lunedì 29 ottobre 2012

Quel giorno che tremò la notte 11



UNDICI

Guardando il sole, per metà nascosto dal contorno ondulato dell’Appennino, Romano si chiedeva come facesse a non essere felice per quel tramonto, e per Roberta. La rabbia cresceva al pensiero di uno spreco. Il ritardo alla partenza da Rimini gli stava rubando piacere. Era arrabbiato con lei ma non avrebbe voluto esserlo, così altra rabbia si sommava alla prima, aumentando la profondità del disagio.
Finiva la domenica d’aprile e mancava ancora molta strada alla villa dei suoi nonni.
“Se n’è andato” disse a Roberta, invitandola a guardare il sole che annegava, lasciando spazio alla notte. Ma Roberta non aveva voglia di parlare. Guardò il rosso ad occidente, inquieta: non sarebbero state ore piacevoli. Romano se l’era presa troppo, aveva reagito come non si sarebbe aspettata, ma come sarebbe stato normale attendersi: stavano insieme da due settimane, non lo conosceva abbastanza da renderlo prevedibile. Guardò l’orologio: “A che ora arriviamo?”
“Non prima delle dieci, buio pesto. Sarà un’impresa trovare la casa.”
Se erano partiti con tre ore di ritardo la colpa era sua, e lo aveva ammesso subito. Ma a Romano non era bastato. ‘Partiamo subito dopo pranzo’ gli aveva promesso. Promessa non mantenuta perché i suoi amici non la lasciavano, i saluti e quel prete: “Devo parlargli. Mi serve” gli aveva garantito.
Romano, in attesa, s’era messo seduto su una panchina a masticare il suo disappunto, guardando l’Adriatico povero di gente in vacanza, un lungomare di coppie anziane con il cappotto e di giovani in tishort.
Aveva sentito dire da un gruppo di ventenni che avrebbero fatto il bagno, più a sud, al lido delle conchiglie. Li aveva seguiti da lontano, andavano veloci, avevano voglia di tuffarsi nel mare, di dimostrare alle ragazze la loro resistenza al freddo.
Si era seduto sulla base in cemento di un ombrellone di uno stabilimento balneare, una casupola triste e disadorna in quella bassa stagione marina. I ragazzi s’erano svestiti, correvano urlanti verso il mare, le ragazze ridevano, strillavano, si toccavano dentro come per dire ‘Il mio è più bravo, il mio è scemo del tutto, quelli sono fuori di testa.’ La sua attenzione si era spostata su una coppia, lui in costume, a pancia in giù sopra un asciugamano bianco, lei con i pantaloni corti e una camicetta a mezza manica. Appoggiava le ginocchia sopra l’asciugamano, le sue cosce combaciavano con il fianco sinistro del suo ragazzo. Aveva provato invidia per loro.
Era tornato a curiosare nel tratto di mare dove i ragazzi di prima s’erano tuffati. Ne era rimasto in acqua solo uno; gli altri, intirizziti, cercavano calore negli asciugamani e nelle braccia delle loro donne. La ragazza di chi ancora nuotava si era alzata, era andata sul bagnasciuga e implorava il suo ragazzo di non fare il deficiente, aveva già dimostrato quello che voleva far vedere, aveva vinto, stop. Uscito dall’acqua anche l’ultimo temerario, Romano si era messo a guardare il mare, partendo dall’orizzonte lontano e risalendo a cavallo di quelle onde senza pretese. Era un mare che non faceva paura ma richiamava ad una visione infinita. Aveva il culo dolorante, seduto sopra lo stretto quadrato di cemento, ma la scomodità non gli aveva impedito di pensare a Dio. Pensieri guizzanti e confusi, disturbati dall’ansia di partire, da un velato disappunto. Aveva pensato alla probabilità di un Dio inventore di mari e di come avesse lasciato perdere quel pensiero molti anni prima, seguendo l’onda delle sue amicizie laiche.
Gli amici di Roberta erano tornati nella grande sala della riunione, lei stava col prete e lui considerava che avrebbero avuto solo due notti, ma la prima rischiava di finire troppo tardi. Sarebbero arrivati stanchi, nervosi dopo un viaggio di molti chilometri.

