giovedì 13 dicembre 2012

Vicolo Canonichetta 19



Diciannove

“Non urlare” disse Matilde a Giulio.
“Scusami”
Da via Veratti svoltarono a destra per via Sacco, attraversarono la strada proprio di fronte al portone principale.  Fecero ingresso nel cortile di ghiaia, sagrato laico del Palazzo. I loro passi facevano rumore. Alcuni piccioni si levarono in volo, puntando alla grande aquila sopra la meridiana, con la scritta MERIDIANVM LOCI HORAEQVE FONS.
“Lì…non c’è nessuno.” Giulio indicò le quattro panchine, subito entrati sulla destra.
Si sedettero. Il sole, ancora alto, era alle loro spalle. Videro sedersi sulla panca di fronte a loro, ad almeno trenta metri di distanza, due giovani. Matilde per un attimo pensò a Sofia e all’albanese, ma si tenne il dubbio.
Giulio ora controllava il tono della voce. Doveva sforzarsi, avrebbe gridato. E quando capiva che il pianto arrivava si lasciava cadere, adagio, sul suo collo, gli occhi contro la spalla.
Matilde non era contrariata per quel cambio di programma. Aveva chiamato lo studio dell’avvocato, s’era giustificata per il contrattempo, aveva concordato che si sarebbe rifatta viva lei. Aveva anche pensato di cambiare angolo di città o di tornare a casa ma a Giulio andava bene così.
Lui parlava e lei ascoltava, gli accarezzava i capelli. “Capisci che non sono preoccupata?” gli disse, quando stavano seduti lì da almeno mezz’ora.
Parlava e se non parlava piangeva, e quando smetteva di piangere aveva altro da confidare alla moglie. Era come se lo avessero spellato vivo: vulnerabile e felice. Le raccontava di tutto, anche episodi del passato, non solo i fatti di quella giornata diversa.

Era estate, l’anno prima. Giulio era sul balcone. I gomiti s’appoggiavano alla ringhiera. Aveva le braccia piegate. Il sole era caldo, mancava il fiato per l’afa agostana. Aveva fatto caso alla sua pelle: piegata, raggrinzita all’articolazione. Una pelle vecchia. Una pelle da vecchio. Non sarebbe ringiovanita più.
   
Era primavera, un paio d’anni prima. In moto, Matilde e Giulio. Una delle rare uscite. Giulio, preferibilmente, sulla moto ci andava da solo, o con qualche amico. Quel giorno le aveva detto: “Stringiti forte...” ma non aveva aumentato la velocità. Perché solitamente quando avvisava Matilde di agganciarlo meglio, era perché avrebbe dato gas. Quella volta aveva quasi rallentato, eppure le aveva detto “Stringiti forte” perché la strada davanti a lui ballava, intuiva buche che non esistevano, le sue braccia tremavano, doveva stringere il manubrio con una forza tale, che gli erano venuti i crampi alle mani.
   
Erano andati al funerale di un parente, morto più che novantenne. Ricordava ancora la data: dodici marzo duemilatré. Se la ricordava perché la sera avrebbe giocato l’Inter contro il Monaco, per la Coppa Uefa. Davanti alla fossa, mentre i becchini facevano calare la cassa con le grosse funi e qualcuno gettava manciate di terra sopra il legno e gli addetti si davano l’un l’altro indicazioni, per evitare di far cadere con troppa violenza il povero morto, Giulio aveva avuto un giramento di testa. “Ma stai bene?” gli aveva detto Matilde, che lo aveva sorretto. Senza di lei, forse, sarebbe scivolato di sotto. S’era messo a pensare, Giulio, che anche campando a lungo come quel vecchio, metà strada l’aveva già percorsa.

