mercoledì 31 agosto 2011

Speriamo

Oggi Stefano (che tanto amava il basket), 32 anni, un virus letale, era in vacanza; qualche giorno fa Immacolata, 21 anni, incidente in auto dietro casa mia. Lo scrivevo oggi, prefazione al mio racconto del mercoledì: è facile parlare della morte, ce l'abbiamo al nostro fianco. E dobbiamo finirla di pensare che capita sempre agli altri. Oggi non mi domando più 'perché?' come fa disperatamente Rachele. Oggi dico: 'Speriamo'. A quel perché non c'è risposta. Speriamo che ci sia davvero un Dio e un paradiso per Stefano e Immacolata. Speriamo che quei genitori distrutti possano continuare a vivere. Speriamo che i fidanzati, gli amici più cari trovino la forza di andare avanti. Da ogni morte, ma soprattutto da queste scandalose morti giovani, dobbiamo imparare un appassionato amore per la vita. Dura così poco: sfruttiamola al massimo. E' un modo puerile ma bello per dare un senso umanissimo alla morte dei nostri amici.

Auguri

Cari Paola e Roberto (ultimi a sinistra): buon anniversario di nozze!

Il racconto del mercoledì

E' così difficile narrare della felicità. Forse perché è così rara, forse perché è facile banalizzarla. E' così facile narrare della morte, del dolore, del soffrire. Lo sanno i narratori, che scelgono quasi sempre questa seconda strada. Io non faccio eccezione. Scrivere della morte è come scacciarla per un attimo. Scrivere del dolore appare anche doveroso, umano rispetto verso chi soffre e muore. Così anche questo mio racconto inedito parla di ciò che non avremmo mai voluto descrivere .

FANGO

La Valle Venosta è tagliata dal vento e dall’Adige. L’aria e l’acqua fanno bene alle mele, che colorano il verde e danno ricchezza a quelle terre del nord. L’Adige è poco più di un rigagnolo a Prato allo Stelvio, ma cresce alla svelta scivolando verso Merano, come un bambino che ha premura di farsi grande. Dall’alto del lago di Resia la valle, terra di alpini, s’allarga spinta ai fianchi dal vento quieto o violento nei giorni d’umore cattivo.

La Valle Venosta è parte della valle di lacrime, conosce il dolore; ne assaporò il gusto rancido la primavera di qualche anno fa.

Domenica

Francesco, contadino, benché fosse domenica andò a controllare il suo vasto meleto. Era il tempo dei fiori, che parlano ai frutti come l’oggi al domani. Passò di pianta in pianta, di filare in filare e s’affacciò sulla scarpata che finiva nell’Adige, parte del suo argine, una riva scoscesa in quel tratto. Soddisfatto del suo lavoro, letto nell’abbondanza dei fiori, pensò di rientrare: aveva freddo. E al freddo s’aggiunse un pensiero disturbante: il Consorzio gli aveva garantito l’intervento riparatore sul suo impianto d’irrigazione; da tempo perdeva un più punti, era un inutile spreco d’acqua. Allontanò la rabbia pensando che la sua valle di acqua ne aveva in abbondanza. Non lo vedeva da quel punto della sua tenuta ma l’Adige aveva fattezze di fiume, lì sotto, ai piedi del baratro.

Lunedì mattina – Silandro

Michaela studiava a Merano, e con lei Franz e Judith. Judith era la sua amica più intima, ultimi giorni di quel rapporto privilegiato perché era arrivato, nel cuore di Michaela, Franz di Malles Venosta.

‘Se me lo chiede me ne sbatto…’ pensò Michaela. E Franz glielo chiese subito, mentre Judith sedeva su una panchina della stazione ferroviaria di Silandro, fumando la prima sigaretta della settimana, le sole boccate di gioia in quel lunedì fatto di sbadigli e di voglia di tornare nel letto.

“Allora?” disse Franz a Michaela.

“Allora che?” chiese la ragazza facendo la tonta.

“Io bigio” disse lui, spavaldo.

“Cazzo, ho paura” disse lei, facendo la preziosa.

Judith fumava a pochi metri da loro, guardava i piedi e il fumo che saliva, i pendolari del treno e osservava la sua amica andarsene, forse per sempre, con quel cesso di Franz, nato e cresciuto a Malles Venosta, il paese della caserma alpina Sigfrido Wackernell.

“Aspetta” disse Michaela, e andò a sedersi a fianco dell’amica.

