venerdì 30 novembre 2012

Vicolo Canonichetta 4



Quattro


    26 maggio 2005

Giulio si svegliò. Al suo fianco Matilde dormiva con un sibilo leggero. Forse avrebbe russato. I rimasugli del sogno volarono via. Si girò sulla destra, era già chiaro, accese la luce e guardò la sveglia: le sei. Non era abituato a farlo ma l’eccitazione di una nuova giornata lo portò in cucina, per la colazione. Il latte si scaldava, il caffè brontolava, i profumi s’imponevano e lui perse appetito. Guardava dentro la tazza e non provava piacere.
Volle mangiare tutto, anche una fetta di pane abbrustolito, burro, marmellata di fichi, tre biscotti e una lunga scaglia di cioccolato fondente: la intingeva, la succhiava. Poi s’alzò, si lavò i denti e tornò in camera.
Ora Matilde russava, a pancia in su, con le gambe allungate e le braccia incrociate sul petto.
Si sdraiò al suo fianco. Quel piccolo rantolo lo innervosiva. La toccò dentro, Matilde liberò un lamento, disse “Scusami” e cambiò fianco. Poi riprese a sibilare.
Guardò la luce rigata dalla tapparella, guardò l’orologio, cercò di rileggersi il sogno ma provò una sensazione nuova: gli occhi aperti perdevano l’aggancio delle cose; se li chiudeva, sentiva il desiderio di aprirli. Si spaventò. Pensò fosse meglio alzarsi, definitivamente.
***  
Andò in sala, avvolse la tapparella, con rabbia, velocemente, anche se a Matilde questo non garbava. Aprì la portafinestra e fu sul balcone. Quarto piano di una palazzina che mostrava lo spettacolo di una città dove si viveva con piacere.
Era tempo buono. Le foglie nuove dei platani rabbrividivano alla prima brezza. Poche rondini in cielo e nessuno per strada. Un gatto panciuto, una marmotta urbana, ballonzolò attraversando il cortile. Poi passò un’auto e poi Giulio fu costretto a rientrare; aveva visto le foglie, gli uccelli, il gatto e l’auto ma non s’era distratto. Più si concentrava per riappropriarsi delle sensazioni rassicuranti d’ogni mattina, più capiva che la sua mente stava altrove: non all’incontro con Lucia. Quell’amore segreto si stava frantumando, insieme allo sbriciolarsi del sogno.
Tornò dentro e si sedette sul divano. Davanti a lui un libro, la biografia di Max Pezzali. Tante foto e poco testo. Volle concentrarsi sullo scritto. Dopo tre parole doveva tornare da capo, si smarriva fra le righe. Ad ogni andata e ritorno aumentava la pena. Stava sudando. Sentì salire il battito del cuore, all’improvviso. Richiuse il libro e lasciò il sudore della mano sul telecomando. La tele s’accese. Abbassò il volume, per non svegliarla.
Più che le immagini vedeva la sua faccia riflessa nel vetro dello schermo. Una macchia colorata, scialba, tremante. Passava i canali come avesse davanti un unico groviglio di persone, luci, suoni, parole, spari, auto in fiamme, donne svestite che ammiccavano, giornalisti in giacca e cravatta. Non ricordava nulla: non un concetto né una sequenza che durasse più di qualche secondo.
Provò a rinfrancarsi con lunghi respiri, profondi. E un poco il cuore rinsavì.
***  
Ora fissava lo schermo nero del televisore. Non sapeva dove sbattere i minuti di quel mattino incredibile. Tutta la vita ancora da vivere, oltre i suoi quarantacinque anni, gli pareva un compimento impossibile.
Per un attimo, dopo essersi alzato e aver sommato piccoli passi nella sala, pensò che avrebbe dovuto tornare a letto, abbracciarla, svegliarla, baciarla, stringerla, rubarle il segreto della sua quiete, parlarle di quel suo nuovo male, e forse anche dei suoi tradimenti. Raccontarle del sogno, confessarle di Lucia. Ma respirò a lungo, si sentì meglio, vide il divano e si distese.
Scoprì il colore del buio. Chiudeva gli occhi per distrarsi, vedeva il nero. Li riapriva, il cuore pompava forte la sua ansia, doveva richiuderli ma il buio gli regalava solo nuovi fantasmi. Cominciò a sentire i contorni del suo cervello, una presenza che pulsava, un senso di oppressione che lo atterrì. I pensieri sfilacciati si rincorrevano come minuscoli insetti in agitazione.
Provò con un sorso d’acqua fresca. Andò in bagno, perché la barba era lunga. Fischiettò, persino cantò le canzoni di Max ma farfugliava le parole, confondeva i testi. Provò coi numeri di cellulare che aveva memorizzato. Ogni insuccesso era la conferma che stava smarrendo il controllo del pensiero. Si stava perdendo nel suo mondo, nella sua casa, davanti allo specchio che lo aveva riprodotto migliaia di volte, che lo aveva lusingato, soprattutto ora, dopo la scoperta di Lucia.
*** 
Tornò in camera. Matilde dormiva ancora, un sonno senza rumore; non poteva sapere nulla di quella sua alba. La guardò. Ebbe, chiaro, un pensiero lancinante: non avrebbe sopportato un suo rifiuto di tenerezza. La vide detentrice di un potere enorme. Ma che ne poteva sapere lei, di lui? 
Scappò di casa. Si vestì con quel che aveva lì davanti, in fretta.
‘Dai, stai calmo, respira, pensa a domani, oggi lo facciamo passare, e Matilde? Me ne vado e quando si sveglia? Le lascerò un biglietto; no, la sveglio; ma vedrà che sono ridotto da far schifo, chiederà, vorrà sapere...Dio, manca l’aria, devo uscire ma dove vado? A quest’ora?’
Uscì senza dir nulla a sua moglie, senza una parola scritta. Scappò come lascia di corsa la strada intrapresa chi s’accorge che l’allontanarsi non è scoperta ma paura, e così fa ritorno verso la certezza della vita di sempre: la solita casa dove Matilde russava, dove non lo accarezzava mai e gli ordinava fai questo e fai quest’altro sapendo che lui non l’avrebbe accontentata perché lei non accontentava lui, che lui voleva sesso e più lo cercava meno l’avrebbe avuto.
         Chi aveva iniziato questo dilettarsi al suicidio di coppia?   
    
