venerdì 2 novembre 2012

Quel giorno che tremò la notte 16



SEDICI

Don Marco accostò a destra. La scarsa luce pubblica si spense. Tenne accese i fari e scappò fuori dall’auto. Faceva freddo. Era solo. Il buio ruggiva. Capì subito che era il terremoto, si fece il segno della croce e in quel gesto, anzitutto, un grazie per essere finito all’aperto, lontano dalle case, rada la vegetazione, alberi di basso fusto. Vide dietro di lui un’auto che si fermò a una decina di metri. Uscirono alla svelta, erano più d’uno. Sentiva le loro urla: “Cristo Santo, ma che cazzo sta succedendo!”
“Fuori, saltate fuori.”
“Tranquilli….siamo all’aperto.”
Poi silenzio, tutti, ad ascoltare quella mostruosa ribellione.
Don Marco si appoggiò al cofano ancora caldo. Guardò verso i piedi, controllò che una fenditura della terra non lo inghiottisse. Pensò di andare verso quell’auto, fece qualche passo, tornò indietro, si mise le mani nei capelli e pensò che stava durando una vita, che le case sarebbero crollate, che gente sarebbe morta. 
Vide altre luci, altre auto lontane, ferme, immaginò gente impaurita come lui. Qualcuno si stava avvicinando. Ormai la terra non tremava più.
“E’ finito..è finito…cazzo!” urlava qualcuno, nel buio.
“Sta bene?” disse a don Marco un giovane, avrà avuto trent’anni.
“Sì, e voi?”
“A posto…la fine del mondo, sembrava la fine del mondo…”
“E’ andata via la luce” disse don Marco “ma so dove siamo. Voi siete di qua?”
“No.”
“A tre chilometri c’è un paese, poco avanti c’è la deviazione” disse il prete. “Io vado là, avranno bisogno di aiuto…sarà crollato tutto.”
“Come si fa a continuare? La strada? Ci saranno voragini…e non si vede una madonna” disse l’amico del primo arrivato, giovane anche lui.
Don Marco pensò se era il caso di andarci a piedi o di rischiare con l’auto. Forse erano più di tre i chilometri, quattro, cinque, e con quel freddo. Ma ciò che lo convinse fu il pensiero che i fari della sua auto sarebbero serviti per fare luce sulla tragedia.
“Io vado” disse ai due giovani e si mosse per tornare in auto.
“Ma dove va? Stia qui… se viene un’altra scossa? Non si vede niente. E le strade?”
“Le conosco bene” disse don Marco. “Qui mi sembrano praticabili.”
“Aspettiamo che faccia giorno.”
Don Marco non rispose. Salì e accese il motore. Ripartì adagio, valutando le condizioni dell’asfalto. Guardò nello specchietto se qualcuno lo seguiva. No, avevano preferito l’attesa. La deviazione per il paese arrivò presto. Mise la freccia a destra, per abitudine. La tolse. Non serviva. In quella notte ferita, in quell’angolo d’Italia nessuno era per strada. Fatta la deviazione avvertì un nuovo tremore, una nuova scossa, niente rispetto alla prima. Ma ebbe paura. Rallentò. Guardò la corona del rosario. Diede un’accelerata verso le case. 

                                                                                                   16 - continua

Quel giorno che tremò la notte 15



QUINDICI    

Romano fissava la lampadina che pendeva sopra il suo naso. Era indeciso se alzarsi a spegnere la luce o starsene lì sotto; si sarebbe alzato solo per uno scrupolo da ecologista. Vide il vecchio lampadario dondolare, adagio, movimenti sempre più ampi. E col dondolio un rumore profondo, come di tuono prolungato, che non si risolve nel silenzio. Vide aprirsi una crepa sul soffitto, si voltò verso Roberta, la toccò per svegliarla. Quando la ragazza soffiò adagio adagio un ‘Che c’è?’ il letto tremava, il  comò si era spostato dal muro, la specchiera era caduta a terra con un fracasso di vetri che svegliò la ragazza. Capì che qualcosa di grave stava succedendo, un risveglio incredibile.
Romano era nel panico, perse il controllo, con il terrone nel corpo inquieto: “Cazzo…cazzo…” urlò, buttando via il lenzuolo e la coperta come fossero di fuoco.
“Terremoto…no no” gridò lei.
I primi calcinacci si staccarono dal soffitto finendo sul letto: sottili, solo polvere. La luce si spense. Nel buio il ringhio del terremoto era atroce, rumore amplificato dalle suppellettili che cadevano, dai pezzi di muro e di soffitto che finivano sul pavimento, sul letto.
Senza ragionamento, Romano strinse un braccio di Roberta e la trascinò giù dal letto, tirandola verso la porta e l’uscita, ma inciampò subito nel buio. Cadde e cadde anche lei. Si alzò e sentì un rumore secco davanti a lui, tastò, capì che doveva essere la porta della camera. Fece per rimettersi in piedi, urlò: “Usciamo!” ma venne investito dalla parete, che si sbriciolava davanti a lui. Roberta piangeva e si lamentava per le prime ferite. Strappò dal letto la coperta e il lenzuolo, si fasciò, gridò che dovevano scappare sotto il letto, stava venendo giù il soffitto. Di fianco era tutto bloccato dalle rovine della casa. Riuscirono a infilarsi sotto, trovando un  varco sul davanti. Si rannicchiarono, si fasciarono nei pezzi di tela. Avevano in bocca polvere e piccole scaglie di mattone. Roberta aveva un dolore fortissimo al braccio destro. Romano pensò che era la fine. Intorno a loro la terra ruggiva, esalando odori nauseabondi. Un peso li schiacciò, riducendo lo spazio e appiattendoli a terra. Romano si riparò la testa, picchiò il mento, il naso, la bocca sul pavimento, lercio per l’incuria di mesi. Avvertì un dolore insopportabile ai denti.  Roberta si sentì oppressa, non riusciva a respirare, sentì il potere della morte nel suo corpo, perse i sensi.
Romano, ferito e cosciente, sentì che la pressione della casa sopra di lui aumentava lentamente, il rumore perdeva potenza. Arrivò il silenzio. Un conato di vomito gli si bloccò in gola.   
   

                                                                                                         15 - continua