“Bigio…” ma non si capiva se era una domanda o un’affermazione.

Judith la prese come una domanda: “Fai quel cazzo che vuoi!”

“Ma che hai?” disse.

“Niente” disse Judith.

“Allora io non vengo. Dì ai prof che sono malata, ho il mal di pancia…vedi tu, va sempre bene.”

Judith non rispose, mosse il capo e probabilmente era un sì, finì la sigaretta, buttò il filtro per terra, lo schiacciò, guardò l’orologio della stazione e si alzò come dovesse sollevare tutta la noia dell’universo.

Il treno da Malles era già arrivato, sostava qualche minuto a Silandro e poi giù, verso Merano, seguendo la direzione del vento e del fiume.

“Ma dove andiamo se piove?” chiese Michaela al suo ragazzo.

“In un bar…a Glorenza.”

“Decidi tu.”

“Decido io, okey.”

***

Il treno si mosse. Un trenino di poche carrozze, senza i fili della corrente come capelli sopra il cranio di latta. Era un treno a combustibile fossile, e sopra la testa i tubi di scappamento e un tossicchiare verso la valle come fosse un ciemme, il camion medio usato dagli alpini per il trasporto delle truppe.

Il treno partì da Silandro. Judith s’era seduta in testa, sulla prima carrozza. Primo divano della prima carrozza, con le spalle rivolte a Merano. Al suo fianco una ragazza che conosceva di vista, davanti a lei Regina e Rosina, due sue amiche più giovani.

Judith s’era seduta lì perché era un vagone fumatori, non per incontrare qualcuno. Voleva star sola. Era incazzata e assonnata. Avrebbe pianto come i vetri, lacrime di pioggia che scivolavano dal tetto ai finestrini alle pareti alle ruote ai binari, o gocciolavano sopra i sassi della massicciata.

Accese la seconda sigaretta, promettendo a se stessa che sarebbe stata l’ultima prima dell’inizio delle lezioni.

***

Franz, diciott’anni da poco compiuti, s’era fatto prestare dal padre un’auto di terza mano, una Fiat Panda vecchio modello, una Panda quattro per quattro, tutte le ruote motrici per correre sulle molte salite della Valle Venosta. Franz in principio non aveva pensato ai bar di Glorenza. Meglio all’aperto con Michaela, lungo l’Adige o su verso Slingia o sul monte Watles ancora innevato. Aveva sperato nel sole, ma ora la pioggia li costringeva a starsene al chiuso.

“Dove mi porti?”

“Da Thobias?”

“Da Thobias…va bene.”

Michaela non era eccitata come avrebbe sperato. Aveva freddo anche in auto. “Ma è acceso il riscaldamento?”

“Ci mette un po’ a sentirsi. Hai freddo?”

“Sì.”

Aveva freddo e pensava a Judith. Non aveva mai bigiato. Guardò alla sua destra, le gocce aggrappate al finestrino in prese scivolose, di poca durata. Guardò i capelli di Franz, biondi, corti, un taglio da nazi. I tergicristalli passavano sul parabrezza con manate violente, il vetro si stava appannando.

“Com’è che si appanna?” chiese a Franz. “Come fai a vedere.”

“Ci vedo…comunque tieni” e le passò uno straccio. “Pulisci.”

Le parve un ordine troppo invadente e confidenziale. Perentorio. Si sentì in colpa.

***

Judith fece pochi tiri di sigaretta. Capì che si stava addormentando, il treno le cantava la ninnananna. La spense e si appoggiò al finestrino. Era gelato, si sfilò la sciarpa e la mise a cuscino fra il vetro e la testa. S’addormentò. Un sonno brevissimo, svegliato da un rumore impressionante, come un rutto di tuono che incute terrore a tutta una valle. Judith si svegliò che il treno si stava già inclinando mentre un tronco di melo, mandato in frantumi il finestrino, s’abbatteva su Regina e Rosina. Ma questo Judith non lo vide, finita a terra dopo aver preso un gran colpo alla schiena contro la ragazza che le sedeva di fianco e il bracciolo di legno. Non vide Regina e Rosina schiacciate dal tronco, vide nell’atroce dormiveglia i sassi e il fango entrare dalla breccia senza più vetro. Cercò di rialzarsi ma una grossa pietra la ributtò a terra, semicosciente. Sentì un gran freddo, un dolore potente sul volto e l’abbraccio mortale del fango, che la sommerse. Cercò riparo, avrebbe voluto portare le braccia davanti al volto ma non si muovevano, imprigionate dalla frana. Chiuse la bocca, già piena di fango. La riaprì, invocando aria che non poteva trovare dentro quella carrozza, sommersa dal fango e da fiori di melo, tomba per Judith, per Regina, Rosina e per l’altra ragazza, che Judith conosceva di vista. Veniva da San Valentino alla Mutta.

