mercoledì 19 ottobre 2011

Una lotta per la vita


Sto leggendo un bel libro di Enzo Bianchi, priore di Bose (foto da Google immagini) dal titolo UNA LOTTA PER LA VITA. (Edizioni San Paolo). Sottotitolo: Conoscere e combattere i peccati capitali. Rispetto alla misericordia di Dio, si legge "...la misericordia di Dio sempre rinnovata sulle nostre cadute deve tenerci lontano da eccessi di sensi di colpa: 'Se il nostro cuore ci accusa, Dio è più grande del nostro cuore!' (1Gv 3,20)

Interessante poi, all'inizio del libro, quando Bianchi sostiene la seguente tesi: è la paura della morte in qualche modo la causa di tutti i peccati. Come dire: quell'epilogo ineluttabile e tremendo spinge ad ogni sorta di 'indigestione' di vita. Posso concordare, anche se la paura della morte è -secondo me- anche all'origine di 'indigestioni' positive di vita, di slanci generosi, di progetti a vantaggio dell'umanità.

Abbasso il cinipide

Il mio amico Berny, direttore del Parco del Campo dei Fiori, sabato sera a cena mi ha dato una drammatica notizia: a causa di un pestifero insettino d'origine cinese, il cinipide, quest'anno avremo un raccolto scarsissimo di castagne. E' un flagello che sta rovinando la coltura di tutto il Nord Italia, un insetto dannoso contro il quale c'è ben poco da fare, se non attendere che il suo ciclo vitale si esaurisca. E in effetti avevo notato una penuria del frutto zuccherino, da me tanto amato.

IL RACCONTO DEL MERCOLEDI'

BACI AL CIOCCOLATO

Era mattino inoltrato. Non la luce intensa gli aveva offerto l'indicazione, perché i colori nella camera da letto erano bigi, spenti, ricoperti da una patina grigiastra. Aveva saputo del grado di maturazione del giorno dalle lancette dell'orologio, ma ancor prima l'aveva presagito da un torpore invincibile, da una spossatezza paragonabile a quella di chi ha poco riposato, dopo una gran fatica. Nel letto si rigirava solo, privo di una donna che gli avrebbe fatto notare quel suo perder tempo in un sonno non più utile, quel suo poltrire in un dormiveglia persino dannoso, per il corpo e per lo spirito. Né aveva accanto una donna che quello spazio inconcludente e fiacco avrebbe potuto colmare con il suo profumo, con due braccia nude, con baci e lunghi capelli.

S'era risvegliato solo e, oltre un momentaneo disagio, complessivamente felice; in debito con la vita, tanto da risolvere in pochi scorci di pensiero il sottile malumore.

Si levò con la bocca impastata, i muscoli accartocciati ma l'anima già desta. Prima di buttare verso i piedi coperta e lenzuolo, cadde in un dolce rimpianto. Sentì, vide, gustò il piacere di una compagna, della compagna che era stata con lui per molto tempo, amante generosa, che tutto gli aveva insegnato prima d'andarsene. Donna che ringraziò, allontanando con violenza il pensiero e la tela che lo fasciava.

La colazione fu presto consumata: caffè nero pece, senza zucchero, poche gocce di latte, cinque biscotti secchi e null'altro. Non dovendo recarsi al lavoro prese con sé tempo aggiuntivo e nella pausa lesse, rilesse e lesse ancora, più e più volte, una frase di Alex Langer: Più lentamente, più in profondità, con più dolcezza. Sentì di dover riconoscenza alla vita e ad Alex, cioè ad Alex, che era vita, com'era vero che l'esistenza nasceva, cresceva e moriva attraverso incontri con uomini capaci di messaggi. Come l'amico Alex, appunto. E come Barbara, la sua donna. A ben rovistare in se stesso non era affatto solo. Per questo si catalogava fra i soddisfatti.

Con lentezza e dolcezza, per quella voce che in lui suggeriva il da farsi, fece scorrere verso l'alto la tapparella, già per metà sollevata perché la notte fosse meno notte. Entrò nella cucina un mattino di luce ordinaria: né esuberante né troppo posata. L'aria era fresca e quel vento di città gli risvegliò il corpo, che s'appaiò all'anima.

Andò all'armadietto dei Baci di cioccolato. Frugò, compiacendosi che nel cilindro di cartone color carta da zucchero ve ne fossero ancora oltre la metà. Ne raccolse un paio, li appoggiò sul tavolo, li confrontò. Erano in apparenza gemelli omozigoti ma lui decise per quello di destra, più alto in un millimetro. Ripose il secondo, tornò a sedersi. Scartò il prescelto, curando di non scalfire la carta di stagnola.

Benché la città avesse guadagnato spazi di cucina con i suoi molti, attutiti rumori, lui riuscì a notare il canto della cartina d'argento, diverso dall'altro, musica prodotta dal sottile involto di carta oleata, che recava, scritta in azzurro, una frase riconducibile sempre all'amore. Dopo aver stirato con il pollice e l'indice il mattutino messaggio, lo lesse a bassa voce, come fosse presente qualcuno cui trasmettere il contenuto. Era una citazione da La Fontaine: Amore, amore, che schiavitù è l'amore!

