e curate, smaltate di rosso. Le sentì come fuoco sulla sua carne viva. Le allontanò.
“Che c’è?” 
“Niente” rispose lui, con una voce cretina, in falsetto. Roberta si mise seduta. Si spogliò. Non aveva più freddo, non si lamentò per essere finita dentro un letto che sapeva di muffa.
“Mi baci?” gli disse, salendogli sopra.
Lui perse ogni controllo. Gli morì in gola un ti amo che non uscì, ma addolcì rabbia e vergogna. Buttò indietro lenzuolo e coperta e andò in bagno.
“Stai qua” gli disse Roberta. “Fa freddo.”
Tornò quasi subito. Tremava.
Roberta si era già rivestita. In equilibrio sul fianco, pareva addormentata. Ma aveva gli occhi aperti, e fra gli occhi e le labbra si rincorreva un sorriso.

***  

Romano si era addormentato. Incazzato com’era con se stesso, si era già disposto ad una notte di veglia e di rabbia. Invece aveva preso sonno.
Fu svegliato dalla sua mano che si arrampicava, si infilava, lo cercava. Poi si allontanò. Era ancora vestita. Uscì da sotto la coperta, veloce. Si mise in ginocchio di fianco a lui, con la fronte a una spanna dalla Sacra Famiglia. Si sfilò la giacca del pigiama. La luce era ancora accesa. Si sedette, dondolò sulla schiena e si sfilò i pantaloni, che lanciò contro la parete. Il pigiama andò a finire contro il quadro.
“Dove sono?” gli chiese, sdraiandosi sopra di lui ed allungandosi verso il comodino.
Romano si alzò, cercò nella tasca del giubbotto, ne sfilò uno.
“A me” disse Roberta.
Romano si svestì con lentezza mentre Roberta diceva: “Non l’ho fatto mai.”
Romano si sdraiò e l’attese.
“Mi aiuti?” disse Roberta.
Romano si sedette, appoggiando la schiena alla testata in ferro battuto. Erano tubi ghiacciati. Stava scomodo. Cercò di trovare un compromesso nella posizione. Teneva le gambe allungate, Roberta si sedette sulle sue cosce.
“Dammi” disse Romano.
“Io” disse Roberta.
Romano prese le sue mani, le guidò, si piegò verso di lei, la abbraccio, cominciò a baciarla. La fece distendere di schiena sopra le sue gambe allungate.
Ora i piedi di Roberta spingevano sulla parete; facendo pressione sul muro si inarcò.
Romano si piegò in avanti, puntellandosi alle braccia. Continuò a baciarla sin dove poteva arrivare senza lasciare l’appoggio, in ogni piega.
Roberta si appoggiava, scendeva col bacino e scappava, tornava ad alzare i piedi verso il quadro, a spingere, a sfuggirgli; sentiva freddo sotto la pianta dei piedi, doveva fare attenzione a non scivolare.
Romano la prese ai fianchi, lei disse ridendo che aveva capito. Si distese supina di fianco a lui, allungando le braccia verso la testata del letto. Si sentì il rumore metallico dei suoi anelli, che cozzarono contro l’ottone lavorato. Si agganciò a due volute.
Romano si sedette sopra di lei, piegò le gambe divaricate, si appoggiò alle ginocchia, chiuse gli occhi e cominciò ad accarezzarla con la punta delle dita.
Roberta liberò una mano, che lasciò la testata e prese la mano di Romano, accompagnandola sopra il suo seno. Sganciò anche l’altra mano e le congiunse, tenendolo fra le due palme. E insieme muoveva ritmicamente il bacino, le molle stridevano, il solo rumore nella camera che aveva l’odore acre del tempo passato, rumore di ferro arrugginito e il soffio dei loro respiri.
Lei disse “Scendi, sdraiati.” Romano ubbidì. Roberta si allungò sopra di lui, lui avvicinò le gambe, lei le aprì e infilò le dita nei suoi capelli. Salì ancora e si aggrappò alla testata del letto, che si piegò in avanti.
Lo sentì scivolare dentro, corrergli incontro.
Nessuno avrebbe potuto fermarli, ora. Non gli sguardi dei nonni in abito da nozze, sorridenti ma seri davanti alla grande macchina fotografica; e nemmeno il Dio della croce e della Sacra Famiglia né la paura di fare troppo sul serio, troppo alla svelta.       
        
***

La luce nella camera era ancora accesa. Roberta si era addormentata subito, dopo essersi rivestita senza dire una parola. Romano avrebbe voluto domandarle se era felice. 
Roberta era il respiro profondo del suo sonno.
Romano cambiò fianco, poi si mise a pancia in giù, buttandosi il cuscino sopra la nuca. Stava bene. Il mattino dopo avrebbero potuto dormire sino a mezzogiorno. E dopo la colazione nell’unico bar del paese, sarebbero tornati a letto.
Se la sentiva addosso, anche se il piacere del suo corpo si diluiva nel buio della notte. Era solo l’inizio.
Era ancora nudo e cominciava ad avere freddo. Pensò di rivestirsi. Si alzò curando di non svegliarla, cercò i boxer, la tishort, non li trovava, non erano caduti a terra. Frugò sotto le lenzuola, con la mano perlustrò il fondo del letto, si erano incastrati fra materasso e coperta, li recuperò, si rivestì alla svelta, ora tremava, l’umido era tornato ad essere fastidioso.
Si mise supino, con le mani dietro la nuca. Quella lampadina generava una luce tanto fioca che poteva fissarla senza ferirsi la pupilla. Tirò verso di sé la pesante coperta sino a coprire il mento, il naso, aveva fuori solo gli occhi e i capelli.
Sentì un rumore, forse il gracchiare del cellulare. ‘Un messaggio a quest’ora? Ma chi cazzo è?’ ed ebbe paura. Allungò la mano destra, tastò il piano del comodino, recuperò il telefono, no, si era sbagliato. Nessun messaggio in arrivo. E il rumore? Fece in tempo a leggere l’ora: le tre e ventinove. Non mancava molto all’alba. Quella notte sarebbe stata con lui per tutta la vita.    
 