***

Le notizie girano lente o veloci, come lava o come l’acqua impazzita di un’alluvione, entrano nei luoghi e nelle persone con sussurri o con prepotenza, reclamando l’attenzione che meritano. La sciagura del treno diretto a Merano, travolto da una frana causata dalla pioggia e dal difettoso impianto d’irrigazione del contadino Francesco, giunse adagio adagio a Michaela, come un pugno a sua madre, la prosperosa Karol.

Michaela lo seppe perché da Thobias ad un certo momento arrivò un tale che sembrava ubriaco già di primo mattino: per questo in principio non fu preso sul serio. Straparlava di una disgrazia giù, sulla ferrovia, sicuramente con morti e feriti.

“Ma che cazzo sta dicendo quel tipo?” chiese Michaela a Franz.

“E tu ci credi?” disse Franz.

“E se fosse vero? Perché dovrebbe inventarsela…”

Karol era al lavoro, ricevette una chiamata al cellulare, che era acceso per dimenticanza, vigendo il divieto dell’uso del telefonino. Così seppe del treno e della frana. Uscì di corsa, cercò riparo sotto una pensilina, chiamò la figlia Michaela. Il fatto che quella ragazza non rispondesse mai al cellulare era il solo motivo di speranza. Ma Michaela rispose. Non avrebbe certo parlato a sua madre se non avesse sentito l’ubriaco del bar esprimersi ora con voce convinta; giurava che non aveva bevuto nemmeno un analcolico, spergiurava che quel treno, cazzo, era deragliato davvero, con morti e feriti veri, laggiù, lungo la sponda dell’Adige, poco dopo Silandro.

“Michaela…Michaela…”

La ragazza rispose.

Karol urlava, piangeva di gioia e picchiava i piedi per terra, dentro una pozzanghera. Già qualcuno si era avvicinato e la tranquillizzava.

“Sono io, mamma…ci sono…calmati, sto bene….”

***

Elisabeth, la mamma di Judith, era in auto, diretta per lavoro al Passo di Resia. Sentì la notizia alla radio. Fermò l’auto sul ciglio della strada. Di fronte a lei, a qualche chilometro, il passo. Alla sua sinistra il lago di Resia, con il campanile del vecchio paese che affiorava dall’acqua, immagine di calamità e di attrazione turistica.

Chiamò al cellulare la figlia. Il telefono si limitava a suonare. Cominciò a piangere. Spense la radio e con calma scese dall’auto. Con una ventata di rabbia feroce richiuse la portiera. Attraversò la strada e si affacciò sul lago.

Chiamò di nuovo la figlia, seduta sul guard-rail. Occupato? Dava occupato? Sì, mio Dio, è occupato, sta parlando, è viva. Attese e la pioggia, ora, non la sentiva nemmeno. L’ansia le rubava il respiro, il cuore a mille, le mani gelate. Faticò a schiacciare il solo tasto che le serviva per mettersi in contatto con lei. Solo la mitragliata dei tututututu…Provò, riprovò…ancora silenzio.

Si mise seduta nel fango, la schiena appoggiata al guard-rail. Passavano le auto alla svelta, solo una rallentò e ripartì senza il coraggio di fermarsi, di scendere, di chiedere. Ma Elisabeth aveva solo bisogno di sua figlia.

Il dolore la annichiliva. E pensare che Judith non era certo la ragazza che rispondeva alle chiamate dei genitori. Ma sua madre, disperata, la vedeva già morta. Eppure continuò Elisabeth a schiacciare quel tasto, a ripassare la vita di Judith, la loro vita insieme: il bene e il male, il bello e il brutto, gli abbracci, i baci, l’odio e i litigi. Sarebbe stato tutto nuovo ora, incredibilmente affascinante. Bastava un cenno di voce dentro quel cellulare.

Se la strinse addosso con il pensiero. Chiuse gli occhi e baciò quel fantasma. Poi provò ancora e ancora e ancora a chiamarla, più a sud, dove l’Adige alza la voce e pretende di essere fiume.