mercoledì 14 gennaio 2009

Scrittori

Lo scorso 11 gennaio Sergio Romano, sul Corriere della Sera, rispondeva ad una giovane aspirante giornalista-scrittrice, che chiedeva lumi. Romano offre alcuni utili consigli (leggere molto eccetera) e conclude dicendo che dovrà essere "disposta a sopportare le pene di uno scrittore, eternamente torturato da due sentimenti contraddittori: la convinzione di essere bravo e il timore di non esserlo." Io, da anni, mi rendo disponibile a questa massacrante pena, che estenderei, nel mio caso, ad ogni attività. Come dire: quando si è in buona, ci si sente bravi, in tutto; quando cala come un sipario la malinconia, ci si ritrova incapaci, in tutto, naturalmente. Ma nella scrittura in particolare, questo lavoro-non lavoro, questo sfizio che inganna l'anima, che la esalta e la tiranneggia, questa vocazione alla solitudine, al silenzio, alla introspezione che, spesso, fa male.
nella foto di Marco Zanzi, paesaggio invernale della vicina Elvezia

Dare la vita

Scusate se continuo a parlare di morte. Fra le mie molte riflessioni di questi giorni sul tema, pensieri che mi hanno regalato anche tanta tristezza (direte: perché ci pensi? risposta: a volte sono i pensieri che pensano per noi), eccone uno positivo. C'è un solo modo per valorizzare la morte, per renderla accettabile, per darle un senso: la morte come porta aperta alla vita. Ma non vita come resurrezione. Sì, anche quello, ma ora pensavo alla tua morte, che regala la vita a un altro. Come per Massimiliano Kolbe. Come per i tanti che hanno detto: "Tieni, ti dò la mia vita affinché tu possa vivere." Seguendo il Maestro, il Crocifisso. E chi è genitore sa bene che tale esito può diventare persino auspicabile. Tutti i padri e le madri, credo, almeno per un attimo, hanno pensato che sarebbero in grado di dare la vita per un figlio.
nella foto di Marco Riganti, uno dei molti crocifissi della Val Gardena