mercoledì 25 gennaio 2012

Arriva la neve!


Oggi Varese è sottosopra per via del terremoto, che alle 9.10 di stamani ha fatto sentire la sua voce poco gradita. Io ero in sala, davanti al pc, ho in effetti percepito una sensazione strana, come di un movimento non usuale, per una frazione di secondo ho pensato al terremo ma poiché tutto taceva, ho detto: 'Ma va là, solo sensazioni!'Invece la terra aveva tremato per davvero. Leggo invece ora, con maggior piacere rispetto all'effetto sisma, che domenica e lunedì è prevista neve su Varese, ben due giorni di fiocchi. Non ci speravo più. Lo scorso anno nevicò ai primi di dicembre e finì tutto lì. Quest'anno arriva tardi, speriamo duri sino a marzo.

Compagni di viaggio


La qualità dei compagni di viaggio vale molto più della meta da raggiungere.

Non aspettiamo


Se dobbiamo chiedere perdono a qualcuno, non aspettiamo domani. Se abbiamo la possibilità di alleviare, anche di poco, un dolore, facciamolo il prima possibile. Il tramonto arriva sempre troppo in fretta.

in foto: ore 17.45 tramonto dalla Settima Cappella (foto da cellulare Samsung)

Riposare la mente


E' la settimana dedicata alla salute mentale. Si riflette soprattutto sulla depressione. Tutti hanno idea di cosa possa essere la depressione, visto che tutti sono stati almeno un po' depressi, qualche volta. Ma non tutti sanno che il 30% della popolazione soffre di depressione vera, più o meno frte, per periodi più o meno lunghi. E la depressione è tremenda. Non starò qui a fare lunghi discorsi su questo male oscuro, che ci rende farfalle incapaci di aprire le ali, ancorate alla terra e alle sue paure. Dirò solo che i malati di depressione meritano il massimo rispetto. Credo poi che sia importante 'amare' la nostra mente, non abusare della sua capacità di parare i colpi. Spesso è la vita che ci sputa in faccia tutta la sua violenza; altre volte ce le andiamo a cercare. In ogni caso non pensiamo mai di essere supereroi, in grado di sopportare ogni stress. Ricerchiamo con ogni mezzo l'equilibrio interiore. Appena possiamo, lasciamo 'riposare' la mente.

Il racconto del mercoledì



METROPOLITANA

Resistere, resistere, resistere. E per quanto tempo? Per sempre, la vita intera: perché mollare sarebbe stato il naufragio nell’acqua lercia di un mondo inquinato.
Resistere, anche ora che le strade verso il buco della metropolitana erano in discesa, e la giornata era in pendenza favorevole perché era giunta, finalmente, la sera. E sarebbe stato facile lasciarsi abbracciare dalla gravità, rotolare verso il nero del tunnel. Facendosi magari trasportare dalla cascata di stranieri -bianchi, rossi, neri, come un gelato a più gusti- che colava giù verso le rotaie, lava senza rossi tizzoni di sorrisi.
No, no, no: resistere e basta, resistere ancora, stringere i pugni (e così fece con la mano destra, strozzando il collo di cuoio della sua valigia) e calare verso il metrò, e poi da lì la corsa policroma, luci lunghe e saettanti come fulmini sotterranei.
Infine la lunga scala (non quella mobile, per carità, così stracolma di pigrizia) e la Milano tutta nera, con quegli insetti di luce a molestarlo ancora, sino a casa. Dove, da padre e marito per bene, avrebbe pur potuto godere di un abbassamento di tensione: sedersi e sgonfiarsi, finalmente; liberarsi dalla troppa aria di una vita pneumatica.
Nossignore. Vivere era resistere anche lì, nel cuore del girotondo della moglie e dei ragazzi, che non era solo canto e allegria ma anche stizza, urla e litigio.
Resistere, dunque: per soffrire il meno possibile.
E lui calò nell’antro dando carbone al suo solo fuoco, convinzione senza ritorno: non mollare la preda, stringere al collo la vita senza farsi prendere da pietà alcuna.