                                                                                           13 - continua









martedì 30 ottobre 2012

Quel giorno che tremò la notte 12



DODICI

“Com’è che quella ragazza non chiama?” domandò la madre di Roberta.
“Chiamerà, tranquilla” disse il padre di Roberta.
“Sempre tutto tranquillo per te” disse lei. Era seduta sul divano, telecomando in mano, passava da un canale all’altro senza attenzione, concentrata su quella telefonata che non arrivava. Non conosceva Romano né la sua abilità nella guida, non si fidava delle parole della figlia, non si fidava degli altri automobilisti. Della vita vedeva il peggio, doveva gestirsi un sottofondo d’ansia che le rovinava le giornate. E se non poteva far altro, per difendersi scaricava sul marito la rabbia di una vita malata. “Ma che padre sei?”
“Che padre sono….non lo so…forse non è nemmeno figlia mia” e la mise sul ridere.
“Mi prendi per il culo?”
Lui non rispose.
Lei spense il televisione, che morì dentro l’eco di una musichetta fastidiosa. “Le tue figlie fanno quello che vogliono...da sempre.”
“Senti…” e lanciò il libro per terra, con una violenza esagerata. Tacque.
“Non dovevamo farla andare e basta.”
“Ma se l’abbiamo deciso insieme?”
“Per forza, tu avresti avuto il coraggio di dirle di no?”
“Ma lo sai quanti anni ha?”
“Finché è in questa casa…” e alzò il volume della voce. Lo fissò con occhi cattivi. Uno sguardo che gli bruciò come uno schiaffo. Perché aveva un solo senso: sei un padre fallito. Una rovina che non voleva nemmeno prendere in considerazione.
“Dillo, dillo pure, lo so cos’hai in testa” minacciò.
“Quanti no le hai detto in vita tua?”
“E tu?” gli urlò in pieno volto.
“Mi sono sempre sentita sola, è questa la verità.” Pianse.
Altre volte si impietosiva al suo pianto stizzoso, non ora, sconfitto da un furioso malessere. E mentre si preparava all’attacco pensò che stava sbagliando, che le motivazioni erano ridicole ma le parole partirono senza comando, velenose. “Ne ho piene le palle delle tue figlie e della storia del padre fallito, crepate tutti!” e si alzò come in preda al panico. No, andarsene sbattendo la porta sarebbe stato troppo poco. “ E vuoi che te le dica tutte?”
Lei lo osservava con terrore.
“Solo critiche, cazzo…un complimento…ti sei mai chiesta da quanti anni non mi fai un complimento? Qualcosa che ho fatto che ti va bene?”
“E questo che c’entra?”
“Hai in mente solo le tue figlie…non te ne posso fare una colpa…ma almeno non mi rompere i coglioni!” e si abbassò per recuperare il libro che era andato a finire contro un mobile basso. Era preoccupato che non si fosse rotta la rilegatura. “Non telefona, non telefona…ma lasciala vivere, ha venticinque anni, fa il suo dovere, se non telefona è perché gli stiamo troppo addosso.”
Lei lo fissò come un fantasma. “Continua, continua a giustificare tutto….ora fai la vittima…credevo di aver sposato un uomo. Avanti, se hai le palle chiamala e dille che ha due genitori…o devo farlo io, come sempre?”
“Guarda, prego, questo è il telefono” e fece la mossa di allungarli il cordless di casa.
“Sei un pezzo di merda!”
“Ma va là….” e se ne andò, ma prima della porta fu preso alla gola dal senso di colpa. L’immagine d’essere stato davvero un padre debole gli fece tremare le gambe.
 

                                                                                 12 - continua


 