                                                                                                       4-continua 

giovedì 29 novembre 2012

Vicolo Canonichetta 3



Tre


25 maggio 2005

Era un mercoledì sera, notte ormai. Era la fine di maggio, la chiusura di una giornata di gran caldo.
Giulio sedeva sul letto matrimoniale. La schiena appoggiata al cuscino, un libro aperto sulle cosce. Si vedeva la copertina.
Vicino a lui, in equilibrio sul fianco sinistro, dormiva Matilde, sua moglie.
Non aveva sonno. Forse il caldo. Aveva bevuto una birra probabilmente troppo fredda; la sentiva rovistargli lo stomaco. Per questo, per mandarla giù, prima aveva scelto di leggere, poi s’era lasciato accompagnare nel sonno dai ricordi.
Il sonno però non arrivava. Aveva rivissuto allora il pomeriggio del tradimento. Con Lucia si sentivano da mesi. E da gennaio altre volte erano stati insieme, come nello stesso letto si sarebbero abbracciati due giorni dopo.
Stava bene con Lucia. Non avrebbe però immaginato che potesse pretendere qualcosa d’altro. Così presto. Eppure era evidente che a quel bivio sarebbero giunti. Ed ecco il bivio. Ecco il conto di Lucia.
Scegliere non era mai stata la sua ambizione, la sua dote migliore.
Guardò Matilde. Lo tradiva anche lei? Con un collega? No, s’era convinto che gli fosse fedele. Tanto meglio.
Riprese il libro. Poche frasi e lo ripose. Spense la luce, si distese sul fianco sinistro, strinse Matilde contro il suo corpo ingombrante. S’addormentò.
***  
Era di fronte a lui. Fra loro due un tavolo, qualche bicchiere, piatti, bottiglie, una tovaglia, briciole di pane e parole, che andavano e venivano. Ma non le loro. Lui stava in silenzio, e anche lei, Lucia. Lui la guardava, e anche lei, di tanto in tanto, poi abbassava lo sguardo. Ma quando tornava a regalargli i suoi occhi...Poi lei accese una sigaretta, lui si concentrò sulle labbra. Ne gustò il contatto. Labbra serrate che, lentamente, come è quieto e inaccessibile l’alto volo dell’aquila, s’aprono ad altri contatti. Il fumo saliva, annebbiava gli occhi smeraldo, si sfrangiava fra i capelli. Indossava, Lucia, un vestito senza maniche. Appoggiava i gomiti al tavolo. Braccia magre e morbide, lui guardava e saliva con la mente su e giù e s’infilava con gli occhi, con le dita, col cuore folle nell’incavo e giù veloce, poi con lentezza verso i seni, piccoli seni. Se li sentiva nella mano, li stringeva, li sfiorava.
La guardò fumare; la gioia eccitata era il sapere che lei concedeva quegli sguardi, mani che la svestivano. Lei avrebbe reso possibile quei pensieri ancora insoddisfatti. Questione di tempo, poco tempo ormai, il tempo di quella cena, di parole e di sigarette, qualche brindisi e i saluti (‘Buona cena davvero’) e gli altri che andavano incontro a una notte qualsiasi e lui...ancora tanta quiete e infine, soli, l’amore che scopre l’eccesso. Sapeva che tutto sarebbe accaduto. Glielo giuravano quegli occhi verdi che passavano il fumo e arrivavano da lui, incredulo. Poi l’uomo che sedava di fianco a lei s’alzò, levò il calice, urlò ‘Brindiamo a noi, a tutti noi!’. Sorrideva ma nell’attimo del sorso mutò espressione, mostrò un ghigno inquietante, infranse il calice contro la bottiglia, mille pezzi di cristallo e mille pezzi di un sogno, che si svegliò.  

                                                                                                             3-continua

mercoledì 28 novembre 2012

Vicolo Canonichetta 2



Due


10 gennaio 2005

Giulio fermò l’auto. Alla sua sinistra i posteggi erano tutti liberi. Scese, guardò ancora l’orologio. Era presto. Mosse pochi passi in salita, si appoggiò alla ringhiera e guardò verso il basso. Sotto di lui la città accendeva le prime luci. Appena qualche chilometro in salita e trovava Varese ai suoi piedi. Anche da lassù la città si muoveva: vedeva le luci delle auto lungo i viali, pensava alla gente per strada e nelle case, negli uffici e nei negozi. Il paesaggio sottostante brulicava. Ma il lago, fra le case e la pianura, pareva di ghiaccio. Immobile. Una lastra. Uno specchio dove il sole ancora s’ammirava, prima di addormentarsi sotto la coperta delle Alpi.
***    
Giulio di nuovo guardò l’ora. Restava qualche minuto. Erano le sedici e venti del dieci gennaio duemilacinque. Un lunedì. Si voltò a destra, il sole era tramontato dietro le montagne innevate. Il Monviso, la vetta più aguzza di fronte a lui, sembrava un diamante. Il fuoco a occidente divenne oro, i laghi assorbirono la tinta preziosa di quel tramonto invernale.
Respirò tant’aria; era fredda ma non gli procurava tosse, solo un diffuso senso di benessere. Immaginò tutti i respiri di tutti gli uomini che, come lui, per farsi coraggio, s’ubriacavano d’ossigeno. 
Ormai era l’ora.
***
Risalì sull’auto. Tre tornanti e si fermò di nuovo, davanti alla villa. Suonò il campanello, come avevano concordato.
“Giulio.”
“Vieni” e il cancello più piccolo, ricavato nel grande cancello di ferro lavorato, s’aprì.
I cani erano stati legati. Uno abbaiava, un rumore soffocato, un guaito.
Sarebbero rimasti soli, per molte ore. Si lasciò alle spalle il cancello e i colori del tramonto, spenti ormai dal nero della notte. Guardò verso l’alto, se brillavano stelle e se, nella mansarda della villa, la luce fosse accesa. Sì.
Prima di vedere Lucia, nei pochi passi che ancora li teneva distanti, già se la sentiva addosso. Minuta, fragile.
Non venne, Lucia, ad aprirgli. La porta della villa era accostata.
Vide l’uscio socchiuso, spinse con calma, sentì “Entra e chiudi”, entrò e la trovò seduta sul divano.
***  
“Vieni...siediti”. Lucia s’era alzata, gli era venuta incontro, gli aveva preso il cappotto, l’aveva sfiorato, era andata a chiudere a chiave la porta. Poi s’erano trovati seduti sul divano, vicini.
L’ansia di Giulio era scritta nelle mani, che scivolavano in su e in giù, stirando i pantaloni all’altezza del ginocchio. Lei pareva più tranquilla: cominciò, accarezzandogli i capelli, invitandolo a sdraiarsi sul divano, se quello desiderava. Lui si distese, appoggiò la nuca sulle sue cosce nude.
Guardava, Giulio, verso l’alto: il soffitto, il suo mento, i suoi occhi, il lampadario; chiudeva gli occhi, sentiva il piacere di quelle sue lunghe carezze, delicate, gentili. Sentiva anche, in lui, molta irrequietezza. Doveva parlarle, per distrarsi.
Non gli usciva nessuna frase capace di aggiungere qualcosa alle carezze di Lucia.
La donna scese, con la mano, dai capelli, alla fronte, con l’indice seguì il profilo del naso, un naso infantile, la bocca, poi la mano non toccava il mento ma deviava alle guance, a destra e a sinistra, poi di nuovo la bocca, le labbra, sfiorate.
Giulio fremeva. La mano di lei scese di nuovo, al mento. Sostò al collo, Giulio la fermò, la scansò. Temeva che Lucia potesse fare considerazioni su quel doppio mento.
“Che c’è...perché?”
Giulio non rispose. Era lì per quelle carezze. Lasciò fare a lei. Che giunse al petto. Infilò la piccola mano sotto la camicia.
Cominciò a sbottonarla.
***  
Lucia s’alzò. Accese lo stereo: Rimmel di Francesco De Gregori. Tornando da lui si tolse il vestito, un completo verde con fiori e colori. La ritrovò vicina. Solo la sottoveste, leggera; in trasparenza il suo corpo. Si sedette, Lucia, accovacciata. Forse lo attendeva. Toccava a lui, ora.
Per lui non era facile seguire il suo ritmo, la sua voglia di lentezza, di profondità. Non era il tempo che difettava a quell’incontro. Avrebbero avuto molte ore. Quel piacere le richiedeva. Lucia lo desiderava. Nessuno dei due voleva pensare al rischio di quella scelta.
Giulio si sfilò la camicia.
“No.” Lucia s’alzò. Fece un cenno a lui di imitarla.
Erano in piedi, uno di fronte all’altra. Lucia, per entrare nei suoi occhi, doveva salire sulle punte dei piedi, allungarsi ancora.
Lui pensò che, forse, voleva ballare. La musica faceva la parte della sua inadeguatezza.
“Vuoi ballare?” le chiese, dopo una lunga pausa.
Lucia sorrise. Era un altro no. Lo prese per mano. Capì che lo avrebbe condotto in mansarda, due rampe di scale, una piccola camera, tanto legno come in una baita. Pochi i mobili, lassù. Cuscini, tappeti, profumo di resine, due comodini, due lampade, un grande specchio, altro non ricordava. E il letto, un grande letto, una spanna dal pavimento di parquet.
Un letto dove Lucia si perdeva.  
E mentre saliva le scale, facendosi guidare da quella donna con due seni da adolescente, Giulio sentiva la musica che s’allontanava e Lucia che s’avvicinava e niente e nessuno avrebbero potuto arrestare quel cammino.
Quando mancavano pochi gradini, Giulio lasciò la sua mano, la presa in braccio. Era un cuscino di piume.
Insieme, un piede lui un piede lei, aprirono la porta della mansarda. Come due sposi.