Ripose la cartina scritta insieme ad altre, schiacciate fra le pagine di un'agenda. Prese fra le dita il Bacio di cioccolato, collinetta con la sua cima, calotta marrone sotto la quale si celava la nocciola. Avvicinò quel piccolo piacere alle nari, alla bocca. Dovette lottare per crederci ancora. Quando vinse la convinzione che l'amore davvero era anzitutto vista, olfatto, attesa e riconoscenza, mai consumazione, posò di nuovo il cioccolatino sul tavolo, lo riavvolse nella carta argentata e lo lasciò in un recipiente di latta, che ne conteneva molti altri. Dopodiché pensò fosse giunto il momento di lavarsi, di radersi, di vestirsi, perché cresceva il desiderio di scendere per strada, fra la gente, dentro un mattino che pareva destinato, leggendo sulle pareti e sugli oggetti, a mutare in tempo buono, con sole, luce e maggior allegria sui volti dei suoi concittadini.

Credeva nel Dio del bello. Amava la bellezza nelle donne come gradiva i fiori, la natura senza le storpiature della metropoli, la buona musica e tutto quanto fosse colori e innocenza, calore, morbidezza, senso di pace e di tranquillità; non minaccia, non male in potenza o in atto. Non aveva ancora trovato una ragione sensata al brutto. Né, per la verità, sarebbe stato in grado di elencare più di tre o quattro motivi, per trasmettere a qualcuno la sua preferenza per il bello, scritto in un corpo di donna. In un corpo, in un sorriso, nella voce, negli occhi, nel profumo, nel perimetro di quella frazione di umanità che completava la sua mancanza. Purché si trattasse di una donna capace di riflettere la bellezza. E doveva ammettere che la bellezza, per come la intendeva lui, amava giocare con più passione nelle promesse di un corpo d'adolescente o di giovane.

Camminava ed ogni passo era gioia: di esserci, di possedere un paio di scarpe che facilitassero il suo procedere lungo la via di bitume, di poter respirare, di poter disporre di una nuova giornata, che ben prometteva. Scelse, per giungere al bar Colonne, il tragitto più lungo, ma per quanto misurasse i passi e frenasse lo slancio della sua età di mezzo, fu ai tavolini pochi minuti dopo il pensiero che avrebbe scelto cioccolata con panna.

La ordinò, attese e in quello spazio di latenza osservò una curatissima pianta di gelsomino rampicante, che addolciva un'ampia fetta della zona antistante il bar, più simile, grazie ai minuscoli fiori bianchi, ad una profumeria. Sì, forse sarebbe stato sensato strapparli, ma solo a servizio di una bellezza maggiore. Per far contenta una donna. Quella poteva essere una buona ragione: se ne convinse e accolse la cioccolata, ringraziando Francesco, il cameriere.

Aveva consumato metà tazza di cioccolata. La rimanente era fredda, ma ancora gradevole. Più gradevole la vista di una bellissima ragazza che, in compagnia di un'amica -carina perché giovane- chiacchierava senza avanzare il tempo di prender fiato. La osservò con cura, celando una buona metà del suo sguardo dietro il bordo della tazza. Sì, le somigliava. Di Barbara, della sua Barbara portava in dote gli occhi chiari, i capelli biondi, la carnagione rosata in estate, cerulea in inverno, la passione per gli orecchini, le orecchie minute, il naso affilato, non piccolo ma neppure invadente: un naso fatto apposta per lei, giusto, come corretta, ben disegnata, senza spigolature era ogni sua parte. Era bella come Barbara, quando la sua donna aveva quell'età; più bella della Barbara quarantenne che infine lo aveva mollato dopo averlo ammirato, adulato, sopportato, perdonato, capìto, accettato, consolato...dopo averlo amato per vent'anni. Barbara che lo aveva tradito con un imbecille, e lui l'aveva tradita per ripicca, e per curiosità, con un paio di ragazzine e con una stagionata megiera che si vantava di conoscere ogni posizione. Era stato a puttane, nei momenti peggiori. Barbara che era fatta anche di errori, tanto che s'era ancorata a quei suoi tradimenti senza valore per andarsene definitivamente, giustificando il suo perché tradita, nel profondo prima che dentro un letto altrui, da un marito incapace di novità.

Volle osservare ancora la bionda, che rideva, che aveva notato quei suoi occhi attaccaticci, che faceva la ritrosa, ma insieme disegnava sul viso le sfumature di chi accoglie con piacere gli sguardi di un uomo. Avrebbe potuto rimorchiarla? Cercare il dialogo, fare il cascamorto finché, parola dopo parola, lusinga dopo lusinga, sottinteso dopo sottinteso, sarebbero finiti abbracciati in un letto, vergognosi, eccitati, a recitare la parte degli amanti, sino al grottesco finale, alla farsa dell'asciugamano? Perché l'amore aveva le sue leggi, il suo picco e la sua discesa rovinosa a valle.

