martedì 12 giugno 2012

Il racconto del mercoledì


                      
PARETE DI CARTA

Silenzio. Finalmente il silenzio. Spento l’ultimo, prepotente, inutile baccano, e smarriti per il viottolo del sonno anche i sussurri, le preghiere, le raccomandazioni e qualche lamento educato dei suoi figli, il silenzio era entrato prima di tutto dentro il suo corpo. Sopra quella lavagna, finalmente pulita, avrebbe potuto scrivere parole di fantasia.
In silenzio, con accortezza, aprì l’uscio della sua camera. Era buio ma conosceva la via. Accese la lampada alogena, la regolò alla giusta gradazione di luce, la indirizzò verso la parete della sua libreria. Non v’era un solo francobollo di muro, che non fosse stato occultato da una copertina messa di taglio, in verticale. La parete era libri, mattoni affiancati ad altri mattoni di parole scritte, inchiostrate, compresse fra pagina e pagina. Pagine ingiallite dal tempo, o avorio per scelta editoriale, o bianche, ruvide o patinate. Pagine di prosa e di poesia, saggi, romanzi, racconti lunghi e brevi, liriche e poi...e poi quella luce della lampada che accarezzava il suo tesoro.
La notte, a quel punto, era solo un fruscìo di respiri e il ronzio del silenzio, che batteva delicato sui timpani come un quieto mare sullo scoglio, un fastidio sopportabile, un lieve disagio che subito dimenticò, accostandosi alla parete di carta. Guardò gli scaffali, le accurate divisioni in settori, in sottosettori, in generi, in altezze. Passò con i polpastrelli, più e più volte, indietro avanti e indietro e avanti, il dorso dei libri che gli stavano più comodi, ad altezza di braccio sollevato senza fatica, ad altezza di sguardo. E da quella fila -la più accessibile, dove collocava il frutto migliore- fece scivolare fuori un romanzo d’autore britannico. Quel libro non aveva avuto il tempo di mettere il berretto di polvere, era stato acquistato da tre giorni soltanto, già investigato nelle note della quarta di copertina, curiosato qua e là. Comprato da Baroni dopo un ragionevole tempo di ponderazione, era stato messo a riposo ed ora, tre giorni più innanzi, come per una resurrezione, faceva ritorno nelle sue mani.
Non poteva aver polvere, ma ugualmente lui soffiò  e quel debole vento, dopo aver corso lungo il canale delle pagine pigiate, andò a sbattere contro il muro di carta; poi salì verso l’alto e calò sul fondo, dove davvero s’era accumulato il pulviscolo, ma lì giunse fiacco, spento, e neppure un granello si mosse dal suo letargo.
Con la giovane preda andò verso il letto. La sua compagna riposava. Non si sarebbe svegliata anche avesse avuto un amante distratto, precipitoso, scarsamente rispettoso...ciò che lui non era, perché ogni rimprovero avrebbe accettato, non quello di non far attenzione alla libertà di chi aveva scelto di dormirgli accanto. E in fondo, in quel rispetto (sul quale a tal punto vigilò da infilarsi nel letto come penetra una mano in un guanto) era compresa una parte di piacere: il godimento della solitudine, nella notte, con il sostegno di un soffio di luce, con quel romanzo finalmente stretto fra le palme.
Lei seguitò il suo sonno profondo, ma più vigile della sua donna fu il libro che, terminata la lettura, aveva adagiato proprio sul bordo estremo del letto. Il libro si mosse, scivolò, prese velocità e infine si spaginò sul parquet, mandando un fastidioso rumore di disattenzione. Lui s’innervosì, guardò il comodino dove più opportunamente doveva stare l’oggetto, fissò lei (che si contrasse in un brivido) e attese che l’eco del tonfo venisse assorbita dal buio. E poiché mai avrebbe sopportato di tenere tutta la notte un libro accucciato in quel modo, sporco e sciupato, s’alzò, lo raccolse, lo ricompose, lo adagiò sul comodino e, senza molti riguardi, tornò al suo romanzo.
Aprendo il volume avvertì anzitutto il suo profumo.  Intenso perché nato da poco, non falsato dal cattivo odore del tempo. Di nuovo andò al titolo, all’ammicante trovata della prima di copertina, volle rivedere in faccia l’autore, lesse sotto la sua foto la scheda biobibliografica. Considerò che era stato troppo sintetico. Fantasticò che, fosse mai capitata a lui l’avventura di dover dare alle stampe un libro, avrebbe sfruttato assai più opportunamente quel gratuito inserto pubblicitario. Infine, non attendendosi altro se non il gusto della lettura, fece correre le pagine sino alla numero nove: lì, da quel porto, avevano deciso di far salpare la nave dell’avventura letteraria. E in quel mare principiò a navigare come il capitano Acàb.
                                        