                                                        2 - continua

martedì 27 novembre 2012

Vicolo Canonichetta 1


Visto il discreto successo di lettori del mio ultimo romanzo online QUEL GIORNO CHE TREMO’ LA NOTTE, ho pensato di riproporre sul mio blog il mio racconto lungo VICOLO CANONICHETTA, scritto nell’estate del 2005, pubblicato nel marzo 2007 da Macchione Editore. A parte qualche racconto breve, è il primo lavoro di narrativa ‘lunga’ ambientato interamente a Varese, la città che amo.

Vicolo Canonichetta

Uno

26 maggio 2005

Quel mendicante sedeva tutti i giorni all’imbocco di vicolo Canonichetta, novantacinque passi di cunicolo che sfociavano in piazzetta San Lorenzo. Proseguendo dritti si usciva in piazza San Vittore, sagrato della basilica dedicata a Vittore, patrono di Varese.
Passando sotto l’Arco Mera si poteva attraversare corso Matteotti, entrare in piazza del Podestà, ancora sotto un arco, il Broletto e via Veratti. Quindi la scelta: a destra, verso piazza Beccaria, o a sinistra, un incrocio, via Sacco e, a dritta, Palazzo Estense, sede del Municipio.
La nobile dimora, abitata nel Settecento dal duca Francesco III d’Este, era abbellita da un giardino all’italiana, ora parco pubblico, simbolo di quel borgo, conosciuto anche come ‘Città Giardino’.
Sedeva il mendicante tutti i giorni lì, appoggiava la schiena al muro e davanti a sé ritrovava un tombino con la scritta ‘Comune di Varese’, mattonelle in porfido rossastro, al centro del vicolo una striscia di granito, una mezzeria grigia che lo spartiva in due corsie. Girandosi a sinistra immaginava, più innanzi, l’Erboristeria del Vicolo, l’Argenteria del Vicolo, una bottega d’orafo, un negozio d’abbigliamento per bambini. Ma anche muri impiastricciati da scritte di vernice e cicche di sigaretta per terra. La maleducazione non rispettava il ritocco dell’arredo urbano, da poco ultimato con investimenti onerosi per la pubblica amministrazione. 
Giovedì ventisei maggio duemilacinque, nel primo pomeriggio, l’uomo aveva nascosto gli spiccioli raccolti, s’era rappreso nei suoi stracci e s’era addormentato. Faceva caldo, anche troppo per essere a maggio. Svegliandosi, stordito dal sonno e dal vino, vedendo del campanile del Bernascone solo il culmine, aveva immaginato l’ora, pensando dovesse essere suppergiù la metà del pomeriggio.
Imboccava vicolo Canonichetta una donna: camminava svelta. Dietro a lei un ragazzo e la sua ragazza, mano nella mano; lui aveva lasciato la mano di lei, le aveva avvolto il collo col braccio e l’aveva baciata sui capelli. Subito dopo era entrato nel vicolo un uomo che correva.
Nessuno di loro aveva lasciato monete per lui.
Erano poi trascorse alcune ore. Gente ne era passata, poteva contare cinque euro e trentacinque centesimi di questua.
A quel punto della sera avevano imboccato il vicolo tre giovani; uno dei tre, il più elegante, l’aveva fissato, aveva sorriso, lui aveva fatto eco alla sua gentilezza, l’altro gli aveva buttato in faccia un “Bastardo!” che non s’aspettava.
La luce del sole al tramonto aveva poi illuminato vicolo Canonichetta, cuore del cuore di Varese. Una luce, un calore che avevano trattenuto il mendicante ancora un poco, seduto lì, nell’abbaglio dell’agonia di un giorno che muore.
                                                                                                                     1-continua
 

lunedì 26 novembre 2012

Quel giorno che tremò la notte 31-12 fine


TRENTUNO  dodici


Don Marco tornò nella camera, aveva negli occhi il secco del pianto, lacrime che si sono asciugate ma lasciano traccia. Andò in bagno e si sciacquò il volto, per cancellare quella debolezza. Per svegliarsi. La notte non era ancora trascorsa. Ripassando dal letto guardò Roberta, nel suo sonno, trovò la croce, il Cristo era lontano. Prese quell’incrocio di metallo e volle riappenderlo alla parete, facendo attenzione di agganciarlo bene, ma il chiodo era caduto a terra. Lo ritrovò a fatica, cercò il buco, si tolse una scarpa e usò il tacco come martello, controllò che fosse fissato e riposizionò al suo posto la croce, privata del suo senso, di quell’uomo che pende, che muore per il mondo intero.
Scese dalla sedia, raccolse fra le mani il piccolo Cristo morente, lo accarezzò e tornò a sedersi sulla poltrona, dopo aver recuperato anche la corona del rosario. Il Crocifisso nella mano destra, nella sinistra i grani in fila indiana, lunga catena di Avemaria e, ancora una volta, a chiudere il  cerchio, i legni con l’uomo che soffre sulla croce.  La madre e il figlio, pensò, insieme, fra le mie mani, alleati per me e per Roberta.
‘E se fosse questo il segno?’ Ora guardava la croce sulla parete, vuota, e l’uomo di metallo, nudo, nella sua mano. ‘Tutto qui?’ Il Signore lontano dalla croce, per ricordargli la fine, la vittoria, la resurrezione. Quel volo, quel tonfo, quello strappo, a ricordargli che era prete per annunciare la buona novella, il centuplo quaggiù, sì, ma anzitutto l’Eternità. E quale centuplo, dopo un terremoto? La resurrezione, la resurrezione, pensava e stringeva in mano il Crocifisso, lo baciava. La preghiera arrivò, come vento potente. ‘Mihi vivere Christus est et mori lucrum’ ripeteva San Paolo ‘è un passaggio, questa vita è un passaggio, ma che deve dire un prete alla gente? Che speranza deve regalare? Se Cristo non fosse risorto, vana sarebbe la nostra fede’ e la vita, la sua vita, da lì in avanti gli parve un’appendice inutile. Una perdita di tempo  Un tempo che avrebbe potuto sacrificare ad altri.
Quell’esaltazione durò poco, il vento calò e arrivò presto la paura: di morire, di sbagliarsi. Tornò ad aggrapparsi al suo corpo malfatto e alla sua miseria, preziosissima. Non era in grado di pregare con fede una notte, quale vita avrebbe potuto barattare? ‘Fai pena, fai solo pena’ disse, ‘trova almeno la forza di chiedere perdono a Dio, che ti ascolta, che si vergogna di te, uomo di Dio.’ L’afflizione lo portò ad inginocchiarsi di nuovo sul lato del letto, quello di destra, vicino alla poltrona, alla finestra affacciato alla quale aveva pensato al suicidio. Si buttò contro il morbido del materasso, nelle mani i simboli della sua fede, la testa confusa reclinata sulla coperta candida. Pianse.

***

Maria entrò nella camera di Roberta quando mancavano cinque minuti alle sei del mattino. Voleva salutare don Marco prima di ultimare il suo turno, ricordargli di parlare con Mariuccia, abbracciarlo, se si fosse presentata l’occasione. Lo trovò inginocchiato sul fianco del letto, immobile, la mano sinistra, che stringeva il rosario, vicino al piede della ragazza, la mano destra copriva il Crocifisso. E sopra la mano del prete quella di Roberta, che la accarezzava.
                                31-12  fine