lunedì 29 ottobre 2012

Quel giorno che tremò la notte 11



UNDICI

Guardando il sole, per metà nascosto dal contorno ondulato dell’Appennino, Romano si chiedeva come facesse a non essere felice per quel tramonto, e per Roberta. La rabbia cresceva al pensiero di uno spreco. Il ritardo alla partenza da Rimini gli stava rubando piacere. Era arrabbiato con lei ma non avrebbe voluto esserlo, così altra rabbia si sommava alla prima, aumentando la profondità del disagio.
Finiva la domenica d’aprile e mancava ancora molta strada alla villa dei suoi nonni.
“Se n’è andato” disse a Roberta, invitandola a guardare il sole che annegava, lasciando spazio alla notte. Ma Roberta non aveva voglia di parlare. Guardò il rosso ad occidente, inquieta: non sarebbero state ore piacevoli. Romano se l’era presa troppo, aveva reagito come non si sarebbe aspettata, ma come sarebbe stato normale attendersi: stavano insieme da due settimane, non lo conosceva abbastanza da renderlo prevedibile. Guardò l’orologio: “A che ora arriviamo?”
“Non prima delle dieci, buio pesto. Sarà un’impresa trovare la casa.”
Se erano partiti con tre ore di ritardo la colpa era sua, e lo aveva ammesso subito. Ma a Romano non era bastato. ‘Partiamo subito dopo pranzo’ gli aveva promesso. Promessa non mantenuta perché i suoi amici non la lasciavano, i saluti e quel prete: “Devo parlargli. Mi serve” gli aveva garantito.
Romano, in attesa, s’era messo seduto su una panchina a masticare il suo disappunto, guardando l’Adriatico povero di gente in vacanza, un lungomare di coppie anziane con il cappotto e di giovani in tishort.
Aveva sentito dire da un gruppo di ventenni che avrebbero fatto il bagno, più a sud, al lido delle conchiglie. Li aveva seguiti da lontano, andavano veloci, avevano voglia di tuffarsi nel mare, di dimostrare alle ragazze la loro resistenza al freddo.
Si era seduto sulla base in cemento di un ombrellone di uno stabilimento balneare, una casupola triste e disadorna in quella bassa stagione marina. I ragazzi s’erano svestiti, correvano urlanti verso il mare, le ragazze ridevano, strillavano, si toccavano dentro come per dire ‘Il mio è più bravo, il mio è scemo del tutto, quelli sono fuori di testa.’ La sua attenzione si era spostata su una coppia, lui in costume, a pancia in giù sopra un asciugamano bianco, lei con i pantaloni corti e una camicetta a mezza manica. Appoggiava le ginocchia sopra l’asciugamano, le sue cosce combaciavano con il fianco sinistro del suo ragazzo. Aveva provato invidia per loro.
Era tornato a curiosare nel tratto di mare dove i ragazzi di prima s’erano tuffati. Ne era rimasto in acqua solo uno; gli altri, intirizziti, cercavano calore negli asciugamani e nelle braccia delle loro donne. La ragazza di chi ancora nuotava si era alzata, era andata sul bagnasciuga e implorava il suo ragazzo di non fare il deficiente, aveva già dimostrato quello che voleva far vedere, aveva vinto, stop. Uscito dall’acqua anche l’ultimo temerario, Romano si era messo a guardare il mare, partendo dall’orizzonte lontano e risalendo a cavallo di quelle onde senza pretese. Era un mare che non faceva paura ma richiamava ad una visione infinita. Aveva il culo dolorante, seduto sopra lo stretto quadrato di cemento, ma la scomodità non gli aveva impedito di pensare a Dio. Pensieri guizzanti e confusi, disturbati dall’ansia di partire, da un velato disappunto. Aveva pensato alla probabilità di un Dio inventore di mari e di come avesse lasciato perdere quel pensiero molti anni prima, seguendo l’onda delle sue amicizie laiche.
Gli amici di Roberta erano tornati nella grande sala della riunione, lei stava col prete e lui considerava che avrebbero avuto solo due notti, ma la prima rischiava di finire troppo tardi. Sarebbero arrivati stanchi, nervosi dopo un viaggio di molti chilometri.

*** 

“Dove ceniamo?” chiese Roberta.
“A casa non c’è niente.”
“Autogrill?”
“Per forza.”
Del dialogo finale col sacerdote lui non aveva chiesto spiegazioni, si era solo lamentato per la durata. Infastidito dal suo silenzio, quasi avesse ragione lei, ora pretese: “Perché ti serviva parlargli? Proprio oggi?”
Roberta non rispose.
L’auto passava dai centotrenta ai centocinquanta a seconda che l’autostrada salisse o scendesse, seguendo le gobbe dell’Appennino toscoemiliano.
“Almeno in galleria puoi andare più adagio?” chiese Roberta.
“Ma se non supero i centotrenta?”
“Però continui a sorpassare.”
“Se vuoi che arriviamo a mezzanotte.”
“Per me.”
“Per me no, guido io, sono stanco.”
“Anche di me?”
Il sole non c’era più, si era sciolto nel rosso sopra i monti. Sottili nuvole nere anticipavano il colore della notte.
“Non dire stronzate. Perché non mi rispondi?”
Roberta volle metterlo al corrente. Era importante che lo sapesse. “Abbiamo parlato anche delle mie paure.”
“Paure?”
“Paure, sì, tu come le chiami? Non hai paura della morte?” Roberta era seria da mettere soggezione. “Non sto scherzando. Io ci soffro.”
Romano stava guidando, avrebbe avuto bisogno di starsene seduto sul divano di casa, o sopra la sedia di un bar per poter calare in quella domanda, trovare risposte sincere. Erano questioni che preferiva non approfondire, che scansava sapendo di non avere risposte. E viveva bene lo stesso.
“E il tuo amico prete cosa dice?”
Roberta non rispose subito. “Mi interessi tu. Le tue paure.”
“E chi non ne ha?”
Capì, non era il momento: “Ne riparliamo.”
Lui cambiò registro: “E di me? Hai paura?”
“Quando guidi” e Roberta si appoggiò alla sua spalla.
“E questa cos’è?” disse Romano.
“Che c’è?”
“La spia dell’olio.”
“Quella lì rossa?”
“Sì.”
“Ma non l’avevi controllato?”
“Come no” ma era una bugia. Si sentì in colpa: “Speriamo di arrivare al prossimo autogrill.”
Attesero un paio di chilometri, la scritta ora diceva che dovevano tirare avanti ancora tre e fu una fortuna, perché di più il motore non avrebbe retto. Fecero tappa all’autogrill Monte Mario. Era ora di cena.