*** 

“Dove ceniamo?” chiese Roberta.
“A casa non c’è niente.”
“Autogrill?”
“Per forza.”
Del dialogo finale col sacerdote lui non aveva chiesto spiegazioni, si era solo lamentato per la durata. Infastidito dal suo silenzio, quasi avesse ragione lei, ora pretese: “Perché ti serviva parlargli? Proprio oggi?”
Roberta non rispose.
L’auto passava dai centotrenta ai centocinquanta a seconda che l’autostrada salisse o scendesse, seguendo le gobbe dell’Appennino toscoemiliano.
“Almeno in galleria puoi andare più adagio?” chiese Roberta.
“Ma se non supero i centotrenta?”
“Però continui a sorpassare.”
“Se vuoi che arriviamo a mezzanotte.”
“Per me.”
“Per me no, guido io, sono stanco.”
“Anche di me?”
Il sole non c’era più, si era sciolto nel rosso sopra i monti. Sottili nuvole nere anticipavano il colore della notte.
“Non dire stronzate. Perché non mi rispondi?”
Roberta volle metterlo al corrente. Era importante che lo sapesse. “Abbiamo parlato anche delle mie paure.”
“Paure?”
“Paure, sì, tu come le chiami? Non hai paura della morte?” Roberta era seria da mettere soggezione. “Non sto scherzando. Io ci soffro.”
Romano stava guidando, avrebbe avuto bisogno di starsene seduto sul divano di casa, o sopra la sedia di un bar per poter calare in quella domanda, trovare risposte sincere. Erano questioni che preferiva non approfondire, che scansava sapendo di non avere risposte. E viveva bene lo stesso.
“E il tuo amico prete cosa dice?”
Roberta non rispose subito. “Mi interessi tu. Le tue paure.”
“E chi non ne ha?”
Capì, non era il momento: “Ne riparliamo.”
Lui cambiò registro: “E di me? Hai paura?”
“Quando guidi” e Roberta si appoggiò alla sua spalla.
“E questa cos’è?” disse Romano.
“Che c’è?”
“La spia dell’olio.”
“Quella lì rossa?”
“Sì.”
“Ma non l’avevi controllato?”
“Come no” ma era una bugia. Si sentì in colpa: “Speriamo di arrivare al prossimo autogrill.”
Attesero un paio di chilometri, la scritta ora diceva che dovevano tirare avanti ancora tre e fu una fortuna, perché di più il motore non avrebbe retto. Fecero tappa all’autogrill Monte Mario. Era ora di cena.


*** 

Romano aveva sotto il mento un piatto di lasagne al ragù, e di fronte lei. Aveva fame, quel cibo svaporava, mandando segnali gustosi.
Roberta si era fatta portare un piatto di spaghetti conditi con un filo di olio crudo e parmigiano reggiano. “Buon appetito” e lei fece il segno della croce.
Romano si guardò attorno, avrebbe preferito meno chiasso, un tavolo solo per loro; erano costretti a condividerlo con una coppia di stranieri, bevevano birra e mangiavano hamburger. Aveva notato che il più obeso dei due, biondiccio di capelli e con un grosso orecchino, aveva ruttato più volte. Riusciva  a leggere l’ora da un grosso orologio sistemato sopra la cassa. Mancavano tre minuti alle nove.
“Non arriviamo prima delle undici” disse Romano.
“Un paio d’ore?”
“Sì, due ore abbondanti, dipende da quanto ci fermiamo.”
“A me bastano gli spaghetti.”
Romano se l’era immaginato diverso quel loro avvicinarsi alla vecchia abitazione dei nonni. Il pensiero di altre due ore di guida non lo rallegrava. Andava a momenti. Guardarla, pensarla con lui poteva generargli sentimenti differenti. Ansia, ma anche tenerezza.
“Caffè?” chiese Romano.
“Sì, ma se hai fretta...”
“No no, ormai.”
Avrebbero dovuto partire da Rimini nel primo pomeriggio, arrivare al paese prima delle diciannove “perché il negozietto” gli aveva detto la madre “sono sicuro che è sempre aperto, anche la domenica, ma chiude presto, se vuoi essere certo devi essere lì prima delle sette.” Avrebbero fatto la spesa insieme e preparato la cena. Con calma.
Roberta si pulì la bocca con un tovagliolo di carta bianco e rosso, con la scritta dell’autogrill. Lo guardò e rise. Lui trovò quel sorriso molto bello.
“Che hai?”
“Tieni” e gli allungò un tovagliolo pulito. “Pulisciti il naso.”
“Sugo?”
“Sugo.”
Ora le faceva tenerezza. Il malumore era tramontato. Si guardò intorno. Un paio di tavoli più in là sedevano quattro giovani, avrebbero potuto essere studenti al rientro in università, o ragazzi in vacanza. Probabilmente studenti, perché parlavano poco, mangiavano senza entusiasmo. Solo lei, la ragazza del gruppo, dava l’idea di essere felice. Ogni tanto accendeva il dialogo, che si smorzava subito. Ma ci riprovava. Era una gran bella ragazza, luminosa. Non ci fosse stata Roberta, fosse stato fra uomini, sarebbe uscito con una frase d’apprezzamento.
Roberta lo guardò: “Che c’è?”
“Niente.”
“Chi guardavi?” e si girò. “Quella?”
“Saranno studenti? Che dici?”
“Boh” ma un po’ ci rimase male per la sua distrazione. “Vado in bagno.”
“Ordino i caffè.”
La vide che cercava la strada della toilette. La sentì sua. 