Quel giorno che tremò la notte 31-11



TRENTUNO undici
Avvennero due fatti, di seguito, in pochi attimi, che turbarono il prete. Forse aveva agganciato male il crocifisso, forse una scossa d’assestamento, la croce all’improvviso cadde a terra con un rumore secco, e nell’attimo esatto del tonfo Roberta ebbe un fremito, almeno questo immaginò d’aver visto don Marco, che vide il movimento di striscio, perché lo sguardo era finito subito contro la parete che già stava fissando ma ebbe l ‘impressione che la ragazza avesse scosso la testa, con un tremito generato dal rumore. Si alzò di scatto, andò subito al capezzale della giovane, stava per chiamare Maria ma si trattenne: era tutto mortalmente fermo. Con rabbia picchiò un piede a terra, generando un colpo forte, ma non bastò per rivedere quello scatto di vita. Il crocifisso si era spezzato, il corpo pendente si era staccato dalla croce, congiunse l’uomo e il legno, pensò che si sarebbe potuta saldare, che andava fatto, si domandò perché era caduta, si mise in piedi di fianco al letto, tenendo con una mano il Salvatore e con l’altra l’incrocio, li sollevò e li lasciò cadere, sperando che il miracolo si ripetesse. Ma una volta ancora Roberta restò nella sua posizione. Non era mai stato un uomo superstizioso, ma cominciò a domandarsi perché era caduta la croce, se avesse un senso che esulasse dal volere di Dio o dal caso, perché sino ad allora la sua superstizione era stata annullata dalla fede, che può generare miracoli. ‘Il caso esiste, è caduta e basta. Don Marco, ma cosa pensi stanotte? Che ti sta succedendo? Ritrova la via, ti prego, ritrova la preghiera, lascia questi inganni, torna a fidarti di Dio, ti ha reso felice sino al viaggio per Roma. Cosa ti sta succedendo, vecchio mio?’
Raccolse i due pezzi che aveva lasciato cadere  a terra e sperò solo che tornasse presto l’aurora. Aveva pregato poco, senza fede, aveva fatto solo male a Roberta, certamente non l’aveva aiutata, non si era intrattenuto con lei ma con se stesso, con la sua anima povera, con la sua mente malata.  ‘Cerca di pregare, don Marco. Affidati a Lui come hai sempre fatto.’ E respirava profondamente, per respingere l’ansia che tornava ad inquietarlo. I suoi dubbi d’adolescente aveva fatto in fretta a tranquillizzarli, ebbe il sospetto che questi nuovi dubbi fossero più profondi, in lui da sempre, brace sotto la cenere pronta ad infuocarsi. Ebbe la paura di bruciare in quel falò. Ebbe il terrore di perdersi, e cominciò a pensare che satana esisteva davvero e lo aveva preso come bersaglio. Si era insinuato nella sua debolezza e stava facendo razzia. Si sentì posseduto, qualcun altro gestiva i suoi pensieri. Perse il controllo e scappò fuori, trovandosi al centro del lungo corridoio. Solo.     
Aveva bisogno di parlare, di vedere qualcuno. Doveva comunicare le sue paure, Maria, la cercò sforzandosi di mantenere il controllo. Sentì un rumore, un gorgoglìo avvicinandosi alla piccola cucina, destinata al personale. Sentì profumo di caffè. Entrò. Gli pareva di essersi tranquillizzato, ma così non doveva essere, se Maria si spaventò nel vederlo, disse solo “E’ lei, don Marco” ma il tono della voce e lo sbigottimento negli occhi lasciavano intendere che doveva aver scritto tutto in faccia. “Ne vuole una tazza?” e s’alzò per prenderla. “La notte è ancora lunga.”
“Volentieri” disse il prete. Si sedette. Era lì, infelice ma non disperato, davanti a quella donna che ora gli faceva da madre, da moglie, da amante. Non era bella Maria, non alta ma dal petto generoso, il viso poco aggraziato, un naso poco femminile, gli zigomi aguzzi. Ma in quell’attimo era tutta l’umanità della quale aveva bisogno e  che avrebbe voluto amare.
“Bene” disse la donna. “Si sarà chiesto di quell’abbraccio…Mi deve scusare.”
Il profumo del caffè si unì al sapore fresco di Maria, che si era avvicinata per porgergli la tazzina. “Grazie….”
“Zucchero?”
“No….e si capisce il perché.”
Maria sorrise.
“Ho preso paura” disse l’infermiera. “Credo ancora che gli uomini ci siano per proteggerci. Lei che dice?”
“Che è così, dovrebbe almeno.” Lo doveva confessare. Stava rientrando nella normalità? La mano faticava a tenere la tazzina, tremava. “Il suo abbraccio mi ha fatto piacere” e avrebbe detto enorme piacere, ma era un uomo votato a Dio, che si era volontariamente privato della dolcezza femminile.
“Anche a me.”
A quella risposta don Marco sentì una vampata di calore. Era il pensiero di aver dato gioia a una donna. Consolazione. Ammutolì. Avrebbe pianto.
Fu lei a risolvere il silenzio: “La solitudine, la mancanza di affetto…”
“Sto male” disse il sacerdote.
Maria posò la tazzina sul tavolo, spostò la sedia di un palmo verso di lui, lo guardò. Se l’aspettava.
“Non ci conosciamo, ma devo parlarne..a lei…devo….”
“Così siamo fatti” disse la donna. Avrebbe volito prendergli la mano, un gesto che le venne spontaneo, ma si trattenne.
“Devo raccontare, ho dentro l’inferno.”
“Ci hanno messo in un valle di lacrime..pianga…non si trattenga…”
Don Marco nascose il viso nelle mani. Il grosso anello cozzò contro il naso.  E parlò. E pianse. Riusciva a descriversi con un naturalezza fantastica,  quella donna attirava a sé ogni confidenza, anche le più segrete, che faticava a confessare alla sua anima. Continuava perché stava bene. Prese fiato, asciugò gli occhi, guardò verso di lei con riconoscenza. “Mi scusi….e lei non dice nulla? “
“Ascolto.” Aveva compreso il suo ruolo in quella notte. Eppure avrebbe avuto da dire anche lei, di un matrimonio di accomodamenti e di silenzi, di figli sempre sul punto di sputarle in faccia la frase che temeva più di qualsiasi altra, ‘Perché ci hai messi al mondo?’, e quel suo mestiere, sempre nel dolore: avrebbe avuto bisogno di parlare ma scelse il sacrificio, come ogni donna.   
“Ascolta questo pover’uomo” e ricordò. “La ragazza si è mossa, un tremito, l’ho visto.”
“Quando?”
“E’ caduto il crocifisso, avrà sentito dei rumori poco fa.”
“Sì, non forti. Non ho dato peso.”
“Nella camera di Roberta, la croce è finita a terra, si è rotta e lei si è mossa. Ho visto con la coda dell’occhio ma ne sono sicuro.”
“Può essere un segno buono” disse la donna. “Ma anche niente. Riflessi.”
“Mi sono illuso, ho ributtato il crocifisso a terra, ho picchiato coi pedi, restava immobile.”
“Non perdiamo la speranza.”
“Cosa ci resta? Dopo quella cosa c’è?”
“Lei crederà ai miracoli.”
 “Oggi vorrei il miracolo della fede.“ Si corresse: “No, no, oggi voglio la vita per lei, io la mia l’ho fatta, mi basta morire senza perderla, la fede.” Tornò il bisogno di contatto. Avrebbe voluto abbracciarla. Non ebbe il coraggio, né lei comprese sino in fondo quella necessità. Allungò la mano, chiese la sua, lei gli porse la sinistra, vide la fede delle nozze, mani curate, dita sottili, non appropriate in quel corpo poco aggraziato. La strinse, avrebbe voluto donarle il suo sangue, compenetrarla affidandole la sua umanità. Trattenne un ultimo pianto.
“Torno dalla ragazza” disse. “Grazie.”
“Di nulla” disse Maria. Nel vederlo uscire, pensò che per lui avrebbe anche ritrovato la preghiera.  
                               31-11  continua

