FRA IL PRATO E IL CIELO
Camminava sopra un prato, nell’ora
quieta della sera. Solo. L’erba era ben curata, lo invitava a sdraiarsi. Così
fece, dopo aver saggiato con la mano il grado di umidità. Il prato era fresco,
non bagnato. Si distese, guardandosi attorno. In lontananza una coppia
camminava lentamente, forse mano nella mano. Erano troppo distanti per
giudicare il suo modo poco elegante di affrontare quell’ora del giorno,
sdraiato a terra, come un barbone. Si accomodò, dovette compiere alcuni movimenti
di assestamento, un sasso lo infastidiva all’altezza della scapola destra, una
zolla più alta premeva sull’osso sacro. Mise le mani dietro la nuca, come per
un esercizio ginnico alle spalle, e guardò il cielo. Solo azzurro, un soffitto
uniforme, senza veli di nuvole. Pochi moscerini gli volarono vicino agli occhi.
Si rilassò sotto un cielo liscio come un vetro, ora attraversato da due
rondini. Il sole, in discesa ma ancora alto all’orizzonte, indorava i loro
corpi sottili nella parte superiore, le ali parevano infuocate. Arrivarono le
formiche a disturbare, due, tre quattro sopra il braccio nudo, un pizzicore
irritante che lo obbligò ad alzarsi, a scacciarle, a schiacciarle con poco
garbo. Decise che quel disturbo era sufficiente per rimetterlo in piedi. Pensò
che sarebbe stato in grado di sopportare quella natura poco accogliente, che
avrebbe resistito e si sdraiò di nuovo, ricercando e ritrovando in pochi attimi
la comodità del suo punto d’osservazione. Cercò di rilassarsi al meglio, di
allentare ogni contrazione, accompagnando quella mollezza con ampi respiri. Sentì
lo zampettio di altre formiche ma riuscì a dimenticarle alla svelta. Tutto
riusciva ad annullare, non i pensieri. Chiuse gli occhi immaginando il cielo
sereno e pensò alla potenza dei ricordi. Alla loro bellezza. E un ricordo piacevolissimo planò in quel prato
come un aliante. La memoria di quei fatti li depurava da ogni scoria lasciata
dalla realtà e li riconsegnava con una purezza rara. ‘Mio Dio, che bello!’ e
rivedeva e rigustava e cercava di trattenere ogni sequenza, come un bimbo che
gusta il gelato per non farlo finire. Ma al colmo del piacere salì uno
struggimento violento, inatteso eppure già sperimentato. I ricordi parlavano di
fatti irripetibili, lontani ma vivi come fossero su quel prato, a quell’ora, lì;
il piacere lasciò spazio al dolore, un malessere profondo, insanabile. Quella
gioia non sarebbe mai più tornata, il ricordo era il più vendicativo degli amici,
un mentitore che vende felicità avvelenata. Cercò allora la sola medicina, la
dimenticanza. Scappò dai ricordi come un ladro, come se quelle immagini si
fossero trasformate in bestie feroci, pronte ad inseguirlo per azzannarlo, per
finirlo fra i tormenti. Cercò di distrarsi, risentì il pizzicore degli insetti,
capì che un tafano si era posato sopra lo stinco e lo scaccio alla svelta.
Troppo tardi. ‘Mi ha già punto quel bastardo!’ disse, sfiorandosi la pelle
irritata.
Era dunque quella la vita? Ricordare
e dimenticare? Ricordare per vivere, dimenticare per non morire, come l’onda
che va e che viene, come il cuore che si contrae e si distende, che soffia e
prende fiato, che regala il sangue al corpo e subito si ritrae, per paura di avere
esagerato?