Non erano ancora sposati, Giulio e Matilde. L’avrebbero fatto l’anno dopo. Passeggiavano sul lungomare, dopo aver gustato un gelato. Faceva caldo, benché fosse già passata la mezzanotte. Non c’era molta gente in giro. Erano al limite sud della passeggiata, dove gli ultimi alberghi lasciavano il posto a terreno mal coltivato, sino alla foce del fiume. Quattro giovani venivano incontro a loro. Uno dei quattro aveva salutato la sua ragazza: “Ciao, bella troia”, a voce bassa. Lui aveva inteso, probabilmente anche Matilde. Poi, qualche istante dopo (Giulio era girato, non li vedeva, li sentiva), lo stesso di prima o un altro aveva aggiunto: “Ciao, troiona...con un coniglio così...che ci fai?” Giulio aveva inteso perfettamente, anche Matilde; s’era fermato, non s’era girato, lei aveva detto “Lasciali perdere....andiamo” e lui le aveva dato retta.
***
Giulio avrebbe voluto recuperare in poche ore inadempienze di anni. Dopo ogni confidenza stava meglio.
Matilde lo ascoltava.
Di Lucia non avevano ancora detto nulla. Alle diciassette e cinque il cellulare di Giulio suonò. Lui lo spense.
“E’ lei?”
“E’ Lucia.”
Al terzo squillo senza risposta, il cellulare zittì.
E allora Giulio cominciò a raccontarle della sua amante.
I bronzi panciuti del vicino campanile del Bernascone ritmavano i tempi del loro dialogo. I colpi forti allarmavano i colombi, che frullavano le ali passando di gronda in gronda, lordando Varese con il loro guano.
***
Era già tardi. Sofia s’era alzata per verificare se si trattava davvero della sua professoressa. E quando l’aveva riconosciuta s’era avvicinata per salutarla, ma anche per capire con chi diavolo stesse parlando da quasi tre ore.
“Conosci mio marito?”
“Non me l’ha mai presentato.”
Poi era tornata da Altin.
“Avremmo potuto già avere una figlia di quell’età” disse Matilde, guardando Sofia che baciava il suo ragazzo.
L’aveva perdonato? Non l’avrebbe perdonato mai? Era sarcastica? E lui perché non le chiedeva perdono? Sarebbe stato, il chiederlo, parte necessaria di quel cambiamento che sentiva di poter affrontare.
“Ho bisogno del tuo perdono.”
“Lascia perdere.”
Continuò a raccontarsi, così altro tempo se n’era andato, solo Altin e Sofia sostavano ancora in quel settore dei giardini di Palazzo Estense.
La sera stava finalmente regalando alla città un po’ di fresco. Dalla collina di Villa Mirabello scivolava la brezza. Non era vero, non era possibile, eppure a Giulio parve che minute gocce d’acqua della fontana in fondo ai giardini, spinte dal debole vento, arrivassero sin lì a rinfrescarli.
“La vita mi ha preso allo stomaco” le disse.
“Non ti preoccupare” e gli accarezzò l’addome contratto. Ad ogni carezza la morsa si quietava.
Giulio sentì fame. “Andiamo a farci una pizza?”
“Andiamo.”
“Dove?”
“San Gennaro?”
“San Gennaro.”
S’alzarono e si diressero verso l’uscita, salutando i due ragazzi. A metà del cortile di sassi incrociarono tre giovani. Bingo, che aveva riconosciuto da lontano la sua insegnante, fece in modo di non farsi notare. Stavano entrando sotto il porticato e Giulio si voltò. Forse era il desiderio di rivedere quel luogo, entrato di prepotenza nei suoi ricordi migliori. Si erano fermati su quella panchina più di quattro ore. Vide i tre giovani in piedi, davanti a Sofia e all’albanese. Capì subito che non erano solo amici che si stavano salutando.
“Aspetta” disse a Matilde.
“Che c’è?”
“Guarda là” e indicò la direzione della panchina. Altin s’era alzato, Sofia stava ancora seduta.
“Saranno loro amici.”
“Non mi pare.”
Il sole al tramonto soffiava lingue dorate. Giulio non vedeva bene, era controluce, la panchina era illuminata. Ma non ebbe dubbi: uno dei tre, il più alto, stava sfilando una pistola a canna lunga dallo zainetto che teneva a tracolla.
“Ma che cazzo sta facendo!” e nemmeno sentì la voce di Matilde che gli consigliava di non impicciarsi, che era solo una bravata fra ragazzi.
Si mise a correre nella direzione dei giovani.
“Sta fermo…metti giù!” gridava rivolgendosi a Bingo, che drizzava la canna dell’Oklahoma ad aria compressa, innocua, vicino al naso di Altin.
Bingo si voltò, si girò. Altin fu veloce a bloccargli il polso, cercando di disarmarlo. Giulio affiancò Bingo, aiutando l’albanese a far cadere l’arma dalla mano di quel ragazzo. Gli altri due parevano terrorizzati da un esito imprevisto. E invece il più elegante si mise in mezzo, tirò fuori un coltello, venti centimetri di lama, e cercò di difendere Bingo o forse di colpire Altin o di spaventare quell’uomo, arrivato fra loro come una meteora.
Giulio sentì un bruciore al fianco destro, poi un calore forte e un dolore pungente che cresceva, che correva veloce come veloce scorreva ora il suo sangue e batteva il suo cuore e cresceva la paura. Un dolore impossibile. Provò nausea, intensa. Cadde a terra picchiando la tempia destra contro lo spigolo della panchina.

