martedì 13 novembre 2012

Quel giorno che tremò la notte 28



VENTOTTO

Il canto finale di quel funerale di massa ebbe inizio. Don Marco era molto stanco ma resisteva in piedi, una ridicola sofferenza per capire qualcosa del dolore vero. Immaginava che sarebbe stato impossibile comprenderlo, reggerlo; ma alla fine –considerava- molti arrivavano a sopportarlo, naufraghi che lottano perché fa più paura la morte di tutta la fatica del vivere.
Avrebbe voluto essere invisibile, lui, solo, al cospetto dell’assurdità. Il cattivo odore del suo sudore gli saliva al naso, gocce sulla fronte, una fastidiosa umidità in tutto il corpo. La preghiera era penosa e vuota di speranza. “Persino un prete è ridotto così” si disse, e le ultime note del canto salirono al cielo, un cielo smagliante, felice, irridente per il troppo sole, sorto a dar luce alla tragedia.
Cominciò la lunga operazione del trasporto delle bare. Il silenzio di minuto in minuto si riempiva di voci, riaccese dalla speranza rinata con la celebrazione; ma era più che altro la voglia di dichiararsi ancora vivi.
Don Marco restava immobile, cercando di intuire quale fosse la bara 123. Cominciò a girare fra le casse, e come lui tante altre persone. Gli ultimi saluti, gente in ginocchio, muti, qualche gesto di disperazione composta, piccoli pugni contro quel legno lucido, come a voler svegliare chi dormirà senza fine. Altri vagavano come in un labirinto, non ritrovavano la via d’uscita verso la felicità.
“Qualche parente?” gli chiese un uomo sulla sessantina.
“No, no” disse don Marco.
“E’ fortunato” rispose, con un sorriso sbieco che prese l’andazzo di una smorfia.
Don Marco volle dare a quelle labbra scomposte un senso, che più o meno suonava così: ‘Per forza, i preti non hanno parenti, i preti non hanno figli, i preti non capiranno mai un cazzo della vita vera. La loro vita che puzza d’incenso è comoda e falsa.’
Fu costretto a dargli ragione, a convenire con quel pensiero malandrino. Ma non era più disposto ad accettarsi così. Riprese la ricerca, bastava seguire i numeri, ben visibili di fianco al feretro. Così arrivò nella zona della 123. Li vide da lontano, un padre e una madre, dovevano essere sicuramente i genitori di Romano. Lui, alto, reggeva come una pianta dal tronco robusto la sofferenza di lei, che si appoggiava al solo sostegno rimasto, dopo quell’addio che nessuno si aspettava. Una chiamata al cellulare, vado via qualche giorno, tranquilli, tutto bene, poi un’altra chiamata che lascia intuire la tragedia, e un passo più in là il riconoscimento di un figlio sventrato, che non si è potuto salutare come si deve. E l’esistenza è finita. Per tutti.
Don Marco fu sul punto di continuare il cammino, voleva presentarsi, vedere i loro volti, ma si fermò: non avrebbe trovato parole, se non parole di prete, che in quel momento della sua vita erano un canto stonato. Restò nel sole, ogni tanto metteva la mano a visiera, osservava i due che restavano immobili, chiudeva gli occhi, pregava.
Vennero anche per la bara 123, la sollevarono e il piccolo corteo prese la direzione del carro funebre, assegnato a quella morte. Volle seguirli da lontano. Considerò che in due, che un padre e una madre avrebbero condiviso, e quel boccone amaro si sarebbe diviso a metà. Forse ce l’avrebbero fatta, abbracciati così, dopo l’abbraccio che aveva generato Romano. Gli nacquero dentro le immagini di quel giovane, che era stato un bambino; lo vide correre, divertirsi, lo vide crescere, faticare nello studio, emozionato per i primi amori. Un sentimento ambiguo di rabbia e commozione, protesta e compassione gli si formò dentro e lo invase. Si fermò e si ritrovò senza un pensiero preciso inginocchiato, ad abbracciare una bara sconosciuta. E il pianto salì finalmente a liberarlo.     
    
                                                                                28 - continua