domenica 25 novembre 2012

Quel giorno che tremò la notte 31-10



TRENTUNO  dieci
Per la seconda volta lo lasciava non con una domanda, tante domande che sarebbero tornate, subito, nelle ultime ore della notte. Avrebbe avuto ancora bisogno di lei, ma avrebbe trovato il coraggio di chiamarla? Voleva parlarle. E voleva risentirsela vicino, l’eco dei respiri. Il calore di due corpi che si toccano. Dio mio, com’era freddo il suo Dio. Distante. Capace di rivoltargli la vita, di condizionarla sino alla vocazione estrema, alla scelta senza ritorno, ogni ora, ogni attimo, ogni rinuncia per Lui, un Signore invisibile e muto. Un Dio senza corpo, intangibile. Un Dio di pura invenzione, necessario quindi creato come una fantasia qualsiasi. Quanto aveva bisogno di poter stringere un’anima fatta di carne.
Guardò la ragazza e invidiò il loro atto d’amore e provò una pena infinita per come era finita. ‘Un segno, mio Dio…perdonami per ciò che ho detto…annulla i miei pensieri, Tu che lo puoi…. Non capisco questa notte, il senso, non mi comprendo più, sto perdendo l’orizzonte, illuminami con la Tua luce….Ti prego, sono nelle Tue mani, sono povero e solo, aiutami…’
Tornò vicino al letto, raccolse la croce che era finita vicino ai piedi di Roberta, si sedette sul divano, baciò il crocifisso, più volte, con delicatezza, sentì il fresco del metallo, guardò il volto del Suo Signore. Non era una smorfia di dolore. Pareva sorridere.
Si alzò, tornò vicino alla parete, risalì sulla sedia e cercò di appendere il crocifisso. Non ci vedeva abbastanza per riuscire ad infilare il gancio. Accese una lampada più potente. La luce artificiale lo obbligò a socchiudere gli occhi. La vista si era abituata alla penombra. Con quel fascio luminoso riposizionò il Cristo al suo posto, lì, dove si notava la sua ombra chiara. Si distrasse pensando che la luce sulle pareti bianche le ingrigisce. Discese dalla sedia e spense subito la luce. ‘Tanto non l’avrebbe svegliata’ pensò. Anche un faro più potente, anche lo stesso sole sceso in quella camera non sarebbero stati in grado di liberarla da quel male insanabile. ‘Signore, luce della mia vita, fai ciò che è nel Tuo disegno. Ma falla vivere’ pregò rivolto al Cristo pendente, tornato nella penombra. Camminando verso il divano schiacciò un oggetto che era finito a terra, perse l’equilibrio, rischio di finire sul pavimento, con un movimento da clown, sgraziato, riuscì ad ancorarsi al letto, che cigolò. Aveva schiacciato la corona del rosario. La raccolse e tornò seduto.
Pregava augurandosi che tornasse Maria. Lo avrebbe aiutato a raggiungere l’alba. Avrebbero parlato. Si augurò una nuova scossa, sarebbe ricomparsa, forse si sarebbero abbracciati di nuovo. Pensava e pregava, Ave Maria, Ave Maria…la Santa Madre, e si distrasse subito, ‘Il Signore accetterà anche questa mia preghiera senza concentrazione, il Signore è buono e grande nell’amore, è misericordioso’…sì, perché ora pensava a Maria e dalla Vergine arrivò alla madre, a sua madre, che venne con tutta la sua tenerezza e il suo vigore. Una donna che l’avrebbe voluto prete (‘dei mie figli tu sei il più adatto, pensaci, Marco’) ed era stata accontentata. Una donna che aveva sofferto troppo ed era morta da un anno, tre mesi e dieci giorni. E gli mancava. Pensò a Maria, forse era la madre morta che rivoleva nel loro abbraccio, il bisogno di una mamma che non finisce mai. ‘Ecco perché hanno inventato le Avemarie, certo, ci voleva la mamma di Gesù, una madre divina…’ Non si scandalizzava più di quelle trovate della mente. Le accettava come parte della sua debolezza di uomo, ma anche della sua ricchezza. Si consolava pensando che, al termine della danza dei suoi pensieri blasfemi, tornava comunque a pregare…’Signore, dove andremo? Tu solo hai parole di vita eterna’…La preghiera restava l’arma più potente, il solo approdo.
Seduto non riusciva a rimanere. le gambe inquiete, nervose lo obbligarono ad alzarsi di nuovo. Guardò una volta ancora la camera, che conosceva nei particolari. Vide il cestino dei rifiuti, conteneva un quotidiano, ‘strano, ieri non l’hanno svuotato?’ e il giornale lo riportò alla cronaca del terremoto. Volle prenderlo per sfogliarlo, ci ripensò, tanto non sarebbe cambiato nulla, e sulle notizie la tendenza era chiara: cercare il colpevole, l’errore umano, affidare al materiale scadente la colpa di quella disgrazia mortale, che obbligava migliaia di persone al soffrire. Si raccontava anche della sopportazione degli abruzzesi, della loro pazienza e dei progressi nella rinascita, ma il dito era puntato contro chi avrebbe potuto prevenire e non lo aveva fatto. Accuse ai politici del passato e ai presenti, alla protezione civile, e certe telefonate che tornavano, uno schiaffo che bruciava, la dimostrazione della pochezza degli uomini. Era stato tentato di scrivere ai giornali, con il desiderio di raccontare anche il bene, le prove di coraggio, la santità quotidiana, ma aveva sempre desistito, ‘non serve a niente, meglio fare fare fare, raccontare non aiuta questa povera gente’ così si era meritato solo qualche breve cronaca sulle pagine locali, il prete che dice messa nella tendopoli, don Marco, il sacerdote che si è fermato in Abruzzo, aveva raggiunto una sfumata notorietà della quale a volte si faceva vanto, pentendosi di tanta vanità. Il colpevole, la caccia al ladro, il capro espiatorio per soffrire meno, per dare una ragione a quello sfogo della natura: don Marco si fermò e guardò la croce. ‘Sei Tu il colpevole? Sei forse Tu il sole responsabile, al quale nessuno si rivolge in protesta? Sei Tu che meriteresti le nostre maledizioni e invece la passi liscia un’altra volta? Distante e silenzioso? Qualche bestemmia, qualche bestemmia te la sei presa, giusta o ingiusta non lo so, tu non mandi segni…o forse il segno è proprio la terra che trema, per ricordarci cosa? Per ammonirci? Per castigarci? Come Sodoma e Gomorra? Questi pensieri mi fanno paura, io voglio un Padre Buono. Lo so, lo so che non ci punisci così, che un Padre buono accoglie. Hai scelto la Croce per salvarci, e dalla croce ci obblighi a soffrire in questo modo? Che senso avrebbe? Doni la tua vita per la nostra salvezza, e poi ti riprendi la nostra esistenza fra i tormenti? O sei costretto ad obbedire ad un Padre lontano? Mio Dio, fatti capire! Devo sapere che non sei Tu il responsabile.”
                                  31-10 continua 