                                                                                           19-continua

Vicolo Canonichetta 18



Diciotto


Matilde imboccò vicolo Canonichetta a passo veloce. Davanti a lei, nessuno. Sulla sinistra notò, seduto, un accattone, un volto rovinato non nuovo da quelle parti. Camminati una trentina di passi nel vicolo, se si fosse girata, avrebbe riconosciuto la sua alunna Sofia, insieme al giovane albanese. Camminavano mano nella mano, in silenzio. Ma non s’era voltata. Ormai c’era: restava la fine del vicolo, piazzetta San Lorenzo, piazza San Vittore, l’Arco Mera, infine corso Matteotti, sino al 45, numero dell’ufficio dell’avvocato Angelo Caravati. 
Intuì che qualcuno, alle spalle, correva nella sua direzione. Si girò. Riconobbe Giulio, affannato, a pochi metri da lei. Non ebbe il tempo di dire nulla.
"Ti devo parlare" e le afferrò la mano.
L’uomo aveva preso per vicolo Canonichetta ma avrebbe potuto scegliere altre strade per arrivare allo studio dell'avvocato. Almeno tre le alternative. Quando l'aveva riconosciuta s’era messo a correre.
Matilde non capiva. "E il lavoro?"
"Ti spiego...andiamo."
“Dove?”
“Ai giardini.”
***  
La prima cosa che Sofia si domandò, imboccando vicolo Canonichetta insieme ad Altin, riguardava il poveretto, che sedeva, schiena contro il muro. a mendicare: era un albanese anche lui? Ma fu subito distratta dalla donna che li precedeva. Ne era quasi convinta.
"Secondo me quella è la mia prof."
“Dici?”
“Forse. Dove andiamo?”
“Ai giardini?”
“Ai giardini” e la ragazza pensò subito a Bingo. Ai tempi del loro amore, dei pubblici giardini di Palazzo Estense sceglievano le prime panche: entravano dall’androne principale, qualche metro a calpestare i sassi dell’aia nobile e subito a destra, uno spazio con quattro panche e quattro aiuole ben curate. Non era zona di coppiette, che di quei giardini preferivano ambienti più riservati, panchine solitarie, zone in ombra, boschetti dalle parti di Villa Mirabello. Lì si sedevano soprattutto anziani o giovani madri con bimbi che avevano da poco imparato a camminare.
Con Bingo era stata anche felice. Mai quando diventava violento. Le aveva fatto scoprire il basket, il tifo, l'emozione di quello sport; ma era stato proprio al termine di una partita di pallacanestro che le aveva dimostrato per la prima volta la sua inaffidabilità. S'era scazzottato con alcuni coetanei di opposta tifoseria. S'era fatto spaccare il naso per un gioco. Era andato dietro agli altri come un automa, urlando e sbracciando. E lei aveva preso paura. Al Palazzetto non aveva voluto più mettere piede. Bingo aveva acquistato credito fra gli ultras, sempre meno nel suo cuore.
Ma ora c'era Altin.
A questo pensava, e intanto seguiva quella donna, raggiunta da un uomo; andavano più svelti di loro, era sempre più difficile capire se fosse o non fosse la sua professoressa di lettere.
Forse anche loro erano diretti ai Giardini Estensi. 

                                                                                                       18 - continua