*** 

Romano aveva sotto il mento un piatto di lasagne al ragù, e di fronte lei. Aveva fame, quel cibo svaporava, mandando segnali gustosi.
Roberta si era fatta portare un piatto di spaghetti conditi con un filo di olio crudo e parmigiano reggiano. “Buon appetito” e lei fece il segno della croce.
Romano si guardò attorno, avrebbe preferito meno chiasso, un tavolo solo per loro; erano costretti a condividerlo con una coppia di stranieri, bevevano birra e mangiavano hamburger. Aveva notato che il più obeso dei due, biondiccio di capelli e con un grosso orecchino, aveva ruttato più volte. Riusciva  a leggere l’ora da un grosso orologio sistemato sopra la cassa. Mancavano tre minuti alle nove.
“Non arriviamo prima delle undici” disse Romano.
“Un paio d’ore?”
“Sì, due ore abbondanti, dipende da quanto ci fermiamo.”
“A me bastano gli spaghetti.”
Romano se l’era immaginato diverso quel loro avvicinarsi alla vecchia abitazione dei nonni. Il pensiero di altre due ore di guida non lo rallegrava. Andava a momenti. Guardarla, pensarla con lui poteva generargli sentimenti differenti. Ansia, ma anche tenerezza.
“Caffè?” chiese Romano.
“Sì, ma se hai fretta...”
“No no, ormai.”
Avrebbero dovuto partire da Rimini nel primo pomeriggio, arrivare al paese prima delle diciannove “perché il negozietto” gli aveva detto la madre “sono sicuro che è sempre aperto, anche la domenica, ma chiude presto, se vuoi essere certo devi essere lì prima delle sette.” Avrebbero fatto la spesa insieme e preparato la cena. Con calma.
Roberta si pulì la bocca con un tovagliolo di carta bianco e rosso, con la scritta dell’autogrill. Lo guardò e rise. Lui trovò quel sorriso molto bello.
“Che hai?”
“Tieni” e gli allungò un tovagliolo pulito. “Pulisciti il naso.”
“Sugo?”
“Sugo.”
Ora le faceva tenerezza. Il malumore era tramontato. Si guardò intorno. Un paio di tavoli più in là sedevano quattro giovani, avrebbero potuto essere studenti al rientro in università, o ragazzi in vacanza. Probabilmente studenti, perché parlavano poco, mangiavano senza entusiasmo. Solo lei, la ragazza del gruppo, dava l’idea di essere felice. Ogni tanto accendeva il dialogo, che si smorzava subito. Ma ci riprovava. Era una gran bella ragazza, luminosa. Non ci fosse stata Roberta, fosse stato fra uomini, sarebbe uscito con una frase d’apprezzamento.
Roberta lo guardò: “Che c’è?”
“Niente.”
“Chi guardavi?” e si girò. “Quella?”
“Saranno studenti? Che dici?”
“Boh” ma un po’ ci rimase male per la sua distrazione. “Vado in bagno.”
“Ordino i caffè.”
La vide che cercava la strada della toilette. La sentì sua. 

 