sabato 24 novembre 2012

Quel giorno che tremò la notte 31-9




TRENTUNO  nove
‘Un segno, mostrami un segno’: don Marco picchiava delicatamente i pungi sopra il letto, come un bambino capriccioso che sta finendo la lagna, ha esaurito le energie e la speranza ma ancora mostra qualche traccia di protesta. In lui non c’era protesta, non più: era una supplica. ‘Un segno’ e guardava il corpo steso di Roberta e sentiva alle spalle pendere la croce. Sperava che la ragazza gli regalasse un fremito, un gemito. La fissava e sentiva gli occhi umidi. Con un movimento che gli costò fatica, restando in ginocchio, ruotò il capo e salì al crocifisso, immobile nel semibuio. Lo fissò, la vista s’appannò, gli parve di vedere un cenno della piccola testa ma ora vedeva doppio, era l’inganno del suo voler fissare quell’oggetto. ‘Muoviti, mio Dio, fammi capire’ ma intanto pensava che ugualmente non avrebbe creduto, anche se quel piccolo uomo scarnificato fosse sceso dalla croce e salito sul letto, al suo fianco. Avrebbe pensato alle allucinazioni, in quella notte tremenda, che non moriva mai. Eppure lo stesso chiedeva un segno.
Si alzò, recuperò una sedia, si mise in piedi, allungò il braccio e prese con sé la croce. Era impolverata. Con il fazzoletto la ripulì, brillò il metallo, polveroso e unto. Come in processione, riprese la sua ronda intorno al letto, alzando di tanto in tanto la croce verso il soffitto, allungandola verso la ragazza, sperando in un effetto taumaturgico. ‘Sono ridicolo, un santone, ma in fondo cosa siamo noi preti? Santoni più eleganti, niente di più, santoni con chiese stupende, che alziamo calici verso navate illuminate da mosaici e marmi, ma la nostra è solo magia.’ Chiedeva scusa a Dio per quei pensieri, perdono per la sua follia.  
La scossa si mosse lentamente, come un lamento rugoso, che diventa rabbia contenuta, compressa e cresce, sino a scuotere  il mondo dalle fondamenta. Don Marco aveva imparato ad accettare quelle scosse d’assestamento,  tremende di notte, dove il buio accentua il pericolo. Il senso d’impotenza. ‘Eccola’ pensò e lanciò la croce sul letto. ‘Quieto, sta quieto’ e avvertì un leggero giramento di testa. Si appoggiò alla sponda del letto, la sentì vibrare appena, come una corda d’arpa pizzicata. Ma il suono non era dolce. Quell’ira di un dio infelice e vendicativo stava tornando? Il silenzio dell’ospedale s’animò di voci, parole preoccupate e altre tranquillizzanti. “Questa è più forte” sentì dire da qualcuno, lungo il corridoio. Ebbe l’impressione di udire la corsa di chi aveva deciso di accettare la via della fuga. Silenzio, il letto era immobile ma tornò il tremito, che gli salì alle braccia. Provò nausea e paura. Avvertì la sensazione fisica di finire sepolto, il respiro che manca, il torace schiacciato, la fine orribile. Gli oggetti sul comodino cadenzavano i tempi del terremoto. Un rumore forte, uno scoppio di vetri gli strinse il cuore mozzandogli il fiato: era caduto il vaso di fiori. A quel punto scappò senza pensarci, istinto di sopravvivenza ma non fece che un paio di passi verso l’uscita. Entrò Maria, di corsa, chiudendosi la porta alle spalle, o forse era stato il terremoto ad avvicinare l’uscio, facendolo sbattere. Erano soli nella camera. Soli con Roberta che non avrebbe potuto vedere quel loro abbraccio. Si unirono, si strinsero come due amanti che altro non attendono, da sempre. Era bassa Maria, il prete appoggiava il mento sopra il suo capo. Nessuno parlava. Ascoltavano i loro cuori, i respiri e il lento adagiarsi dell’onda sismica, la quiete ritrovata. Stavano bene. Si comunicavano i loro corpi infelici. In attesa. Don Marco sentì il suo profumo gradevole, sfiorò i capelli con le labbra, sentì il morbido dei seni. Da quanto tempo non abbracciava una donna? L’aveva mai fatto così? Con quel piacere? Con quel bisogno? Allentò l’abbraccio, le stava comunicando una passione che non poteva appartenergli. Da dove arrivava quella necessità di stringersela contro? Era una sconosciuta per lui, quell’abbraccio non significava, non poteva significare un amore  condiviso, preparato. Né lo sfogo di un istinto. 
Quando tornò il silenzio si manifestò l’imbarazzo, nascosto dalla paura. Fu la donna ad accorgersene per prima. Si staccò da lui con un gesto sgraziato, quasi un rifiuto, che cercò di mitigare con le parole: “E’ passata. Mi deve scusa, don Marco.”
“No, no, Maria.”
Ma l’infermiera uscì.

                                           31-9 continua 

venerdì 23 novembre 2012

Quel giorno che tremò la notte 31-8



TRENTUNO  otto

Maria si avvicinò alla camera di Roberta col desiderio di scambiare due parole con quel sacerdote venuto da fuori Abruzzo, un uomo che avrebbe potuto insegnarle qualcosa. Sesto senso di donna. O forse era stanca di non credere più. Capiva di aver bisogno di quel Dio come di un amico infedele ma, alla lunga, essenziale. Che vorresti incontrare, anche se sai che potrebbe finire a botte. Aveva bisogno di trovare soluzioni alla rabbia che la intossicava. S’era fatta l’idea che don Marco fosse un prete intelligente, che non aveva bisogno di sfruttare l’autorità data dall’abito per  farsi valere. Che non ricorreva a parole quali obbedienza, rispetto. Sospettava che fosse in crisi, tanto meglio, avrebbero messo insieme le domande. Avrebbero comunicato due malinconie. Non entrò decisa, rallentò il cammino, non volle annunciare la sua presenza, ‘non voglio svegliarlo’ pensò, con la sua propensione al rispetto. Lasciò filtrare oltre la penombra solo uno sguardo da ladra, lanciato oltre la soglia. La poltrona era vuota, il prete non stava in piedi vicino alla finestra; allungò il collo, vide il letto, Roberta e lui, sul lato sinistro, inginocchiato, le mani verso la giovane. Piangeva, di nascosto ma piangeva, in silenzio ma dubbi non ce n’erano, anche se lasciava che la coperta assorbisse le lacrime e i sospiri di quel lamento. Maria bloccò la prima reazione, che era quella di consolarlo o almeno chiedergli se stesse male, il perché di quella reazione così umana e così divina, facile e difficile al tempo stesso. Non si mosse, spense anche il respiro,  curiosò per qualche attimo, s’allontanò. Lungo il corridoio avvertì il nascere della tenerezza, e per un tempo imprecisato di quella notte fu felice.
                                  31-8  continua


giovedì 22 novembre 2012

Quel giorno che tremò la notte 31-7




TRENTUNO  sette
Il prete si  lasciò la porta del bagno alle spalle. Cercò di non fare rumore ma la porta incise un graffio nel silenzio cupo dell’ospedale. Tornò nella camera e guardò verso Roberta. Immobile. Provò un angosciante senso di estraneità. Quella giovane donna non gli apparteneva. Non si sentiva parte di alcuna umanità. Si avvicinò al letto come fosse di marmo, impermeabile a quel muto soffrire. Gli dava fastidio, lei che non si svegliava ma più ancora quel suo essere insensibile, nella pretesa di voler star bene. Non riusciva ad assorbire quel respiro altrui. Ebbe paura di ciò che era. Si spaventò di un mondo fatto da persone come lui. Com’era in quel momento e com’era stato altre volte. Si avvicinò, sperando che quell’incubo finisse, che tornasse a sentirsi fratello di Roberta. Gli venne da pensare ‘fratello in Cristo, caro Don Marco, quante volte l’hai ripetuto in predica?’ ma allontanò Cristo, ‘ma che Cristo, sono un uomo, siamo uomini, voglio essere solo uomo, voglio amare….voglio solo un cuore…’ disse al buio e si inginocchiò sul fianco del letto. Cadde pesante, sentì una fitta alle ginocchia, allungò le braccia verso di lei, compresse il mento, la bocca sulla coperta bianca, schiacciò il naso come a volersi soffocare. Ma non riusciva a piangere. Con le mani la cercò, la accarezzò, sperò che gli dicesse qualcosa, non sei un uomo, sei un mostro, qualunque cosa per scuoterlo,  per convertirlo. Per stanare il suo cuore freddo. Ma lei non parlava. Solo un grande silenzio. E quella croce muta. Il piccolo Cristo di metallo stava alle sue spalle, pendeva come un gancio qualsiasi, come un amuleto, un ferro di cavallo, un niente inventato dagli uomini. ‘Parlate, parlate’ disse soffiando contro la tela, ‘sto morendo…salvatemi’ e vinse la tentazione di scappare.
Le prime furono lacrime di rabbia. Ma non c’era consolazione in quel pianto, non si svuotava del marcio che sentiva dentro di sé. Rabbia di non poter essere ciò che desiderava, rabbia per essere nato così, rabbia di chi non ha speranza di paradisi, né qui né altrove. Una rabbia feroce. Avrebbe dato pugni contro la parete, sarebbe accorsa Maria, le avrebbe urlato che era tutto inutile quel loro sacrificarsi dietro la malattia, pulire culi, consolare malati, accompagnarli verso il nulla. Avrebbe chiesto all’infermiera di aiutarlo ad andarsene, una puntura, una pastiglia, un colpo di pistola alla nuca, pur di farla finita.
Sentiva Roberta, le sue gambe, le ginocchia, i piedi, le mani calde in quella notte calda. Le baciava le dita e le chiedeva perdono.  Sentiva il suo profumo.
Tornò la preghiera e il pianto venne dal cuore e risalì agli occhi. Stava bene, ora. Avrebbe fatto qualsiasi cosa per lei, persino uno scambio, la mia vita per la tua, che devo vivere ancora? Che devo vedere? Al massimo dovrò soffrire da qui in avanti, tu invece, amica cara….e gli parve un’altra volta un gesto interessato, da freddo egoista calcolatore. ‘Sarà quel che vorrà Lui’ disse e intanto singhiozzava e ringraziava per quelle lacrime. Si augurò che non finissero mai.

