sabato 28 maggio 2011

La fisarmonica di Katerina

Vidoletti multietnica, con la musica come elemento d'incontro e di conoscenza. Ecco, direttamente dall'Ucraina, Katerina con la sua fisarmonica.

Fra tango e can can

Molto riuscita, stamani, la Festa della Musica alla Vidoletti. La musica come elemento che unisce differenti culture. Esibizioni anche di tango e can can (foto), con divertimento per i ballerini e il pubblico.

La danza del ventre

Anche la danza del ventre, stamani, alla Vidoletti. Un'espressività corporea poco 'consona' alle laboriose genti del nord, che certo non disprezzano tali movenze orientali. Del resto l'Italia è un comodo ponte sul Mediterraneo, e ci si deve abituare alle tante novità che vi transitano.

IL RACCONTO DEL MERCOLEDI'

Nota introduttiva.

Anticipo ad oggi il Racconto del mercoledì, perché mercoledì prossimo sarò al mare. Non avendo foto di una moto Morini, ho scelto una Moto Guzzi d'antan. Naturalmente, come tutti i miei racconti, anche questo è frutto di pura invenzione, ma di quell'invenzione che s'abbevera dei ricordi. Dal nulla non viene nulla, da una delusione d'amore può anche ricamarsi un raccontino simpatico.


LA MOTO

L’ho visto arrivare con il suo Morini quattro tempi, a benzina, bianco e rosso. Ma già sapevo chi era: urlavano il suo nome i quattro cilindri, voce amplificata dalla cassa armonica della testata d’argento di quella sua moto superba. Gliela invidiavo dal vetro del fanale anteriore al catarinfrangente sul parafango posteriore; invidiavo il suo possedere la velocità. Franco era il più ricco fra noi, la sua moto lo testimoniava. Avevamo l’età del cinquantino, non di più, ma i quattro tempi regalavano a quel Morini la dignità di una moto da adulti.

Franco è arrivata nel nostro cortile, senza casco, con aria distratta e superiore, come di chi non immagina il perché del nostro accerchiarlo. A lui la moto, a noi le briciole di bici senza cambi e tante moto cavalcate di notte, nel letto, dentro un sonno da figli del dopoguerra.

Noi intorno alla moto di Franco, e Franco a sorridere, portando la buona novella: “C’è una partita di calcio alla chiesa…ci aspettano.”

Il campo della chiesetta. Di campi da pallone ne calpestavamo almeno cinque: il cortile di casa mia, l’oratorio, il castello, il pratone e quello della chiesa di San Celso, che non era il più bello ma sempre meglio di un sagrato di casa popolare, con sassi e terra.

Mi stavo dirigendo in cantina per recuperare la bicicletta quando la voce di Franco, roca come avesse imparato l’intonazione del Morini, mi ha preso per il bavero: “Salta su” mi ha detto. “Tu vieni con me.”

Era la prima volta su quel sellino.

“Grazie” gli ho risposto, e mi sono accomodato.

Volavamo Franco ed io verso il campo della chiesa, lui sicuro nella guida, con accelerate da spavaldo, io intimorito ed estasiato, dentro un pomeriggio d’estate che mi aveva fatto sudare e che adesso, nel fresco del viaggio in moto, trasformava il sudore in piacevole frescura su tutto il corpo.

“Ti sta aspettando una ragazza…vuole vederti” ha detto Franco ad un certo momento, quando mancavano ancora cinque minuti di viaggio. Dentro quell’aria in movimento e il ruttare del motore Morini, la notizia mi ha fatto impazzire il cuore.

Volavamo verso il paradiso io e Franco, un eden popolato ora non dalla disfida calcistica, ma dall’immagine di una ragazzina (Franco l’aveva definita carina) che mi stava attendendo vicino alla chiesa. Una donna interessata a me, che mi voleva vedere, che mi avrebbe parlato perché –non potevo dubitarlo- certamente le piacevo, mi aveva incontrato chissà dove, o aveva saputo di me da qualche altra ragazza.

In quei pochi minuti ho ripassato ogni volto probabile e assaporato le più invitanti emozioni. Me la immaginavo bella, bionda, occhio chiari, perché uno non può prevedere di essere accolto da una ragazza brutta, cioè non degna di una simile attesa.

Il cuore cantava, mi mancava il fiato, appoggiavo la guancia sulla schiena di Franco, lo cingevo alla vita grassoccia e sognavo quel sogno finalmente reale. Un sogno meno illuso e più in carne ed ossa.

Il solo fatto d’aver suscitato un interesse femminile mi inebriava. Mi sentivo sicuro e interessante, avrei affrontato l’incontro con inevitabile emozione ma sarei stato in grado di reggere il confronto, di offrirle il mio meglio.

“Ma tu la conosci?” ho urlato a Franco, senza ottenere risposta.

Silenzio, mi frullavano immagini condite da gioie mai assaporate, un languore amoroso che mi struggeva. Il pallone non aveva più senso, meglio, la partita sarebbe stata momento di gloria per sorprenderla col mio gioco, affascinarla; lo si sapeva che ero sempre fra i primi ad essere scelto, quando i capitani faceva bimbumbam e ci si spartiva per squadre.

Così siamo arrivati al campo della chiesa: poca erba e molta polvere, un sole là in cima che abbagliava, radi alberi che proiettavano ombre striminzite.

Franco si è diretto verso un tiglio: “La posteggio qui sotto” mi ha detto. “Salta giù.”

Sono sceso di sella, accompagnato dagli ultimi versi del motore. Avevo già perlustrato la zona, da tempo indagavo sulle presenze in quel luogo. A bordocampo nessuno, mentre sul terreno di gioco era già in corso una partita. La palla volava e strisciava, rimbalzava e saltellava senza un lamento, nonostante tutti quei pedatoni.

Non s’era mai vista una ragazza, e più ancora una bella ragazza, giocare a pallone coi maschi. Ma se non era là in mezzo, nella terra e nel sole, dov’era?

Allora ero ingenuo ma lo sono anche adesso, a voler raccontare una storia di così poco interesse. Ho sofferto notando che lì, vicino alla chiesa, si contavano unicamente ragazzi, sudati e sporchi, agitati e col solo interesse di fare un gran gol, quando Dio aveva creato la donna per regalare paradisi terrestri.

E’ arrivato Franco, non alto ma grasso, non bello ma ricco, ancora innocente a quel punto.

“Ma la ragazza?” gli ho chiesto. “Dov’è?”

“La ragazza….ah, già, la ragazza…” e si è messo a ridere.

Franco non era il mio amico del cuore. Forse lo sarebbe diventato. Ci stavo pensando quando, insieme, cavalcavamo sopra la groppa del Morini. Non so perché ha inventato quello scherzo, perché ci ha messo di mezzo l’amore, il soffrire d’amore. Eppure aveva un anno più di me e, oltre alla moto, filava con le ragazze più belle. Doveva sapere. Immaginare. Prevedere la mia tristezza insanabile. O forse i soldi rendono lecito far piangere un compagno di giochi, dopo averlo trastullato nell’illusione più atroce?

Ho dato un solo pugno sinora. A Franco. Quel giorno. Sul naso. E se sangue c’è stato non mi ha mai fatto pena.