                                                                                          11 - continua

Quel giorno che tremò la notte 10



DIECI

Aveva fatto tutto lui, Romano. “Stasera ci vediamo al parco, alle sette ci sei?”
“Ci sono. Ma che c’è?”
“Niente, niente, così” ma non era capace di mentire.
Roberta aveva passato la giornata pensando a quel così che non era vero, e alla probabile sorpresa che Romano le aveva preparato. Un’attesa che era stata capace di distrarla nello studio e di regalarle una delicata e costante felicità.
Dal parco dell’Arena vedeva casa sua. S’erano seduti su una panchina in ombra. I milanesi sfruttavano quell’angolo di verde in centro per il passeggio, la corsa, per starsene seduti a ripassare la giornata, a programmare gli impegni futuri e a cercare un senso a quella vita che se ne andava. Ogni tanto buttava in faccia agli altri la sua disperazione qualche accattone, sdraiato su una panchina, seduto a terra, ciondolante senza una meta, con dentro il vortice delle sue sconfitte, la rabbia di non essere nemmeno capace di farla finita per sempre. 
“Dovrei mettermi a correre anch’io” disse Romano, vedendo passare un uomo della sua età, decisamente più grasso di lui.
“Hai visto quello? Ti sei spaventato? Non sei tanto malridotto.”
“Non vorrei finire così” e si palpò le maniglie dell’amore.
“Comunque, male non ti farebbe” disse lei. “Potrei farti compagnia.”
“Ma tu sei magrissima” e le sfiorò la pancia.
“Magrissima non direi.”
“Se andiamo insieme mi viene voglia.”
“Basta liberare le endorfine.”
“Non sono mai riuscito a liberarle, evidentemente.”
“Ci hai provato?”
“L’estate scorsa mi sono preso bene, ho convinto anche Carlo.”
“E allora?”
“Troppo caldo. Abbiamo rinviato all’autunno, così s’è messo a piovere, è arrivato l’inverno.”
“E siete andati in letargo.”
“Più o meno.”
“La primavera è la stagione migliore. Guarda quanta gente corre.”
In silenzio si misero a contarli: una ragazza certamente anoressica, un’altra sui trent’anni, senza seno e con il culo gonfio e flaccido, un palestrato simil Bronzi di Riace, abbronzato e con gli occhialini da sole, una signora sui cinquanta, sudatissima, intagliata di rughe scavate dalle troppe lampade, che correva con gli auricolari e pareva vagasse fuori dal tempo, un vecchietto smilzo che un po’ correva un po’ camminava, facendosi trainare da un grosso boxer che rischiava di farlo inciampare.
“Hanno tutti paura di crepare” disse Romano.
“Un po’ è la moda.”
“Sarà” e si toccò di nuovo i fianchi, considerando che non faceva ancora schifo: qualche seduta di allenamento, in palestra e al parco, e si sarebbe asciugato come una decina d’anni prima.
Il sole era timido, l’aria troppo afosa per essere la fine di marzo, Roberta cominciava a pensare che si fosse sbagliata: aveva solo voglia di stare con lei. Nessun regalo.
Romano raccolse da terra e si mise sulle ginocchia la solita borsa nera che nascondeva il computer, un quaderno, biro, matite, il cellulare, una moleskine, l’agenda del giornalista e le caramelle che lo aiutavano a mantenere la promessa di non fumare più.
Roberta seguì le sue mosse con la coda dell’occhio.
“Tieni” e le allungò un pacchetto lungo una spanna.
“Per me?” e cominciò a ipotizzare: un gioiello, comunque qualcosa di prezioso, oro, argento no, era piuttosto squattrinato. Trucco? Rossetto, profumo, fondotinta. Magari. “Cos’è?”
“Fai almeno la fatica di aprirlo” disse Romano.
Allora scartò il pacchetto con riguardo: era il suo primo regalo, avrebbe conservato il nastrino dorato, la carta, tutto. Non ci volle molto a capire di che si trattava, le bastò leggere le prime due lettere della parola Swatch.
“Grazie.”
“Non lo porti mai, non è che ti fanno schifo.”
Più che schifo le davano fastidio, ne aveva in camera quattro compreso uno Swatch, ma preferiva lasciare il polso libero. “E’ figo, grazie” e lo baciò sull’orecchio destro; il rumore del bacio schioccò nel buio canale. “Mi ha fatto piacere.”
“Ti amo.”
“Anch’io.”
 

                                                                                          10 - continua

domenica 28 ottobre 2012

Quel giorno che tremò la notte 9



NOVE

Romano era stato capace di farle tornare la voglia di studiare. Finire prima l’università, ora, aveva uno scopo più preciso e pressante. Ma la ritrovata passione per i libri aveva radici poco profonde se dopo mezz’ora di studio Roberta si lasciava distrarre dal notebook: una passata alle mail, un giro su Facebook e poi YouTube e quella canzone.
Dalla canzone alla proposta di Romano, che non si era fatto scrupolo di invitarla a casa sua, in una vecchia villa dei nonni in centro Italia, utilizzata più che altro d’estate e, raramente, durante l’anno. “In questo periodo è sporca, fa freddo ma a me piace lo stesso” le aveva detto.
Roberta aveva un altro impegno, proprio quel fine settimana, a Rimini.
La proposta era stata così formulata: “Devo andare a Roma tre giorni per un Convegno sui nuovi media, giornali on line, hanno scelto me. Ci vieni?”
“Non vorrai portarmi a Roma.”
“No, parto qualche giorno prima, con te, passiamo il fine settimana nella casa dei miei, poi tu torni in treno, io tiro dritto per il convegno.”
Ma era saltata fuori la storia di Rimini. Romano era stato conciliante: “Vediamo se riusciamo a farci stare dentro le due cose.”
E lei si era lanciata: “Vieni al mare con me, poi andiamo insieme dove vuoi.” 
Fu il loro primo compromesso d’amore: la domenica, dopo il pranzo, sarebbero partiti per la villa. “Se poi ti va di stare con noi ci stai, altrimenti ti fai un giro per Rimini.”
“Il mare in aprile mi mette tristezza” aveva detto Romano.
“Dipende” aveva detto Roberta. “Se trovi il sole.”
“E i tuoi amici che dicono?”
“Ho venticinque anni.”
“E io dove dormo?”
“Se vuoi risparmiare, in auto. E’ solo per una notte.”
“Se no?”
“Ti trovi una camera.”
“Con te?”
“Noi siamo già in tre.”
Roberta si rigirava l’indice nei capelli, li arricciava in un bigodino, grattava alle radici, guardava svogliata le pagine. Fra i motivi di distrazione quella scelta. Andarci o no? E comunque avrebbe dovuto parlarne in famiglia.


