domenica 2 dicembre 2012

Vicolo Canonichetta 6


Sei

Giulio aveva chiesto due giorni di ferie: giovedì ventisei e venerdì ventisette maggio. Alla moglie aveva raccontato che sarebbe stato fuori città per lavoro. Ed eccolo adesso: scappato da casa alle sette e venti, senza un saluto per lei, annodato fra la voglia di tornare, la necessità di abbracciarla, di raccontarle tutto, di sopportare il prezzo della verità ma insieme spinto altrove, verso la fuga o l’approdo da Lucia. 
Aveva preso l’auto indirizzandola fuori città. Pensava alla guida come un principiante, gli tremavano le mani, aveva frenato senza necessità, sudava. All’idea che un altro, forse satana, forse un virus, lo stesse guidando verso l’autodistruzione, pensò di andare al camposanto, dove erano sepolti suo padre e sua madre. Anche a loro aveva chiesto di poter tornare quello di sempre. Era poi ripartito verso la collina.
‘Devo camminare’ e scelse il ripido sentiero di sassi che conduceva in alto, al santuario della Madonna Nera.
Lasciò l’auto ad Oronco, vicino all’edicola con la Madonna del Valtorta. Prese il ripido acciottolato di via Conventino. Da una delle prime ville, una bella dimora avvolta nell’edera, sentì uscire il canto di una donna. La riconobbe come colei che chiamavano la figlia dell’Angelo Buttè, una cantante del coro della Scala di buona fama. 
Benché procedesse per piccoli passi, dal ritmo lento, Giulio sudava e ansimava; pesava novanta chili, aveva smesso di fumare da poco, era ingrassato e fuori forma. Prima di sbucare sulla rizzàda del lungo viale delle cappelle, intuì l’avvicinarsi di un paio di persone che lo seguivano. Ormai l’avevano raggiunto quando sentì uno dei due dire all’altro: “Il coraggio non mi manca, è la paura che mi frega.” L’altro rise. Poi i due lo superarono senza salutarlo.
Sbucò alla Prima Cappella, dedicata all’Annunciazione. S’era convinto che avrebbe dovuto parlare con Matilde, quanto meno avvisarla, mentire ma farsi vivo. La chiamò. Il suo cellulare era spento. Pensò di telefonare alla segreteria, di farsela passare. Ma perché non chiamava lei?
Superata la Seconda Cappella, che riproponeva l’episodio evangelico della visita di Maria alla cugina Elisabetta, si fermò; davanti a lui la Quarta Cappella sbucava dal bosco, solitaria: dietro a lei cielo e qualche nuvola. Guardò alla sua destra, l’ampio panorama sfocato dalla calura; si concentrò sul campanile di Sant’Ambrogio e, più a sud, sul centro di Varese, in mezzo al quale distingueva a fatica il campanile del Bernascone.
Riprese l’acciottolato. Notò, alla Terza Cappella, che il dipinto realizzato da Renato Guttuso una ventina d’anni prima, una Fuga in Egitto dai colori vivaci, si stava scrostando in alto a destra, nell’azzurro del cielo. Poi venne la ripida ascesa fra la Quarta e la Quinta, il piano dopo il Secondo Arco, la grotta con le statue delle Beate Caterina e Giuliana, una svolta a gomito e una panca di pietra, sulla quale si sedette. Fu lì che provò per la seconda volta a chiamare Matilde, ma non ottenne risposta.
*** 
Invece aveva chiamato Lucia. E lui a dirle che stava bene, che domani sarebbe stato il loro giorno, ma non la voleva più. Temeva il fallimento. Come dirle che era depresso quando lei se l’immaginava affidabile com’era salda la roccia, sopra la quale avevano edificato, quattrocento anni prima, il santuario dedicato alla Madre del Monte Sacro di Varese?
Un gruppo di cinque signore non più giovani scendeva verso di lui dall’Ottava Cappella. Per il suo umore, parlavano a voce sin troppo sostenuta: euforiche come ragazzine, si rubavano l’un l’altra la scena, quasi che l’argomento dell’una fosse di gran lunga più interessante di ogni altra questione proposta dalle altre. Parlavano di diete e di figli. La più bassa di statura si portava appresso un barboncino nero come pece. “La mia Cherie ha sete” disse. “Per forza, con questo caldo!” fu la sola risposta che ottenne.
Il gruppo di signore aveva da poco svoltato a sinistra quando sentì un canto, in  discesa dal colle. La voce s’avvicinava, e con lei una donna non più giovane. Cantava la Salve Regina in latino a piena voce, senza stonare, con un timbro delicato. Quando fu di fianco alla panca in pietra smise il canto, lo salutò con un sorriso, quindi riprese a pregare. In gioventù doveva esser stata una gran bella ragazza.     