Era piacevole quel loro gioco a rimpallarsi gli sguardi, immaginando...ma l'amore era più attesa che immaginazione, un'attesa che lui non avrebbe mai più risolto, rovinando la poesia, comunque imperfetta, dei sentimenti che facevano pulsare il mondo.

La biondina s'alzò. Era più alta di Barbara, se possibile ancor più desiderabile. Fissandola dal suo punto d'osservazione ci si poteva illudere che camminava, per via, un essere del tutto perfetto. La seguì sculettare, la vide arrestarsi, tornare al tavolino (aveva dimenticato una piccola agenda), sorridere a Francesco che le aveva regalato un complimento, raggiungere l'amica e sparire fra le auto parcheggiate, lasciando note sparse del canto universale dell'amore.

Stava già per alzarsi quando - chiamato Francesco per il conto - fu a sua volta interpellato da una esuberante voce femminile. Si volse con flemma, cercando il tempo per indovinare, prima della conferma visiva, chi fosse l'amica che conosceva il suo nome. Immaginò un paio di persone. Infatti era Valeria, una delle due ipotesi. Amica di Barbara e, per riflesso, amica sua, quella donna era stata protagonista in più di un suo sogno. Ma a letto con lei non c'era mai stato: perché era amica di Barbara, perché Barbara gli bastava, perché Valeria era sposata, con figlio, con un marito che non gli era mai stato antipatico. Ma Valeria era, oggi, la sua controparte in gonnella: separata in attesa di divorzio, viveva insieme al figlio Luigi, maggiorenne. Portarsi a letto Valeria sarebbe stata la naturale conseguenza di vicende che, anziché allontanarli, li avevano accomunati dentro un' identica stanza.

"Ciao." La donna era a tre spanne da lui. Accaldata, era giunta in compagnia di un gradevolissimo profumo. "C'è un posto? Te ne stavi andando?"

"E anche fosse? Ora ci sei tu."

"Odio far perder tempo." Scherzava ma, da attrice, pareva scocciata per davvero. "Ne ho già avuto uno che m'ha sopportata."

"Non era il contrario?"

"E chi se lo ricorda?" e una risata, convinta, senza rimpianti, o forse così intrisa di nostalgia da rendere impresentabile un'ammissione. "Quando mi vieni a trovare?"

"Cosa ti posso offrire?" chiese lui.

"Rispondi prima a me."

"Quando vuoi."

"Solita palla!"

"Facciamo domani, a quest'ora?"

"E facciamolo."

"Facciamo che cosa?"

Valeria sorrise. Non arrossì. Era una donna sicura, almeno in apparenza. Ci aveva pensato il tempo a liberarla dai suoi pochi pudori. "Non siamo grandi abbastanza?" gli disse, sfiorandogli il dorso della mano.

Era ancora una gran bella donna. E gli piaceva.

"Ti trovo bene" le disse allontanando la mano, centro di sensazioni gradevoli che gli stavano correndo dentro.

"Non mi basta."

"Sei bella."

"Non mi basta ancora."

"Sei molto bella."

"Ma ti piaccio?"

Silenzio.

"Se devo tirare le somme dalle tue promesse, mai mantenute..." disse Valeria, che ora non scherzava più.

"Mi basta vederti...bella...un po' si cambia." Era imbarazzato.

"S'è rifatta viva?"

"Barbara?"

"E chi, se no? Ne hai in giro altre?"

"Per chi mi hai preso?"

"Allora, saresti cambiato. Racconta."

"E' cambiato l'amore."

"Esplicita."

"Te l'ho già detto. Mi basta osservarti...e attendere."

"Non ti seguo."

"Non abbiamo la stessa storia?"

"Non s'è provato mai abbastanza. E ci sono curiosità..."

"Sfizi" disse lui "Non mi hai ancora detto che ti debbo ordinare."

"Fai tu" disse lei. "Sfizi? E chiamali come ti pare. Se ti suona bene."

"Poi che resta?" domandò lui, prima d'ordinare due analcolici.

Il tempo degli analcolici, freschi e piacevolissimi, fu anzitutto una lotta di sguardi, di battutine, di sottaciuta malizia, di allusioni. Ma la sua domanda non si perse nella calura del mezzogiorno.

"Non m'hai risposto, Valeria. Che resta, dopo la farsa?"

Silenzio e il chiacchiericcio degli altri clienti.

"Resta meno di un sogno" concluse lui. "Questo, almeno, è il mio pensiero."

"Bel pensiero." Valeria pareva sconcertata. "Profondo, soprattutto profondo."

"Sfotti?"

"E che dovrei fare? Mi sputtano e tu...tu fai il mistico."

"Inutile aspettarsi un applauso dagli altri. Che vuoi che capiscano? Quindi" prese fiato "...quindi facciamo questo pomeriggio.”

"Bene" disse lei.


il presente racconto è tratto dalla raccolta 'Fax d'amore' (Macchione Editore 1998)