***  

“Ma se vi siete appena conosciuti” disse la madre di Roberta. Nel dirlo capì che era stata una frase inutile. Era maggiorenne da tempo. Viveva con loro, c’erano regole da rispettare ma sarebbe servito a qualcosa ricordargliele? O sarebbe stato motivo di una frattura più profonda?
Il padre di Roberta se ne stava rincantucciato, con la testa reclinata sopra il minestrone di verdura. Lasciava fare alle donne, a meno che sua moglie non l’avesse tirato in causa, preso per il bavero e buttato nella mischia. Al che avrebbe parato il colpo. Non che se ne fregasse. E ci soffriva. Ma era la persona meno indicata per trovare soluzioni efficaci a problemi complessi. Non era mai stato un padre autoritario, non l’aveva mai desiderato. Avrebbe voluto essere importante per il bene delle sue ragazze, capace di aiutarle a trovare una via nel labirinto dell’adolescenza, ma cominciava a convincersi di aver fallito.
“Mamma” e stava per ricordarle la sua età e che Romano era un tipo a posto, ma Roberta dovette lottare con una ventata di stizza improvvisa. Perché, una volta almeno, quella donna non diventava sua complice? Non rischiava con lei? “Sono un paio di giorni, in fin dei conti. Che palle!”
“Senti, fai come credi.”
Già vinta la partita? Roberta dovette ricredersi.
“E tu?” disse la madre al padre. La domanda conteneva già tutto. Lui lo sapeva. Aspettò d’aver mandato in gola la cucchiaiata di minestra, tempo che gli servì per formulare con più consapevolezza il suo parere.
“Non lo si potrebbe conoscere anche noi, questo Romano? Chi l’ha mai visto?” disse a sua figlia.
“Se volete.”
“Perché no?” disse la madre.
“Non vi fidate?” disse Roberta.
“Non è questo” disse il padre.
“E allora?”
Domanda di un certo impegno; l’uomo prese tempo: “Allora mi farebbe piacere vedere che faccia ha.”
“Tuo padre ha ragione” rinforzò la madre.
“E’ che non c’è il tempo” si scusò lei.
“Perché?” chiese lui.
“Alla sera lavora.”
“Anche il sabato?”
“Sì.”
“Domenica prossima, a pranzo” propose il padre.
“Provo a chiederglielo” disse Roberta, ma qualcosa le stonava dentro.
E per una coincidenza di pensiero, anche la madre ebbe l’impressione d’essere così vecchia da ricordarle la sua, di madre. “Senti” concluse, “stai attenta.”
“Attenta a che?”
“Il viaggio…”
“Non guido io.”
“E Romano? Guida bene?”
“C’è da fidarsi.”
“Hai già fatto un viaggio lungo con lui?”
“No.”
“E allora?”
“Guida bene, ti dico.”
Ora la discussione era accademica. E al padre bastava quell’assenso. S’accodò come un ciclista, facendosi tagliare l’aria da chi lo precedeva: “In fondo si tratta di un paio di giorni, giusto?”
“Già” disse Roberta. “Oltre a Rimini, un lunedì, martedì al massimo.”
Lui tornò a gustare il minestrone, la madre aveva già cominciato a pregare, Roberta li ringraziò senza parlare.
  


                                                                                             9 - continua
 









sabato 27 ottobre 2012

Quel giorno che tremò la notte 8



OTTO

Intimorita, Roberta entrò nell’appartamento di Romano. Carlo non c’era. Fu colpita dall’odore di fumo, un sapore cattivo di aria senza ricambio, di avanzi di cibo. Ma di quello tacque.
“Carino.”
“Un buco, ma ci basta. Vieni.”
Glielo aveva anticipato, sapeva dove sarebbero andati, non credeva così in fretta.
Entrò in camera da letto.
“Siediti qua”  e Romano le indicò quale parte del letto avrebbe dovuto occupare; avrebbe fatto da sedia ad una piccola scrivania, un tavolino appeso alla parete. Romano lo abbassò come un ponte levatoio, ci appoggiò sopra il notebook, lo accese.
“Non è un po’ piccolo per te?” disse Roberta, battendo le mani sul materasso.
“Ci sto, ci sto…Vuoi un caffè? »
“Un bicchiere d’acqua.” Aveva la gola secca.
“C’è solo quella del rubinetto.”
“Ottima.”
Andò, tornò, si sedette di fianco a lei. “Tieni” e le allungò il bicchiere. “E’ da cambiare, troppo lento questo pc. Mi fa perdere un mare di tempo.” Romano schiacciò il pulsante sulla destra, si accese la piccola luce arancione, partì un fruscio e la porticina si aprì con uno scatto. Infilò il cd.
“Siediti” e la prese in braccio. Ora le sue ginocchia picchiavano contro il tavolino. “Metti queste” e le passò le cuffie.
“Finalmente scopro il segreto.”
“Zitta” le disse, con un tono troppo impositivo.
“Ma tu così non senti.”
“La conosco a memoria.”
Partirono le immagini, Romano le regolò nel punto che aveva pensato per lei: una grande sala di un ristorante, gente ben vestita ai tavoli, un palco, musicisti e l’applauso per l’ingresso di due artisti, lei col violino e lui con una strana chitarra, che teneva in posizione insolita. La riconobbe subito: Alison Krauss.
“Ma che strumento è?” chiese.
Romano non rispose.
Iniziò la musica. Non era una delle canzoni che aveva visto su Youtube, ma la conosceva cantata da James Taylor. Un brano molto noto. Alison aveva i capelli dello stesso colore degli occhi, le sopracciglia curate, un trucco perfetto, pareva il volto finto di una bambola. Ai lobi due orecchini pendenti, che dondolavano ai lievi movimenti del capo, ondeggiare che seguiva il ritmo del canto. Indossava un vestito color nocciola, discutibile, a coprire un corpo con seni piccoli e cadenti, addome come una bassa collina che degradava verso gambe non esili, allungate dai tacchi, almeno un otto. Ma Alison Krauss era la sua voce, che aggraziava le imperfezioni estetiche. Stupenda, angelica ancor più che nelle altre canzoni che aveva sentito decine di volte. E si chiedeva Roberta come fosse possibile, con uno sforzo in apparenza risibile, con un soffio minimo, regalare un suono senza un graffio. Un vento soave e vorticoso che le entrava dentro. 
Chiuse gli occhi. Sentì Romano che la abbracciava appena sotto il seno, che appoggiava l’orecchio sulla sua schiena, che tremava, che le dava piccoli baci, che la stringeva.
Le sue braccia, la musica, quella voce e la loro storia d’amore: cominciava  a crederci. E se lui avesse voluto, se solo l’avesse stretta ai seni e fatta scendere dalle sue ginocchia, regalandole i suoi occhi d’incanto e il suo timore….ma lui non disse nulla fino al termine della canzone, poi le tolse le cuffie dalle orecchie, le chiese “Che ne dici? E’ fantastica” e lei rispose “E’ un angelo” e lui aggiunse “Senti questa”. Roberta allora capì che Alison stava diventando una sua rivale in amore. E si insospettì: Romano conservava qualcosa solo per sé.  