Giulio riattaccò con lentezza il cammino. Guardava a terra, i suoi piedi e le pietre lisce che avevano sopportato per secoli il peso dei pellegrini, gli zoccoli dei cavalli e le ruote dei carri. Provò lo sconforto appagante d’essere vittima. Dopo un po’ alzò la testa, guardò in alto: il paese, detto Madonna del Monte, pareva finto, da presepe. Dalla pendenza della Decima Cappella, quella della Crocifissione, vide scendere qualcuno, che teneva al guinzaglio due cani. Gli animali cominciarono ad abbaiare e ad agitarsi quando fra lui e loro mancavano almeno cinquanta metri. E più la distanza si riduceva, più la rabbia dei cani cresceva. Quando si incrociarono riconobbe un pastore tedesco e un fox terrier a pelo liscio, mentre non conosceva la giovane padrona, che cercò di scusarsi per quell’aggressività senza motivo. Lui disse: “Devo avere un aspetto poco rassicurante.” Lei sorrise e diede una strattonata agli animali, tendendo il guinzaglio e riprendendoli con una sgridata dall’effetto nullo.
Più su, alla Dodicesima Cappella, rallentò ancora e venne superato da un podista: basso di statura, brevilineo dalle cosce muscolose, in canottiera, sbuffava rubizzo in viso come un ubriaco. Alzò la mano destra per salutare Giulio, o forse per mandare al diavolo quella sua fissa salutistica.
Alla Quattordicesima, dove parte l’ultima pendenza della rizzàda che conduce al Mosè e, per gradini, al santuario, un uomo alto, magro e all’apparenza triste stava ritto in piedi. Teneva in mano un piccolo blocco da disegno con copertina in pelle: stava schizzando a matita quell’ultima ascesa, la lontana statua del Mosè e il campanile.
Dopo oltre un’ora di cammino arrivò nei pressi del santuario. Suonavano le dieci. Era provato. Giunto sul piccolo sagrato, con la statua di Papa Paolo VI e qualche pellegrino col rosario in mano e le preghiere fra i denti, si sedette sul muretto, all’ombra.
Dal borgo saliva una brezza che ristorava. Più a sud s’apriva la piana verso la metropoli, campi coltivati e laghi, opifici e case. Un panorama che venivano a gustarsi in molti, scomodandosi dalla Germania, dalla Francia, dall’Olanda, dalla confinante Svizzera e persino dagli Stati Uniti.
Guardò verso il basso. Pianse. Spalancò la bocca per lasciar entrare il vento, che gli soffiasse fuori il veleno che s’era annidato nei polmoni, nello stomaco, nel cervello. Guardò ancora verso la scarpata e valutò che, da lì, sarebbe morto di sicuro. O forse sarebbe rimasto vivo, ma storpio e sano di mente. La testa girava. Gli parve che qualcuno lo invitasse a vincere ogni legame con la vita. Sentì il contatto di mani che si impossessavano del suo corpo. Barcollò verso il baratro. Lasciò cadere pesantemente il suo ventre contro la paratia di pietra, s’aggrappò con le mani al muretto, le ginocchia a terra. Nessuno lo vide. I pellegrini erano tutti entrati nel luogo di culto.
Scappò dentro anche lui.
*** 
Era da poco iniziata la Messa. L’interno era buio, una grotta. Giulio non entrava al santuario da anni. Si mise in fondo, l’ultima panca. Non più di venti persone sedevano ad ascoltare il prete, giovane, con la barba lunga, forse un missionario. La statua di Maria era sopra il tabernacolo, sotto vetro. Fissò la statua, guardò il celebrante e intanto respirava, a lungo, con calma, ripetendosi che se c’era stato un bel sogno, ora il sogno era tremendo ma era pur sempre sogno. Si sarebbe svegliato.
Si sedette. Prese il fazzoletto e si passò la fronte. Alzò lo sguardo: i putti, gli angeli, i patriarchi aggrappati alla volta barocca lo fissavano, facevano smorfie, muovevano il capo. Atterrito si rialzò, stava per uscire quando sentì che se non parlava con qualcuno sarebbe impazzito. Chiese se confessavano e un’anziana gli indicò il confessionale con la luce rossa accesa.
“Padre Umberto, lì c’è sempre padre Umberto.”
Sarebbe corso da lui ma si trattenne. Che avrebbe raccontato al prete? La necessità di un uomo, di un dio qualsiasi lo portò al confessionale. Tremava nelle mani e nelle parole e parlava, parlava senza riprendere fiato, anche di sua moglie e dei figli che non erano arrivati e della fatica di essere cristiani e della pena della vita.
Padre Umberto lo ascoltò, gli diede l’assoluzione e lo salutò. “Tre avemaria alla nostra cara Madre. Ma si sente bene?”
“Sto bene, adesso meglio, grazie.”
Tre avemarie e poi quattro, cinque, dieci perché ogni volta cercava di mantenere la concentrazione dall’ave all’amen ma si disperdeva nella palude dell’ansia; così cominciava da capo e così tirò sino alla comunione.
L’ostia gli si incollò al palato. Non aveva saliva. Gli parve di soffocare. Tornò alla panca. Si sedette. Pensò che non doveva aver fretta, lentamente si sarebbe sciolta da sola. 
Uscì, ritrovando la luce del sagrato. Stava guarendo? Gli bastò avvicinarsi al muretto, guardare la città giù di sotto per provare le vertigini. Era di nuovo inaffidabile.  

                                                                                            6-continua