mercoledì 27 luglio 2011

Emanuele beccato al volo

Le agenzie battono l'ufficialità del passaggio di Emanuele Pesoli (difensore dal Varese 1910) al Siena, in serie A con mister Sannino. Ed io, da buon cronista, non mi faccio trovare impreparato. E' mio vicino di casa, quindi lo becco al volo prima che prenda l'auto alla volta della Toscana. Aggiungo quindi una foto della serie: 'In posa coi campioni' e lo saluto. E' un ragazzo simpatico, ma soprattutto un ottimo difensore. Certo, da tifoso del Varese mi spiace che se ne vada, ma realizza il sogno di ogni bambino che gioca a pallone: la massima serie. Gli auguro di completare tale sogno, andando a giocare prima o poi nella grande Inter (si noti la mia tenuta). Ma questa è un'altra storia!

IL RACCONTO DEL MERCOLEDI'

L’omino di Orino

Che fare la pipì si potesse dire pisciare (che tradotto vuol dire pisàa) l’ho scoperto molto presto, da mio nonno Gilberto. Che il modo elegante per dire pisciare fosse orinare l’ho imparato non molto tempo dopo, alla colonia estiva di Milano Marittima. Avevo cinque anni. Me l’ha svelato il sorriso divertito di Luigi, un ragazzetto più vecchio di me, avrà avuto sette, otto anni, che veniva da Vilminore di Scalve. Un bergamasco furbo, che divenne subito mio amico.

“E tu da dove arrivi?” mi aveva chiesto un pomeriggio in spiaggia. Stavamo come prigionieri di un lager sotto una lunga tenda da beduini del deserto. Eravamo appena rientrati in ombra, dopo i venti minuti di cura elioterapica, dieci a pancia in su e dieci a pancia in giù, a friggere come hamburger sopra la sabbia rovente.

“Sono di Orino” era stata la mia risposta. Sincera.

“Orino?”

“Sì, Orino, perché?”

“Ma siete dei piscioni al tuo paese, allora!” era stata la risposta di Luigi. Seguita da un sorriso. Poi mi ha spiegato. Era svelto di idee quel bergamasco. Saggio a suo modo. Concluse: “Secondo me devi cambiare nome al tuo paese. Così non ti prendono in giro.”

“Cioè?”

Ci aveva pensato qualche attimo e poi: “Io farei Omino. Sei di Omino, non di Orino. Tanto nessuno lo sa dov’è Orino, non è mica Milano.”

“Omino? Ma anche omino, è un uomo piccolo…”

“Meglio un uomo piccolo che uno che orina, che piscia sempre, no?”

Mi aveva convinto. Così per tutti quei ragazzini lombardi, finiti a Milano Marittima per un mese di vacanze a basso costo, di giorno in giorno più neri per il sole e lo sporco, io ero di Omino, vicino a Varese. E ogni volta che lo svelavo, se Luigi era al mio fianco se la rideva, mostrando i suoi dentini guasti e la soddisfazione per aver dato a un amico un buon consiglio.

Poi venne la telefonata che mi tradì. Mi avevano suggerito di parlare a bassa voce al telefono, ma chi se l’era ricordato? Così avevo raccontato a mia madre, con voce forte e gioiosa (finalmente la sentivo) soprattutto due cose: la scoperta di Orino e la storia di suor Clementina. A dispetto del nome, più appropriato per una donna minuta e gentile, sorridente e sincera, la suora era di alta statura, robusta, scorbutica, con un naso importante che faceva ombra a tutto il viso ma non ai baffetti, peluria dispettosa che ancor più negava grazia ad un volto da maschio. E per noi ragazzini, quella era suor Baffettilde. Questo raccontai a mia mamma, la salutai e la baciai sul duro della cornetta, che appoggiai sopra l’apposito sostegno, raggiunto in punta di piedi. Svoltai l’angolo del corridoio e chi vidi? La schiena e il velo di suor Baffettilde. Forse mi aveva sentito. E se c’era rimasta male per il soprannome?

Arrivò il giorno della conferma dei miei timori, il tempo della punizione per la mia villania, la pena per la mancanza di rispetto, dovuta a quell’abito sacro. E adesso racconto. Dopo il pranzo ci toccava il riposino pomeridiano, tanto amato dai grandi quanto snobbato dai piccoli. Un’ora nella penombra e nel caldo, a curare mosche e zanzare sognando tuffi in mare e ruminando nostalgie di casa e di abbracci. Il giorno dopo la telefonata rivelatrice, suor Clementina mi chiamò: “Vieni, ti devo parlare. Salirai dopo in camerata” e mi regalò un quarto di sorriso; ma gli occhi sapevano di vento e di tempesta. Salutai Luigi e la seguii. Non ero mai entrato in quel locale. Chiusa la porta, suor Baffettilde mi prese un orecchio, cominciò a stropicciarlo e mi si pose davanti. Arrivavo più o meno all’altezza del suo seno, schiacciato dalle proibizioni della tonaca da suora. Non mandava un odore gradevole. Spinse in su il mio mento, per dire che avrei dovuto guardarla negli occhi. Ma io le guardai i baffi.

“Le bugie non si dicono, lo sai?”

Fui sollevato. C’entrava la storia di Orino-Omino, non il soprannome beffardo.

“Mai” proseguì la suora. “Dalle piccole bugie nascono le menzogne, che sono bugie grosse, da confessare subito.”

Bene, la mia era solo una piccola bugia. Non capii allora perché mi prese di nuovo l’orecchio, sempre lo stesso, quello destro, già rosso per la strizzata di prima.

“Non cambiare il nome del tuo paese. Non devi vergognarti di abitare a Orino. Mai più bugie: promesso?”

Avevo solo cinque anni, ma intuii che lei diceva Orino ma avrebbe voluto dire ‘Mai più suor Baffettilde, capito, piccolo moccioso?’

“Promesso, suora, promesso….mi scusi.”

“Bene, vai a dormire, adesso.”

Allora non compresi perché, dopo quell’incontro, la sera stessa, cominciò a diffondersi la voce che io venivo da Orino e non da Omino, quindi un po’ puzzavo per forza di pipì. Accusai Luigi, che spergiurò di aver mantenuto fede al segreto. Non potevo immaginare che suor Clementina potesse essere così vendicativa. Oggi, alla mia età, poco riesce a stupirmi, e sono ormai certo che fu suor Baffettilde a pungere come l’ago di una siringa quel gruppo di bimbi in vacanza, facendo scorrere il liquido della storia del mio paese che sa di pipì. Un paese al quale, sinceramente, fossi stato fra i padri fondatori, avrei regalato un altro nome. Eppure sono di Orino, che tradotto vuol dire: ‘Epür vegni da Urììn, ca l’è ‘n gran bel paès!

Carlo Zanzi


questo racconto è già stato pubblicato sulla rivista Menta & Rosmarino