                                                                                        8 - continua






venerdì 26 ottobre 2012

Quel giorno che tremò la notte 7



SETTE


“Sei proprio sbroccato” disse Carlo, osservando l’amico mentre imburrava una fetta biscottata.
“Cioè?” disse Romano, mentre la fetta si sbriciolava sotto il peso di una lama di coltello malgestita.
“Fischietti! Canticchi!”
“Invidia?”
Carlo lo guardò con occhi addormentati: “Chi è? Sempre quella della mostra?”
Romano raccolse ad uno ad uno i pezzi della fetta e li mise a mollo nel caffèlatte. “Si chiama Roberta. Roberta.”
“Sbroccato fatto…”
“Guarda che sta salendo il caffè, curalo” disse Romano.
“Povero caffè, sta eiaculando!” disse Carlo.
Raccogliendo con il cucchiaino le porzioni di fetta biscottata rammollita, con il burro sciolto nella tazza in macchie galleggianti, Romano sentiva Roberta che dilagava nelle sue vene. Una piacevolissima tracimazione, che lo ripuliva dalle ansie, dall’apatia. Sarebbe stato sempre con lei, giorno e notte. Con lei non c’era calcolo, nessuna paura, solo l’immenso piacere di regalarsi.
Il cellulare di Romano vibrò, andando a cozzare contro la tazza e mandando ronzii con echi di porcellana. Era un messaggino Vodafone. Ma Roberta si affacciava anche dallo specchietto del telefono, che lui raccolse, pensò, scrisse ‘Sei al mio fianco, ora’, cancellò, scrisse di nuovo: ‘Sei qui con me. Ti amo.’ Cancellò di nuovo, intanto Carlo stava versando, mano destra, il suo caffè nella tazza, mentre con la spugna nella mano sinistra puliva dove il caffè era fuoriuscito sui fornelli, con gesto furtivo, per non farsi sorprendere e sgridare. ‘Perché non sei qui adesso?’ ma anche questa versione di saluto non era la più appropriata.
“E scrivi che vuoi andarci a letto” disse Carlo.
“Fottiti!” disse Romano. Bevve due sorsi e tornò al messaggio. Trovò pace con un ‘Speriamo arrivi presto stasera. Baci.’
La vedeva nel fondo della tazza e nelle pagine del romanzo che gli aveva prestato, ‘Chiedi alla povere’ di John Fante, libro che teneva ora sul tavolo. Lo aprì reggendolo in verticale con la mano sinistra, gomito appoggiato, girava le pagine con la bocca mentre con la mano destra cercava di portare a termine  quella colazione senza appetito. La carta aveva il suo profumo. Girava le pagine e la accarezzava, la baciava. Non aveva altri pensieri e altre cure. Al lavoro era distratto, a volte, altre volte era catturato da un attivismo vorace e scriveva a raffica, saettavano in lui pensieri folli e dolci, intuizioni delle quali mai si sarebbe considerato capace. Sbocciavano idee, progetti, frasi che le avrebbe scritto o recitato, luoghi che avrebbero visitato insieme. Cercava il modo per trattenere più a lungo possibile quello stato di grazia, che non ricordava di aver mai gustato, forse perché erano passati tanti anni dagli amori di ragazzo, dalla vista di quella dolce creatura che s’affacciava al balcone, e lui aspettava quel volto lontano, mai s’era avvicinato oltre i dieci metri, eppure quella era la sua dea, ai tempi dell’amore platonico. O da quell’altra, Maria, compagna delle elementari, figlia di negozianti, bella come Venere, pianeta luminosissimo. O la terza: era arrivato ad un niente dal bacio, ma il suo cuore batteva tanto forte da respingerla, da tenerla a distanza, contro il bianco tronco di una betulla. Mamma mia, che gli stava capitando? Roberta gli aveva tolto quindici anni almeno.
Carlo si sedette di fronte a lui, con la sua tazzina del caffè e la sua aria sfatta. Romano provò pietà per quel ragazzo, che forse non era mai stato innamorato. Provò pena per tutti gli uomini, ai quali era stata negata quell’esperienza d’amore.
“Che leggi?” disse Carlo.
“Fante, Chiedi alla polvere.”
“Ho visto il film.”
“Bello?”
“Lei, la messicana, è da paura. Una gran gnocca.”
Romano era disturbato da quella volgarità costante, che solo qualche giorno prima lo lasciava indifferente.
“Sono felice per te.”
“Balle.”
“Giuro.”
“Sono cotto.”
“Lo vedo.”
“Non me l’aspettavo.”
“Meglio così.”
“Cazzo!” esclamò Romano, picchiandosi il cervello.
Carlo gli accarezzò la mano, trattenendo la commozione.