                                   31-7  continua
  

mercoledì 21 novembre 2012

Quel giorno che tremò la notte 31-6



TRENTUNO  sei

Don Marco fu svegliato da un rumore. Era caduto un oggetto in una stanza accanto. Aveva il collo dolorante e la bocca impastata. Rabbia per essersi addormentato. E un sogno, che cercò di catturare, di ricordare prima che si allontanasse nella notte d’ospedale. E nella vergogna di quanto aveva vissuto. C’era una ragazza, giovane, Roberta? Non lo ricordava, non aveva particolari utili a riconoscerla, sapeva che era giovane, erano stati vicini, molto vicini, lei nuda, cercò di ricordarsi se era nudo anche lui ma non si vedeva, era più un sentire che un vedere, sapori più che immagini, il piacere di mani, di dita che si infilavano, le sue, dove non avrebbero mai osato, e lei lo accarezzava oltre il grosso colle del suo ventre, e lui penetrava e lei accarezzava, no, non era possibile che avesse sognato questo lui, voleva dimenticare ma lottava con la memoria, per conservare quel piacere proibito, lei, sì, forse proprio Roberta. La guardò nella sua morte vivente, nella sua immobilità e si guardò fra le gambe, la sua rigidità, e volle scoprire altri particolari…stava arrivando al sommo del piacere, stava entrando in lei, in quella giovane donna che stringeva impazzito, e lei sussurrava parole che non ricordava e baci, anche baci e lui era in lei e il rumore, il risveglio. Ora avrebbe voluto riaddormentarsi, riappropriarsi di quell’estasi che non gli apparteneva, brutta copia che in quel momento gli bastava. E insieme lo terrorizzava.
Il senso di colpa arrivò subito a risvegliarlo. Come era stato possibile quel sogno? Perché? E Dio parlava nei sogni? La Bibbia lo confermava, Santa Parola che conosceva a memoria. Ma Dio non avrebbe potuto insegnagli nulla con quelle immagini. E allora perché? E perché metterci sempre in mezzo Dio? Era solo un uomo, con un sesso, un desiderio represso, una voglia soffocata da un voto che ora, nel momento meno opportuno, ad una svolta della vita che avrebbe richiesto il distacco, altre gratificazioni, una nomina ecclesiale ecco, ora arrivava quella tentazione a sporcare la preghiera. Cercò la corona del rosario. Era caduta a terra. La raccolse. Guardò l’ora, erano passate le tre da dodici minuti. Quanto aveva dormito?
La giovane donna era scomparsa. Sin dove era arrivato con lei? Si sfiorò fra le gambe, nessuna macchia, aveva bisogno del bagno, per bere, per pisciare. La testa gonfia, gli occhi secchi, si alzò e ripercorse la strada di prima. Si lavò, bevve, si sedette ma non riusciva ad orinare. Sfiorò quel suo piccolo tronco che non appassiva, sapeva che non avrebbe dovuto farlo, nemmeno cominciare, sarebbe stato peggio, una strada senza ritorno, un percorso obbligato a rincorrere un sogno svegliato sul più bello. Ma don Marco accarezzò ancora e la rivide e volle perdersi.
                                      31-6 continua

lunedì 19 novembre 2012

Quel giorno che tremò la notte 31-5



TRENTUNO  cinque

‘E’ tutto passato, passato’ si disse e trovò di nuovo il rosario. Pregava, camminava e respirava con profondità, sforzandosi di mantenersi quieto, di ritrovare la serenità della fede. Si distraeva subito. Il suo passato pretendeva attenzione. Certi fatti avevano tutt’altro sapore, letti in quella stanza, in quell’ora. Non riusciva a perdonarsi scelte che aveva digerito come un bicchiere d’acqua. Era diventato d’un tratto severo con se stesso e insieme indulgente. Rancoroso con Dio.
Quando Maria entrò di nuovo nella camera di Roberta era la una passata da dieci minuti. Trovò don Marco seduto sul divano, piegato in avanti, la testa fra le mani, mosso da lievi rantoli. L’infermiera pensò che si fosse addormentato e non chiese nulla, non lo salutò, camminò leggera, armeggiò intorno alla ragazza e uscì. Ma don Marco non stava dormendo, fingeva d’essersi assopito perché in quel tratto della notte non aveva voglia neppure di incontrare lo sguardo di Maria, temeva che non sarebbe stato in grado di rispondere ad alcuna domanda, si era rifugiato in una preghiera disperata, una supplica più per lui che per Roberta. Soffriva davvero.  
Piegato in avanti, comprimeva lo stomaco che urlava, una fitta profonda che gli saliva in gola. Schiacciava quel sacco gonfio e rigido, implorava che il male finisse, non era un uomo capace di soffrire. Non in quel momento. Non così intensamente. Partì un dolore nuovo, uno scoppio al centro del petto, che si diramò veloce alle braccia. La fronte divenne di fuoco e raggelò. Credette di morire. Mandò uno sguardo da bambino terrorizzato nella penombra, occhi che cercarono la croce. Ma quell’impennata di male finì subito, com’era arrivata, un colpo di vento, un solo fulmine.
Il prete trovò il fazzoletto, tamponò il sudore. Sentì la morsa allo stomaco allontanarsi lentamente, e più si allontanava da lui più pregava, come se avessero senso quelle parole, contenessero una medicina che finalmente serviva al suo male. ‘Aiutami, mio Signore, aiutami, mio Dio’ ripeteva con ossessione e speranza. E il soffrire uscì da lui. Provò una gioia che aveva gustato altre volte, dopo confessioni liberatorie, dopo pericoli scampati.
Si appoggiò allo schienale della poltrona, chiuse gli occhi, cercò di penetrare sino in fondo a quella pace. Lo stomaco contratto si distese, il cuore rallentò la sua corsa, provò appetito. Sentì voglia di gelato, di fresco, qualche attimo dopo sentì il profumi di pane caldo, un filone croccante, imbottito con fette di prosciutto. Immaginò la colazione che avrebbe consumato la mattina, sì, sarebbe andato dal fornaio, no, non il solito caffè macchiato, non i soliti tre biscotti, solo tre per non ingrassare, sarebbe sceso dal fornaio (e il profumo del pane ce l’aveva dentro) e poi dal salumiere e dal vinaio. Pane, salame e un bicchiere di rosso.
L’ansia gli aveva negato la quiete del sonno. Ora sentì il bisogno di dormire, una stanchezza che cercò di allontanare subito, tornando al proposito che non avrebbe dovuto dormire quella notte, l’aveva promesso alla ragazza. Sarebbe stato più fedele dei discepoli fiacchi nell’orto degli ulivi, uomini deboli e senza fede, lui avrebbe fatto meglio, se ne sentiva capace. Ma i buoni propositi incontravano una testa che ciondolava, palpebre che si abbassavano. Almeno tre volte il capo cedette e lui lo risollevò con disappunto, rinnovando il desiderio di fedeltà alla preghiera. Ma la volontà era debole, costretta a subire anche quella notte il sapore amaro della mediocrità. Carne debole in uno spirito pretenzioso ma inaffidabile. Buoni propositi smentiti dalla realtà. Guardò l’orologio che aveva riposto nella tasca dei pantaloni. Erano le due e tredici. Se lo rimise al polso, senza stringerlo. Pensò che avrebbe fatto meglio a rimettersi in piedi, a camminare di nuovo, a sciacquarsi il viso, doveva svegliarsi da quel torpore, mancavano poche ore, le più dure. E sarebbe risalita l’ansia? E quella fitta al petto? Non si alzò, i tanti pensieri si rifugiarono in un sonno profondo.
 Maria entrò di nuovo che mancavano dieci minuti alle tre. Trovò don Marco appoggiato allo schienale della poltrona, lo sguardo al soffitto, la bocca aperta. Russava. Sorrise, pensando che anche i preti russano, ma non hanno una moglie o un’amante che li sveglia.
                                   31-5 continua