Andò alla deriva, senza una meta precisa, per un tempo che, distraendosi, giudicò essere di un’ora abbondante. Chiese e ottenne la conferma dalla sveglia al suo fianco. Le palpebre erano lievi come giovinette ai primi balli della vita: segno che il romanzo lo avvinceva, conferma della maestria dell’autore. Avrebbe potuto leggere tutta la notte, pasteggiare con quelle quattrocento pagine e poi tornare alla libreria, riporre e prendere un’altra portata. Pensò, socchiudendo il libro e infilando il pollice per tenere il segno, che forse il romanziere d’oltre Manica era parte di quel suo innamoramento, solo una pedina, semplicemente un’occasione. In verità era infatuato dal libro, non da quello o da quell’altro. Dal libro, d’ogni libro, dal concetto di libro, dall’essenza libro, dall’oggetto libro.
Lo sguardo tornò rapido alla parete. Era in ombra da quando la lampada era stata regolata in modo che illuminasse il lettore e le pagine. La parete dormiva nel suo mutismo, ma ugualmente si intravvedevano i testi. E poi lui, come avrebbe fatto un pastore con il suo gregge, conosceva senza possibilità di equivoci titoli e collocazioni. Pur non vedendoli, li vedeva. E sebbene -sì, non poteva negarlo- teneva nel terzo settore dal basso, giusto a metà, i prediletti, ugualmente li amava, li voleva amare tutti allo stesso modo. Era giusto non fare distinzioni, anche se poi qualcuno finiva là, più pronto degli altri a riversare parole dentro le sue notti di veglia.
Aprì il romanzo. Guardò la sveglia. Lo richiuse e si chiese come avrebbe fatto ad addormentarsi con quella vivacità in corpo. Ma lo doveva fare. Doveva riporre l’oggetto delle sue brame. Perché quando aveva ceduto all’iddilio, e aveva toccato la riva del mattino senza riposo, l’intero giorno gli era servito per scontare la sua sfrontatezza. Del resto, non era proprio la saggezza imparata sui libri a consigliargli di chiudere, per quella notte? E chiuse. Ma prima dell’addio respirò quell’aroma, miscela di carta, d’inchiostro e di parole. Baciò una pagina. Era ruvida. Subito guardò alla sua destra, si piegò e regalò un bacio leggero alla sua compagna. Voleva bene ad entrambi. Questo lo appagò. Spense la luce e tornò a navigare, grazie all’inerzia regalata da quel misterioso motore, ora spento.
                                             