                                                                                                  7 - continua












giovedì 25 ottobre 2012

Quel giorno che tremò la notte 6



SEI

Il primo bacio fu due giorni dopo la serata in pizzeria. In piedi, davanti alla fermata del tram numero quarantaquattro. Milano sapeva di rotaie, di smog, di aliti pesanti da fumo e da fatiche mal digerite dopo una giornata di lavoro.
Non erano soli. Avevano parlato di tutto, anche di Dio. Roberta era stata distratta da una sua proposta di viaggio, la stava valutando mentre Romano cercava di presentargliela nel migliore dei modi.
La prima volta fu al principio di un triste tramonto metropolitana: nuvole vento freddo. Un freddo che s’attaccava addosso, che cercava il calore dentro vestiti d’altri. Furono persino banali (“Si gela!” disse Roberta. “Danno brutto per un po’ di giorni” disse Romano), per non far pesare i rari spazi di silenzio. E quando Romano le infilò le dita nei capelli e avvicinò il volto di lei al suo, lo piegò sulla destra e l’appoggiò alla spalla, e le sue braccia la strinsero tanto da sentire la morbidezza del suo seno, qualcuno fra i presenti, infreddoliti alla fermata del tram, pensò che quei due erano fortunati. Avevano trovato il miglior modo per scaldarsi. Un’invidia buona, commossa. Ma altri provarono invidia rancorosa, fastidio per quel giovane amore nascente e sfacciato. Una rabbia ronzante e pungente alla bocca dello stomaco, per il tempo passato e per le occasioni lasciate.
‘Sta morendo un giorno e sta nascendo una storia’, questa l’idea di Tazio Sacelli, un dipendente Asl in sosta alla fermata; contava i giorni, era prossimo alla pensione e nell’attesa scriveva poesie.
Romano l’avrebbe baciata ma era infastidito dagli occhi degli altri. Le sue dita si aggrovigliavano nei lunghi capelli all’altezza delle orecchie.
Ora si guardavano in silenzio, dopo aver parlato per più di un’ora: anche del lavoro che non esisteva più e di quella mostra d’arte che li aveva fatti incontrare dieci giorni prima. Anche di Giorgio, che era un cafone ma aveva avuto il merito di condurla da lui, di farla uscire di casa per un vernissage che prometteva solo distrazione.
“E’ ancora aperta la mostra?” chiese Roberta.
“Chiude domani.”
“Avrà venduto?”
“Dubito.”
“Come si fa a campare di quadri?”
“Basta essere la compagna di Sazza.”
“Sazza?”
“Non pretendo che tu lo conosca.”
”Pittore?”
“Scultore. Lui sì che vende.”
“Basta anche per lei.”
“Esatto.”
“Squallido.”
“Squallido? Sono felici in due” e Romano prese a pedate un pacchetto di sigarette vuoto, che volò in mezzo alla strada e finì sotto le ruote di una moto. Teneva gli occhi bassi, parlava ma aveva in mente altro.
Adesso era anche questione di tempo. Il quarantaquattro stava arrivando, lei sarebbe salita, lui se ne sarebbe tornato a piedi. Poteva arrivare da un momento all’altro. Ci sarebbero state altre occasioni, naturalmente.
Più d’uno aveva guardato l’orologio, ripetendo alla sua voglia di casa che il solito tram si era perso nel solito ritardo, causato da un traffico feroce.
Romano era indeciso. Ora sarebbe stato troppo affrettato. Il silenzio fra loro durava troppo.
“A cosa pensi?” domandò Roberta, pentendosi per averglielo chiesto.
Romano allora smise di pensare. Lei chiuse gli occhi. Lui continuò piegando il capo sulla destra e lo stesso fece lei, adagio, aprì gli occhi, sorrise e li richiuse. Ora le sorrideva tutto il viso.
Nemmeno il tempo di gustarlo quel loro primo bacio perché il quarantaquattro arrivò con soli due minuti di ritardo: Roberta lo sentì dire da Tazio Sacelli, che aveva già in testa una nuova poesia. Avrebbe preso nota sul tram, in piedi, con una scrittura imprecisa, tremante nel traballio del mezzo pubblico.
Roberta quasi scappò via da lui. Salì. Scomparve nella ressa serale dei milanesi. Riapparve.
Romano alzò la mano destra e la salutò. Roberta gli mostrò la punta del naso appiattita contro il vetro posteriore del tram, dopo che con la mano lo aveva liberato dalla condensa.   
Romano abbassò la mano: la felicità gli scoppiava dentro, colorata e rumorosa come uno fuoco pirotecnico. Anche Roberta viaggiava nella gioia, un dolce fastidio andato a nascondersi in fondo allo stomaco.    

                                                                                                   6 - continua