Quel giorno che tremò la notte 31-4



TRENTUNO  quattro
Don Marco riprese a camminare lungo il perimetro della camera, di passo in passo più stanco. Una debolezza nelle cosce robuste, quelle gambe da calciatore fallito, gambe atletiche  che non servivano per fare il prete, in quel momento non lo reggevano in piedi. Diede la colpa all’afa. L’afflizione fisica saliva dal basso e lo invadeva, rubandogli l’aria. Anche respirare era fatica. Nel cammino sfiorò un tavolino, sul piano un vaso di fiori con gigli che avrebbero resistito forse un altro giorno. Era tempo di rovesciarli nel cestino dei rifiuti, la bellezza e il profumo ormai persi. Il vaso tremò, partì un rumore secco di metallo, allungò la mano, riuscì ad evitare che i fiori e l’acqua si rovesciassero sul pavimento. La reazione d’istinto gli provocò fitte in fronte, poi  la quiete di un pericolo scampato. Cercò in tasca un fazzoletto, si passò la fronte sudata, i capelli, il collo, slacciò un altro bottone della camicia per dare spazio ai polmoni. Ripose il fazzoletto e cercò nell’altra tasca il rosario.  Lo trovò, lo strinse nel pugno come a strozzare il dolore, o forse Gesù Cristo in croce. Senza scegliere la decina, stringendo fra pollice e indice un grano a caso, cominciò la supplica delle Avemaria. Prima rabbiose, quindi più quiete, a ritmo con il cammino.
“Ave Maria, gratia plena…” muoveva solo le labbra, non riusciva a recitarle a mente, senza scrivere le parole con la bocca impastata di fede disillusa.
“Santa Maria Mater Dei, ora pro nobis…”. Passò davanti al crocifisso, si fermò, lo fissò, supplicò, pensò alla Madre e al Figlio sacrificato, a quella storia bellissima e impossibile. Per un istante volle convincersi che sarebbe stato proprio così, promesse mantenute, sentì un desiderio fortissimo di paradiso, non aveva la forza per proseguire ancora, pensò ora mi siedo, prego, chiudo gli occhi, prego per Roberta che ha diritto alla sua vita, io ho già camminato abbastanza, sì, ora mi metto seduto, chiudo gli occhi e muoio, cioè vivo, me ne voglio andare, sono stanco, troppo stanco  anche di questa Chiesa, voglio un Dio senza Chiesa, mi basta un Dio che mi abbracci, che mi sollevi da questa miseria, da questi dubbi velenosi, me ne voglio andare per sempre dentro un’altra vita che non mi faccia pena come questa, accontentami, Padre Buono, guarda questo povero prete infedele.
Il senso di pace durò poco, riprese il cammino, dietro front come un soldato in marcia lungo il cortile assolato di una caserma qualsiasi, unò-due,unò-due, passo, pummm, passo, pummm, era costretto a marciare ancora, a marcire ancora. Serrò la corona nel pungo, strinse fino a sfiorare il dolore, riprese il cammino senza trovare la pace che la preghiera, da anni, riusciva a regalargli. Quella notte era tutto diverso. Ribolliva di una rabbia che non conosceva. Andava a ventate, come per una tempesta. Soffi potenti e attimi di quiete, durante i quali si sforzava di ritrovare quel Dio benevolo che gli aveva garantito un mestiere dignitoso.
Pensò alla nomina che lo attendeva a Roma, che aveva posticipato per una scelta di passione, senza calcoli. Un prete curiale, un vescovo fra i suoi sostenitori, uno di quelli che avrebbe sorriso dopo la sua promozione, gli aveva fatto capire (con parole controllate, misurate e cattive..e che amico era?) che certe scelte “d’impeto”  sono peccati giovanili, che “certi premi” vanno afferrati quando è il momento, che le occasioni potrebbero non tornare, che la coda di pretendenti dietro di lui era lunga.  
Guardò di nuovo la magra croce con il Cristo sconfitto, non trovò niente che somigliasse alla sua Chiesa, mai macchiata da una sola goccia del sangue di Cristo. Eppure cosa aveva fatto sino ad allora nella sua vita? Non aveva forse perdonato la Chiesa per i suoi peccati (che non le negavano la santità) e perdonato Cristo per la sua radicalità? Un equilibrio spezzato, traballante dentro quella camera che sapeva di gigli appassiti e di disinfettante?
La porta si era spalancata. Non riusciva più a chiuderla. Quella porta che ogni tanto lasciava intravvedere un altro mondo, un’altra interpretazione della vita e che lui era stato sempre abile a richiudere con forza. I dubbi di là, oltre l’uscio, frutto di fantasia, di pretese, di arroganza…persino superiore a Dio, chi credi di essere? E allora la porta va chiusa subito per rimanere in quel mondo di certezze e di privilegi, di fedeli a capo chino e di vesti liturgiche, di calici dorati e di anelli cardinalizi..quella porta deve restare sigillata, gli consigliava anche il suo direttore spirituale, sin dagli anni di seminario…quella porta la apre Satana, sì, se lo ricordava quel vecchio parroco dei suoi anni giovanili, prete preconciliare che credeva ancora nel diavolo e nelle sue astuzie…poi uno entra in un mondo e la sua vita scorre lì e ogni giorno che passa indietro non si torna, ci si accomoda e ci si dimentica di quello che sta fuori…ma la porta è lì e ci sono momenti che si scolla, che scricchiola sui cardini arrugginiti dalla propria comodità e sentì il vento oltre l’uscio e vedi una luce diversa e sei tentato e hai paura e prendi la maniglia e richiudi, cerchi la chiave per non farla più aprire ma la chiave non c’è.
Don Marco ora era lì, la porta spalancata e lui sul limitare della soglia, a metà fra la corrente d’aria, vortici di novità, la porta divelta e sensazioni nuove. Un coraggio che aveva preso le mosse dalla sua auto che si ferma, scossa dal terremoto, e da un’imposizione dall’alto, vai, non a Roma, vai su al paese, guarda che è capitato nella notte, Gesù Cristo avrebbe fatto così, il Signore che tu dici di amare e di servire non avrebbe avuto dubbi, si sarebbe svestito della porpora e, a piedi scalzi, sarebbe salito verso quella povera gente ferita. E lui, per una volta in vita, aveva seguito la pazzia di un gesto nuovo, e da quell’atto scriteriato e coraggioso altre follie d’amore, forzando un cuore saturo di prudenze, un cuore che ora l’aveva invitato a vegliare con Roberta, ragazza dagli occhi belli, che aveva perso il suo ragazzo dopo uno stupenda notte d’amore.
La guardò nella penombra. Cercò un segno di vita, un tremito, un movimento della mano, tornò alla croce e alla ragazza, parete e letto. Si lasciò cadere sulla poltrona, sentì tutta la pesantezza del suo corpo. Non stava bene. L’anima intossicava con la sua confusione il cuore, le gambe, le braccia, il collo che percepiva gonfio, la fronte che scottava, lo stomaco contratto in un crampo. Credette di svenire. La gola riarsa, mozziconi di salmi gli venivano alla mente e lui li recitava nella notte…’come per arsura d’estate inaridiva il mio vigore’ …..’la mia lingua si attacchi al mio palato, se mi dimentico di te, città di Dio…’ pensò a Maria. Doveva chiamarla, chiedere aiuto. Si alzò appoggiandosi ai braccioli della poltrona. Barcollò sino al letto, pochi passi, allungò le dita verso il pulsante del campanello, Maria sarebbe arrivata subito, l’indice era già pronto, bastava avere il coraggio di confessare la propria infinita debolezza. Non arrivò a tanto. Fermò la mano, avrebbe dovuto bere, cercò il bagno, lo trovò, il lavandino, fece scorrere un filo d’acqua per non fare rumore ma l’acqua scivolando verso l’uscita gorgogliava. Trovò una spugna, la pose in fondo al lavandino, unì le mani a tazza, sentì il fresco dell’acqua che riempiva quella concavità, su, sino a tracimare e vi immerse il viso e ancora una volta e due con l’acqua come una benedizione sulla fronte e fra i capelli. Acqua santa in gola, sulle labbra secche. Bevve a lungo, chiuse il rubinetto, strizzò la spugna e si asciugò le mani, il volto, i polsi.
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