Sostava nella zona insensibile della notte, quando neppure l’abbaglio di un sogno illumina il nulla apparente. Un vuoto, un nero di immagini e di pensieri fragile, senza tenuta. Almeno per lui. Che si destò al solo rumore di un interuttore di luce (un secco e lontano ‘tic’), quello -lo capì subito- proveniente dalla camera accanto. Chi s’era svegliato, fra i suoi figli? Il primo sentire fu un’inquietudine. ‘Che sarà mai?’ pensò, immaginando un malanno. Incubo non era, perché il nascere della luce non era stato accompagnato da alcuna richiesta di aiuto, da nessun lamento o grido a schiaffeggiare le prime ore del giorno nuovo.
Attese. Silenzio, ma il chiaro sopravviveva. Si mise supino e tornò a gustare la presenza del muro di carta. La distrazione durò poco. Con l’orecchio vigile andò a frugare nella camera accanto. Un corpicino stava rigirandosi, o forse liberandosi dalla pellicola di lenzuolo e coperta. Un tonfo di piedi scalzi, un salto dal secondo o terzo gradino della scaletta lo convinse che doveva trattarsi del figlio maggiore, che alloggiava in alto al letto a castello. ‘Pipì’ pensò, tranquillizzandosi. Doveva riprendere il filo del sogno o non, piuttosto, riconsiderare l’ipotesi di una notte regalata alla lettura, dato che si giudicava del tutto sveglio? Il breve riposo aveva già ripulito le scorie del giorno prima?
Le domande furono risolte da un evento inatteso. Il ragazzo smarrì la via del bagno, o non la cercò affatto. Scostò invece, con una lentezza da ladro, la porta della camera del padre. Non lo faceva, a quell’ora, da almeno dieci anni. Infilò il muso nel locale, così innocuo di giorno, così misterioso la notte. Li vide assopiti, slabbrò ancora un poco lo spazio fra la porta e lo stipite, si diresse verso i libri. La minima luce della camera accanto bastava a intuire qualche titolo.
Lui, rigido come uno stoccafisso, tenendo un pertugio fra palpebra e palpebra, curava l’intraprendenza del figlio. Per reggere il ruolo del guardone, non fece in tempo a dirgli ‘Attento, no, lì no, non devi, non puoi...no...’ E non perché vi fossero libri proibiti, ma perché bisognava possedere una mano educata, sapere come sfilarli, per evitare...ciò che esattamente successe. Il ragazzo usò troppo poco riguardo, o forse fu il buio a ingannarlo. Commise una mancanza grave: per sottrarre una fetta sottile a quella grande torta, fece il disastro. Non un libro soltanto, ma come una lenta cascata ne caddero a terra due tre quattro cinque.
Al che il padre dimenticò ogni garbo: “Dio buono, ma che fai?”
“Scusa.”
Intanto lei s’era girata sull’altro fianco, ma non dava l’impressione d’essersi svegliata.
“Non avevo sonno.”
“Ma non hai i tuoi da leggere?” e si rizzò in piedi.
Accucciati, dopo aver dato più luce, iniziarono la ricomposizione della libreria.
“Di notte si dorme” disse il padre al figlio. “Questo dovrebbe piacerti” aggiunse, allungandogli il ‘Diario di Anna Frank’.
“Già letto. A scuola. Di questa fila me ne manca solo uno. Lo cercavo prima, ma col buio...Eccolo.”
“‘La spartizione’?”
“‘La spartizione’.”
“Veramente, Chiara...”

La successiva ora di quella notte fu due libri aperti, pagine che ritmicamente accarezzavano l’aria, toccando la sponda opposta dopo aver esaurito il loro viaggio. Entrambi s’addormentarono con la luce accesa: il padre a pancia in su, il libro sul petto come il breviario di un prete; il figlio prono, con ‘La spartizione’ a far da cuscino sotto la guancia.

Questo racconto fa parte della raccolta 'Fax d'amore'  (Macchione editore - 1998)
                                                                                                                   

Una mano

E' vero, con gli anni si è portati a mondare la vita al setaccio, selezionando le cose essenziali. Che stanno sulle dita di due mani. Anzi, ne basta una. E forse cinque sono sin troppe.

Come un ronzio

Il pensiero che qualcuno possa soffrire per causa mia mi accompagna come un ronzio senza tregua, invitandomi all'umiltà. Più i giorni si sommano, più il nostro sorriso non può permettersi di essere sfacciato.