 

                                                                                          11 - continua

Quel giorno che tremò la notte 10



DIECI

Aveva fatto tutto lui, Romano. “Stasera ci vediamo al parco, alle sette ci sei?”
“Ci sono. Ma che c’è?”
“Niente, niente, così” ma non era capace di mentire.
Roberta aveva passato la giornata pensando a quel così che non era vero, e alla probabile sorpresa che Romano le aveva preparato. Un’attesa che era stata capace di distrarla nello studio e di regalarle una delicata e costante felicità.
Dal parco dell’Arena vedeva casa sua. S’erano seduti su una panchina in ombra. I milanesi sfruttavano quell’angolo di verde in centro per il passeggio, la corsa, per starsene seduti a ripassare la giornata, a programmare gli impegni futuri e a cercare un senso a quella vita che se ne andava. Ogni tanto buttava in faccia agli altri la sua disperazione qualche accattone, sdraiato su una panchina, seduto a terra, ciondolante senza una meta, con dentro il vortice delle sue sconfitte, la rabbia di non essere nemmeno capace di farla finita per sempre. 
“Dovrei mettermi a correre anch’io” disse Romano, vedendo passare un uomo della sua età, decisamente più grasso di lui.
“Hai visto quello? Ti sei spaventato? Non sei tanto malridotto.”
“Non vorrei finire così” e si palpò le maniglie dell’amore.
“Comunque, male non ti farebbe” disse lei. “Potrei farti compagnia.”
“Ma tu sei magrissima” e le sfiorò la pancia.
“Magrissima non direi.”
“Se andiamo insieme mi viene voglia.”
“Basta liberare le endorfine.”
“Non sono mai riuscito a liberarle, evidentemente.”
“Ci hai provato?”
“L’estate scorsa mi sono preso bene, ho convinto anche Carlo.”
“E allora?”
“Troppo caldo. Abbiamo rinviato all’autunno, così s’è messo a piovere, è arrivato l’inverno.”
“E siete andati in letargo.”
“Più o meno.”
“La primavera è la stagione migliore. Guarda quanta gente corre.”
In silenzio si misero a contarli: una ragazza certamente anoressica, un’altra sui trent’anni, senza seno e con il culo gonfio e flaccido, un palestrato simil Bronzi di Riace, abbronzato e con gli occhialini da sole, una signora sui cinquanta, sudatissima, intagliata di rughe scavate dalle troppe lampade, che correva con gli auricolari e pareva vagasse fuori dal tempo, un vecchietto smilzo che un po’ correva un po’ camminava, facendosi trainare da un grosso boxer che rischiava di farlo inciampare.
“Hanno tutti paura di crepare” disse Romano.
“Un po’ è la moda.”
“Sarà” e si toccò di nuovo i fianchi, considerando che non faceva ancora schifo: qualche seduta di allenamento, in palestra e al parco, e si sarebbe asciugato come una decina d’anni prima.
Il sole era timido, l’aria troppo afosa per essere la fine di marzo, Roberta cominciava a pensare che si fosse sbagliata: aveva solo voglia di stare con lei. Nessun regalo.
Romano raccolse da terra e si mise sulle ginocchia la solita borsa nera che nascondeva il computer, un quaderno, biro, matite, il cellulare, una moleskine, l’agenda del giornalista e le caramelle che lo aiutavano a mantenere la promessa di non fumare più.
Roberta seguì le sue mosse con la coda dell’occhio.
“Tieni” e le allungò un pacchetto lungo una spanna.
“Per me?” e cominciò a ipotizzare: un gioiello, comunque qualcosa di prezioso, oro, argento no, era piuttosto squattrinato. Trucco? Rossetto, profumo, fondotinta. Magari. “Cos’è?”
“Fai almeno la fatica di aprirlo” disse Romano.
Allora scartò il pacchetto con riguardo: era il suo primo regalo, avrebbe conservato il nastrino dorato, la carta, tutto. Non ci volle molto a capire di che si trattava, le bastò leggere le prime due lettere della parola Swatch.
“Grazie.”
“Non lo porti mai, non è che ti fanno schifo.”
Più che schifo le davano fastidio, ne aveva in camera quattro compreso uno Swatch, ma preferiva lasciare il polso libero. “E’ figo, grazie” e lo baciò sull’orecchio destro; il rumore del bacio schioccò nel buio canale. “Mi ha fatto piacere.”
“Ti amo.”
“Anch’io.”
 

                                                                                          10 - continua