mercoledì 7 novembre 2012

Quel giorno che tremò la notte 22



VENTIDUE

A don Marco occorse molto tempo per strisciare da sotto, ridiscendere le scale interne e portare la notizia. “L’ho visto…li ho visti. Il ragazzo è vivo…La ragazza…forse erano i suoi capelli….non ne sono sicuro, però. Non dà segni di vita…”
La giacca grigia di don Marco era lacerata, un paio di bottoni erano saltati, i pantaloni sporchi, le scarpe nere, lucide, avevano la punta consumata, rigata. Era sudato, nonostante la temperatura piuttosto rigida.
Le poche persone riunite in quel cortile presero coraggio. I due sul tetto sbracciavano, fecero segno al prete di salire, di spiegare anche a loro cosa aveva visto. Avrebbero trovato insieme la strada per raggiungerlo.
“Venga su, venga su” urlava Giorgio.
Don Marco s’arrampicò sulla scala, a fatica, e si portò sul tetto.
“Sì, ci sono, uno è vivo, respira..la ragazza, mi pare non ci siano speranze per lei.”
“Che si fa?” chiese Peppo.
“Da dentro è impossibile” disse il sacerdote.
“E allora?”
“Qui sopra?”
“Lo vede anche lei” disse Giorgio. “E’ impossibile.”
“Ma dobbiamo tentare, in ogni modo” disse don Marco. “Non possiamo aspettare aiuti, non c’è tempo.”
I tre si guardarono. Quell’attesa, quel mettere in comune la disperazione era già una perdita di tempo. Si piegarono e ripresero a lanciare verso il cortile il materiale. Ora potevano spostare anche pezzi più pesanti.
“Adagio…piano…” diceva Giorgio.
“Più a destra, direi di provare più a destra” disse don Marco. “Qui siamo fuori, il letto è al centro del locale.”
“Dica lei, che ha visto.”
“Tentiamo” disse il prete.
“Tentiamo” disse Giorgio.

*** 

Nel prendere fiato, dopo almeno mezz’ora di lavoro, don Marco diede un occhio al cortile, che si andava riempiendo del carico che liberavano dal tetto. Erano rimasti solo in tre: la donna che diceva di conoscere la padrona di casa, un ragazzo che faceva la spola fra quel cortile e uno vicino, e una signora molto anziana. L’avevano fatta accomodare su una poltrona, l’avevano fasciata in coperte pesanti e lasciata lì, sola. Teneva la corona del rosario in mano. Gli altri probabilmente erano andati a controllare le loro disgrazie, ad aiutare altri bisognosi, a pregare nella chiesina, a bestemmiare, a piangere.
Don Marco aveva saputo che il luogo di culto del paese era rimasto intatto, e solo da poco era arrivato chi custodiva le chiavi. Aveva aperto, lasciando che vi entrassero gli sfollati.
Si sedette sul tetto. Guardò Giorgio e Peppo che continuavano a buttare di sotto materiale con una foga ingiustificata. Non sarebbero mai arrivati sino a loro. Stava vivendo dentro un’allucinazione, che diventava incubo quando ripassava le sequenze delle ultime ore, un tempo vero, una cronaca disgraziata della quale si sarebbe parlato a lungo. Ma lui che ci stava  a fare lì seduto? Perché non aveva dato retta alla prudenza? Alla riflessione? Perché aveva svoltato, dirigendosi al paese? A Roma lo aspettavano. Seguire il Vangelo era correre dietro alla prima voce dell’anima, o attendere che parlassero anche tutti gli altri suggerimenti? Era stato così irrazionale da doversene pentire, ora, lassù, sporco insieme a gente sconosciuta, mentre l’alba regalava altre atrocità a quella ribellione della terra?
Era stanco, infelice, confuso.  Anche fossero arrivati sino a quei due disgraziati, li avrebbero trovati certamente morti, e se non morti, feriti irrimediabilmente. A questo pensava don Marco, riflessioni che deragliavano cercando altri binari, più vicini ad un’umanità che avrebbe dovuto accompagnare un uomo di Dio.            


                                                                                       22 - continua

Quel giorno che tremò la notte 21


VENTUNO

Romano si svegliò. Qualcosa lo stava sfiorando sul naso. Sulla bocca. Una mano, le dita di una mano e una luce che lo feriva. Una voce, una filo sottile che lo collegava al mondo dei vivi. Don Marco, strisciato sin lassù, sdraiato, teneva con la sinistra la torcia e con la destra, allungandosi il più possibile, nell’anfratto che era rimasto aperto sotto il tetto crollato, lo accarezzava.
“Mi senti? Rispondi. Muovi la testa se mi senti” urlava don Marco.
Romano non capiva. Era stordito, ma appena trovava un po’ di luce nella mente la chiamava “Roberta, Roberta…”. Romano avrebbe voluto gridare ma usciva solo un rantolo, che don Marco cercava di interpretare, trattenendo la gioia. Il ragazzo era ancora vivo. 
“Cosa dici? Dai, parla, dai….” e intanto gli illuminava il viso. Romano aveva gli occhi serrati, il viso sporco di sangue e di terra, ma altro non riusciva a identificare di lui. Solo il nero di quella notte senza luci artificiali e un volto irriconoscibile. In quei rantoli don Marco pensò di aver capito che stava chiamando la sua ragazza. Fece luce intorno, per quel poco che riusciva. Era incastrato anche lui, con quintali di materiale che avrebbe potuto schiacciarlo alla prossima scossa. Non vedeva che macerie, mattoni, tegole e le gambe metalliche del letto.
Ma non era il momento delle domande e delle risposte. Solo una la domanda, come liberarlo. Non c’era altra via che togliere da sopra il peso che lo opprimeva. Con tutti i rischi di quella operazione. Con tutte le cautele. Ma dalla posizione del sacerdote ogni intervento sarebbe stato impossibile.
Ora quell’uomo non diceva più nulla. Morto? Don Marco cercò di far luce per cogliere il movimento del respiro, il tremore delle labbra, segnali di vita. Girò ancora con il tondo luminoso, distingueva bene una gamba del letto, piegata dal peso enorme del terremoto. Vide qualcosa fra i sassi. Erano capelli. Probabilmente.   

                                                                                              21 - continua