mercoledì 5 ottobre 2011

Nemmeno un cane

Tutto si può dire, non che agli incontri del Premio Chiara non ci fosse nemmeno un cane!

Scherzi a parte, ricordo che gli incontri continuano.Vedere il programma su www.ilfestivaldelracconto.it

Amanda Due

Completo quanto scritto nel post che segue. Se Amanda fosse colpevole, quale pensiero può averla sorretta in questi quattro anni, rendendola capace di mentire così spudoratamente? Probabilmente molti, ma credo uno in particolare: la mia amica Mez ormai è morta, non volevamo ucciderla ma è andata così, che io sia o non sia in carcere per lei non cambia nulla, allora è meglio che almeno una di noi due si salvi, se no moriamo entrambe.
La nostra mente è così abile a trovare giustificazioni anche nelle situazioni più disperate, che Amanda può avere addirittura pensato: in fondo Mez potrebbe essere persino contenta della mia scelta di mentire. Si fa di tutto per sopravvivere.
Mi piace però pensare che Amanda sia innocente, che la giustizia umana (così fallace, così condizionabile) abbia visto giusto, e che quel pianto e quel sorriso siano del tutto sinceri.

Amanda

Di solito non seguo con particolare interesse vicende cruente, tipo quella che ha coinvolto Amanda Knox (foto da Google immagini) e la sua povera amica Mez. Ma le immagini che ho visto nei giorni scorsi (Amanda in lacrime dopo la sentenza d'assoluzione e poi sorridente in volo verso Seattle) mi hanno fatto pensare. Se Amanda è davvero innocente, sono stati per lei 4 anni d'inferno, che le hanno fatto perdere per sempre la quiete interiore. Ma se è colpevole, come interpretare quelle lacrime e quel sorriso? A tal punto arriva l'umana capacità di fingere? Di dimenticare?

IL RACCONTO DEL MERCOLEDI'

CODICI

Sono nel panico. Ho già fatto passare dal carrello con rotelle al tapis roulant che precede la cassa due litri di latte, una confezione di yogurt, un sacchetto di carote, le gomme da masticare, le lamette da barba e due bottiglie di birra, molto altro sta nel carrello, ho già consegnato alla cassiera la carta oro del supermercato, che mi permette di pagare senza contanti, basta conoscere il codice. Sono nel panico perché quel codice non lo ricordo più. Ed è troppo tardi. Mi fossi ricordato prima della dimenticanza, quando ancora non avevo scaricato della merce sul nastro trasportatore, avrei fatto altre scelte. Sostanzialmente due, visto che non ho contanti e ho il cellulare scarico, quindi non posso pagare con euro vivi e non posso chiamare mia moglie, per chiederle il numero di codice della carta oro. Me ne fossi accorto prima avrei rimesso la merce sugli scaffali oppure, furbescamente, avrei lasciato il carrello da qualche parte e me ne sarei scappato da lì. Ci avrei perso un euro, ma chissenefrega.

Sono nel panico perché non so che fare, non so che ricordare, non so come ricordare quei quattro numeri. Un vuoto di memoria clamoroso, ogni tanto succede, soprattutto nel divenire della mezza età che dovrebbe essere la mia. S’annebbia l’orizzonte, un colpo di spugna alla memoria, tabula rasa. Ne ho in mente tre o quattro di codici, non ho più certezze, potrei digitarne uno ma se non fosse quello giusto? ‘Non me lo prende’ direbbe la cassiera, farebbe scorrere di nuovo la carta oro nella fessura e mi allungherebbe la piccola tastiera: ‘Riprovi’ direbbe. E se sbagliassi di nuovo? Ma sinceramente ciò che mi opprime sono gli sguardi della lunga fila che si è formata dopo di me.

