mercoledì 22 giugno 2011

Maroni l'arciere esaurito

Oggi ho scoperto che il mio libro 'Maroni l'arciere', uscito nel maggio del 1994 (pochi giorni dopo la nomina di Roberto Maroni Ministro degli Interni, primo mandato) è praticamente esaurito. Non si trova più nemmeno dall'editore. Ne ho pochissime copie io, e stop. L'ho scoperto perché mi ha chiamato una giornalista de IL FOGLIO, dicendomi che aveva cercato quel libro dappertutto (anche presso l'editore Lativa) ma nessuno l'aveva più. Devono fare una serie di articoli su Bobo Maroni che, come si sarà notato, sta vivendo una stagione di particolare notorietà. Qualcuno lo vede come prossimo presidente del Consiglio. E così, adagio adagio, si sta avverando quanto da lui scritto sulla mia copia personale del libro: 'E vedrai quando sarò Presidente della Repubblica'.

IL RACCONTO DEL MERCOLEDI'

LA STECCA

La commozione genera dal cuore e sale, prende la gola, il naso e negli occhi diventa lacrime: a questo pensò mentre la musica, lenta, riempiva la chiesa e la sua voglia di mistero. Un giovane organista sfiorava con le dita i tasti, coi piedi senza scarpe i lunghi pedali di legno. Regalava note che si univano a parole in inglese, un canto d’introduzione, un corale che non sfigurava in quella chiesa, anche se avrebbe preferito liturgie protestanti, in edifici di culto del nord Europa.

Chiuse gli occhi per evitare che la musica e il canto perdessero parte della loro efficacia; non voleva lasciarsi distrarre dai molti fedeli presenti, dagli addobbi floreali dell’altare, dalla curiosità su chi avrebbe celebrato. Accettò, gradito, solo il profumo d’incenso, nuvola che dall’altare e dal cero pasquale si disperdeva nella navata.

Se apriva gli occhi, tenendo il capo volto verso l’alto, incontrava la nuca dei bassi e dei baritoni, e ancora più su il crocifisso, sproporzionato. Troppo piccola la testa incoronata di spine rispetto al tronco e alle gambe massicce. Il volto del Cristo sofferente pendeva in avanti. Fosse stato vivo, il crocifisso avrebbe visto la mensa e i sacerdoti intorno all’altare.

Avrebbe voluto la concentrazione assoluta, il distacco da ogni pensiero che non fosse il bisogno di mantenere viva la commozione: perché gli ammorbidiva il cuore e gli regalava l’impressione che avrebbe potuto diventare più generoso, più buono, amante come il Salvatore, messo in croce per noi. Ma se chiudeva gli occhi, le distrazioni giungevano dal di dentro. Una in particolare era ricorrente e fastidiosa: perché si lasciava commuovere da quel canto in musica e non da uno dei tanti sofferenti, che incontrava sul ciglio della strada o nelle notizie televisive? Ma un’immagine era ancora più violenta: anche i nazisti, nei lager, si commuovevano ascoltando musica classica, restando gelidi come il marmo di quell’altare davanti alla loro crudeltà senza perdono.

Così riapriva gli occhi, preferendo pensare che proprio quella musica e quel senso di pace lo avrebbe reso capace di gesti caritatevoli; il cuore di pietra mutato in cuore di carne grazie a quegli occhi lacrimevoli. Sollevò gli occhiali al di là delle sopracciglia, si passò gli occhi con il dorso della mano, col fazzoletto soffiò il naso.

Avrebbe voluto un canto eterno. Il coro non sbavava, l’organista centrava ogni nota, nessuna stonatura incrinava l’armonia del prologo di quella solenne celebrazione eucaristica.

Era felice: di credere (una fede dubbiosa e fedele) e di aver scelto quella chiesa per la Veglia Pasquale.

Rari colpi di tosse disturbavano la pace di quel canto. Fu nuovamente distratto dal pensiero che qualche imbecille avrebbe fatto suonare il ritornello del telefono cellulare. Dovette accettare di avere una mente che non gli obbediva, pensieri vaganti e dispettosi che indispettivano il suo bisogno di distacco.

Lentamente, come avevano esordito, la musica e il canto si spensero, lasciando nella chiesa un silenzio, ferito da piccoli rumori in sottofondo.

Ora toccava al celebrante.

Eppure glielo avevano detto, e più di una volta. Quel sacerdote aveva il malvezzo di scandire le parole con eccessiva velocità. Col rischio di mangiare le sillabe. Pezzetti di parole che si smarrivano nella sua foga d’arrivare alla fine, per non far durare troppo la celebrazione o per altri motivi che nessuno sapeva.

Lo avevano avvisato, ma un uomo in abito talare non è stato educato ad obbedire, se non al suo vescovo o al Papa.

In quel silenzio d’attesa, cessata la musica, muto il celebrante, lui aveva preso il foglio della liturgia e aveva anticipato la lettura che spettava al prete: ‘Esultino i cori degli angeli, esulti l’assemblea celeste. Per la vittoria del più grande dei re, le trombe squillino e annuncino la salvezza.’

Il sacerdote partì e questo regalò all’assemblea dei fedeli, con voce squillante: “Esultino i cori degli angeli, esulti l’assemblea celeste. Per la vittoria del più grande dei re, le trombino….e annuncino la salvezza.”

La breve pausa, frutto di consapevolezza, accentuò nei presenti la percezione che ci si trovasse davanti ad una stecca clamorosa.

Lui se ne accorse. Si guardò intorno. Vide due ragazze del coro, giovani e carine, che si guardavano negli occhi e sorridevano. In quelle labbra malizia e divertimento.

Guardò verso il possente crocifisso, che pendeva sopra il prete. Il Cristo, potendo, se lo sarebbe mangiato.