Sulla nera pensilina del metrò sentì i consueti odori: un misto nauseabondo di plastica, di rancido, di sudore fatto di stress. Non il sudore buono dello sport, di una libera corsa fra i prati, di una partita nel campetto rionale, a nulla pensando se non a far ruzzolare la sfera dentro il sacco di corda tirato fra tre pali. Si sentiva appiccicato da un sudore guasto, quello impastato addosso da un esistere affaccendato. Ma com’era stufo di regalare alla sua sera metropolitana il solito frappè di pessimismo e vittimismo!
Così li vide. Una coppia fra le tante, ma li selezionò perché voleva trovare un’immagine bella. Ed erano belli quei due giovani. Belli da rendere plausibile anche l’ipotesi di un mondo redento. Belli e giovani, belli perché giovani, soprattutto lei.
S’avvicinò.
Baciò con lo sguardo il naso della ragazzina, una perla minuta al centro del viso. Lui pareva solo un bambino, certo incapace di tenere a bada, di governare tutta la vitale bellezza che gli si strofinava contro.
Ancora mosse qualche passo timido verso di loro. Non lo avrebbe ammesso, ma sperava di ascoltare anche qualche parola. Ne sentiva il bisogno. Ma erano troppo lontani, il metrò sarebbe giunto di lì ad un attimo. Certo, avrebbe potuto seguirli per altri minuti serotini, uno due tre quattro, ma sempre alla svelta sarebbero scomparsi alla sua vista.
Finse indifferenza e ancora tirò innanzi un paio di piccoli passi, ma non li sentiva anche perché ora tacevano, sempre più incollati l’un l’altro.
Erano teneri, sola vera luce in quelle tenebre psichedeliche. Ma presero a baciarsi con violenza, in quei primi gesti di corteggiamento fatti per far vedere che si è capaci, che si è infine grandi, che è ormai lecito provare quel gusto, togliersi lo sfizio.
Così la tenerezza che l’uomo aveva da subito provato si guastò al cospetto di un sentimento troppo ostentato per essere puro.
Provò allora fastidio per una spontaneità fasulla, fretta di correre sulla strada di tutti gli altri. Così arretrò di mezzo metro, si distrasse guardando l’orologio, si augurò che lo sferragliare della locomotiva sotterranea giungesse presto a smorzare quell’inganno.
Ma aveva bisogno ancora di loro. Così non li abbandonò. E potè notare che lei, capelli di carbone e carnagione ambrata, forse provava disagio, annegava in tutto quell’ardore di lui. Intuiva che non poteva essere vero?
Fu la ragazza a frapporre fra le loro labbra le sue dita, a staccarselo dai seni appena accennati, ad invitarlo ad una danza nell’antro.
Ora ballavano. Dialogavano, s’abbracciavano con delicatezza, ruotavano lentamente e insieme si spostavano verso il dislivello delle rotaie. Giri di valzer lentissimi, con baci e carezze e parole, fra il rumore annoiato e stolto di una giornata senza zucchero.
L’uomo li osservava di nuovo con curiosità e gusto, ora sempre più distanti da lui e dagli altri. Per caso ritrovò la sua immagine scialba nel vetro di una gigantesca reclame appesa alla parete. Da quel tremulo indizio corse alla considerazione che quasi tutte le mattine, specchiandosi nel bagno di casa, riproponeva alla sua età di mezzo: ‘Come stai peggiorando, caro il mio vecchietto! Guardati le rughe? E i capelli? Radi e grigi.’ E già si vedeva, alla svelta, tanto vecchio da poter persino morire. E insieme provava scandalo -lì, mezzo nudo, col ventre tondo davanti allo specchio del bagno- al pensiero che dentro era ancora come quei due ragazzini, con la voglia di una vita intera ma con un corpo sformato, inetto a reggere il confronto con l’anima.

La distrazione durò poco, perché voleva seguitare a vederli. Trasalì. Dov’erano scappati? Era dunque arrivato il metrò e non se n’era accorto, perso nei suoi vaneggiamenti?
Impossibile.
Frugò fra la massa. Guardò con ansia nei rari spazi di sotterranea senza folla. Li trovò infine ancora abbracciati, lontani da lui, persi al limitare fra la luce ed il buio, uniti dall’amore tanto da non far caso al baratro.
Fu un’intuizione dolorosa. E ancor prima di pensare che avrebbe potuto sbagliarsi, corse verso di loro. E dopo qualche passo capì che non sarebbe bastata più nemmeno quella precauzione. Perché il metrò annunciava il suo metallico avvicinarsi, e la massa s’appressava alla linea da non superare prima di salire a bordo, mentre i due parevano convinti dalle malìe del più tragico inganno.
Comprese che ora doveva urlare, perché se anche una possibilità su un miliardo prevedeva quella fine atroce, era un’eventualità da tranciare di netto, alle radici, estirpando la malapianta.
“No, no, attenti...” gridava e correva, ma il suo affanno era strozzato dal treno in arrivo, dal cupo fracasso dell’indifferenza.

Durò un lampo di immagini e di emozioni: due occhi gialli che si mangiavano il buio del tunnel, due giovani verso quegli occhi e poi sul bordo, lontani, sconosciuti ai tanti che già si disponevano in riga per salire sul mezzo. E verso i giovani e le piccole luci di morte un uomo impazzito, ansimante, che berciava, s’agitava e ad un certo punto lanciò verso i ragazzi la sua borsa di pelle, quasi ce l’avesse con loro, con il loro amore da celare nel nero di un tunnel. Quindi lo stridìo dei freni, il tuffo verso l’acciaio ed i sassi della massiciata, altre grida e, infine, il sospetto, la paura, la curiosità ed il dubbio dei molti presenti in quel budello sotto la terra, dentro una sera qualunque.

L’uomo dovette strapparsi di dosso tutta la sua pavidità, ma infine si inginocchiò sul limitare della pensilina, per vedere di sotto. Il metrò s’era fermato. In tempo?
La ragazza, col suo naso stupendo, unto di grasso, era distesa a poche spanne dai paracolpi del treno. Il ragazzo era mezzo sotto e mezzo fuori. Piangeva il giovane, fatto su come un pollo al cartoccio. La giovane mostrava indifferenza: era svenuta? morta? e gli occhi erano aperti o socchiusi?
L’uomo balzò di sotto.
Il macchinista del metrò pareva un impiccato, cui è stata sfilata la corda dal collo per una grazia dell’estremo istante.
L’uomo si strinse contro la ragazza con tutta la potenza della vita e lei, forse, disse adagio adagio: “Papà.”



Il presente racconto è tratto dalla raccolta FAX D'AMORE (Carlo Zanzi -Macchione Editore marzo 1998)