Lancio gli occhi in mezzo a quella mal combinata sequenza di individui. Ho già capito tutto. Hanno intuito che ho dei problemi, che non sarà una conta veloce, c’è un intoppo, già si pentono di aver scelto quella fila. Non mi sbaglio, in fondo, gli ultimi due stanno litigando, lei dice a lui “Te l’avevo detto che dovevamo andare di là” e indica la cassa numero 23, quella dopo la mia, la 22.

Intanto continuo a caricare la merce sul nastro, fingendo noncuranza, ma vado lento, quello che viene dopo di me preme. Rallento ancora un poco i movimenti, prendo aria, ripasso. L’ansia rimescola i numeri come le cifre della tombola nel sacchetto. Scappare non si può, tutto il resto è figura di merda.

Tre elementi mi esasperano: il signore dietro di me (almeno settant’anni) sbuffa, la signora dietro di lui (non meno di sessantacinque) guarda l’orologio, in fondo il grottesco litigio fra lui e lei (non meno di centoquarant’anni in due) continua.

Al secondo sbuffo di quello dopo di me, penso: ‘Manco avesse Sharon Stone nuda sul divano ad attenderlo a casa’ e faccio morire dentro la mia anima inquieta un mezzo sorriso.

Ma al terzo sbuffo del settantenne (malvestito, pelle untuosa, barba malcurata), che vorrebbe ritagliarsi uno spazio sul nastro trasportatore, scatto come Usain Bolt: “Scusi, ma che cazzo di fretta può avere lei? Che cazzo ha da fare? Deve forse andare al lavoro? Io sì che ci devo andare, ho i minuti contati e non ricordo il codice, ma lei? Mi sa dire perché cazzo sbuffa? Aspetti il suo turno e non rompa i coglioni!”

Il vecchio trasecola, la cassiera interrompe il suo strisciare la merce sopra la cellula fotoelettrica, la lunga fila indiana ammutolisce. Penso di avere esagerato e mi sto pentendo.

Chiederei scusa, ma la signora dietro al settantenne, quella che prima aveva guardato l’orologio ed ora si straccerebbe le vesti, se ne avesse il coraggio, dice: “Ma che modi! Ma che vergogna!”

Chiedo “Permesso” al settantenne, scalo di un posto, mi avvicino alla vecchia e dico, con ironia nemmeno sottile: “Eccone un’altra, che deve andare a casa a scopare!”

La fila, al mio verbo dal doppio senso voluto, emette un ooohhh di disappunto, ma il penultimo della file ride divertito. Nel frattempo la coppia litigiosa è passata alla cassa 23.

Non lascio il tempo all’anziana di riprendersi dalla sorpresa per la mia frase provocatoria, guardo nel suo carrello, noto una confezione di sei uova, con calma innaturale, presagio della tragedia, la apro, estraggo un uovo, utilizzo il bordo in ferro del suo carrello per spezzare il guscio come stessi facendo una frittata, rovescio tuorlo e albume sopra la sua chioma falsamente castana, dai radi capelli sfibrati dalle tinte e dall’età. A quel punto attendo ogni reazione senza reagire: il settantenne mi blocca dicendo “L’è matt!”, arriva la guardia responsabile della sicurezza chiamata dalle urla della cassiera, quello che rideva (il più giovane della fila) si fa sotto e non ride più, dà manforte agli altri due. Sono immobilizzato e condotto su una sedia, accompagnato da ‘Si calmi! Ma che le ha preso? Ora rischia la denuncia, e non avrebbero tutti i torti. Ma che le hanno fatto, in definitiva? Cos’è sta storia del codice?’

Sono seduto, davanti a me stanno parecchie persone, la curiosità morbosa del supermercato sale come un’onda.

I due anziani da me calunniati stanno decidendo se denunciarmi, non oso dire nulla, non voglio chiedere scusa, spero che mi lascino in pace ma sono pronto a tutto.

Li guardo. Non ce l’ho con loro, poverini. Ce l’ho con il loro stato. Non voglio diventare vecchio: tutto qui. E la dimenticanza del codice mi ha detto che proprio lì sto andando a parare: inesorabilmente.