Ho già pubblicato qualche mese fa, fra i racconti del mercoledì, questo intitolato LA STAZIONE, che fa parte della raccolta 'Fax d'amore'. Lo ripubblico perché è un racconto che non mi dispiace, benché scritto nel 1998.
LA STAZIONE
Necessito dei ricordi
come dell'acqua. O forse potrei farne a meno ma sono loro a chiamarmi, voci
lontane e penetranti di mitiche sirene. Non posso affermare da convinta che
vivo quel tanto che serve ad accumulare altri ricordi; esagererei, per quanto
ogni eccesso contiene una scintilla di verità. I ricordi sono la mia vita, in
parte la costituiscono, la rendono di volta in volta più piacevole o più
melanconica. Non di rado, nel timore d'esser già vecchia, li scaccio in
malomodo, o più educatamente li ripongo, li evito, perché ho anche tanto da
fare, di interessante e di noioso, che nulla divide con quanto ho già vissuto.
Ma vi sono giornate che
paiono votate alla memoria. Mi levo con una tale predisposizione alla nostalgia
che il corpo si fa spugna, s'inzuppa di ciò che è stato e non è mai semplice,
né indolore, convincerlo che i sogni sono amici incompleti, offrono un calore
così fuggevole, una gioia così triste al risveglio, che non è un buon affare
assecondarli sino alla delusione. Eppure queste giornate fanno parte della mia
esistenza. Oggi, infatti, ci sono caduta dentro. Per questo sto camminando
verso la stazione. Alla ricerca del profumo di Marco.
Ecco il sottopasso:
scendo, fra poco il buio e le scritte. Allora, oltre vent'anni fa, ventitré per
l'esattezza, erano assai meno questi fratelli neri, con le loro mercanzie, con
le loro timide pretese.
Finalmente la scala in
salita, la luce; anche oggi, forse più d'allora, provo il timore di stare qui
sotto, sola, benché sia ora di punta. O è la paura d'esser rimasta orfana,
lungo il viale dell'approdo?
I gradini, il sole, il
vento che già s'è impadronito di marzo, la discesa fra due ali di platani e,
sulla sinistra, la stazione: direi che ben poco è mutato.
Dio, che impressione
pensare che i muri possono resistere più a lungo di me! Questo rigido blocco di
porfido sopravviverà al mio sonno. Qui tutto si è conservato, eccezion fatta
per la precaria tettoia là in fondo, deposito di biciclette e motorini. Hanno
spianato, ne ha tratto giovamento il panorama. Si vede sino alla foce del
viale, al di là del palazzo moderno, già edificato ai tempi di Marco. Con
questa visuale allungata avrei riconosciuto il pullman qualche attimo prima.
Il sasso si conserva,
assai meno il mio corpo. Se mi vedesse oggi...smorzato il panico della
maturità, non l'ho mai più incontrato. Eppure, dalle fonti che ho qua e là
rubato, abita sempre nello stesso paese, forse nella medesima casa.
Sono alla panchina. Mi
sedevo o l'attendevo in piedi? Come avrei fatto, mio dio, a star seduta? Il tempo l'avrei avuto perché m'appostavo qui
con almeno dieci minuti d'anticipo. Era, dal mio arrivo, un andirivieni da
sentinella: seduta, in piedi, uno sguardo alla via, un secondo all'orologio
(eccolo, tal quale, sopra di me), un terzo verso l'edicola, poi quattro passi
sino a scorgere le rotaie. Giungeva un attimo prima di lui il treno delle sette
e ventotto, intasato di studenti. Oggi sono più colorati, almeno
epidermicamente policromi. Non so dentro. Dico degli studenti, con i loro
zaini, i paille, le giacche a vento,
i maglioni. Si usava, ai tempi miei e di Marco, lo zainetto militare, ben poco
capiente; metà libri e i vocabolari trovavano alloggio sottobraccio, fasciati o
no con gli elastici. Lui reggeva in spalla uno zaino sdrucito. Ricordo ancora
le scritte, ad una ad una, e dov'erano collocate sullo sfondo grigioverde.
Ora mi siedo. Oggi
riesco a star ferma sulla panchina, interpreto in me l'agitazione, sedàta ma
vigile, del ricordo: di Marco e di quell'età. Solo gli occhi formicolano, come
allora formicolava il cuore. Guardo là in fondo, verso il palazzo di dodici
piani, verso un improbabile automezzo. Il pullman girava a sinistra, faceva le
carezze alle foglie degli ippocastani e si fermava dinanzi alla mia attesa. Mai
che fosse puntuale; ritardava sempre, ma non oltre i quattro minuti: del resto,
di più non sarei stata in grado di resistere. Sole eccezioni i giorni di neve e
di sciopero, giorni, per me, di lutto.
Camminavo e scrutavo,
con dentro...oggi, di quel benefico spasimo, è rimasta l'impronta. Forse sono
cattiva, ingiusta. Forse i ricordi conoscono l'arte dell'inganno: rubano aria
al presente e riconsegnano un passato poco veritiero, incredibile. Dire
impronta, o dire ombra di quel cuore in festa è troppo poco. Una differenza
c'è, e netta, ma ha più attinenze con la naturalezza, la spontaneità.
E chi se l'era andato a
cercare Marco? Dico Marco per affermare tutto ciò che, con lui, era filtrato
nel mio cuore ancora imperfetto (ammesso che, oggi, sia meno precario di
allora).
Ricordo un lento e
insieme violento penetrare di quel ragazzo dentro la mia voglia un po'
artefatta di studiare per imparare, per far carriera, per riscattare un
ruolo...Marco possedeva le chiavi, ha aperto il mio futuro, ha scombinato le
carte, ha mutato l'ordine dei valori, mi ha inconsciamente offerto sentimenti
ignoti. Quel ragazzo, il più bello, resiste, come è vero dio che m'ha
trascinata qui, sospinta dalle folate di marzo, nei luoghi dei nostri
quotidiani incontri.
Oggi è diverso. Non
dico più bello o meno bello: dico solo diverso.
I miei piedi sono incollati a questo asfalto che avranno rinnovato almeno dieci
volte. Allora consumavo le suole...dietro a lui.
Affermare che oggi non
ho attese, non ho speranze per il domani, non ho modeste eccitazioni sarebbe
ingratitudine verso la mia maturità di donna attempata. Sono sentimenti
necessari, vitali e per questo li ricerco: per necessità. Perché la vita si spegne e se non hai pronto
un nuovo lume, se il buio ti convince che comanda un solo padrone, sei condannata
alla resa. Scappare o corrergli incontro, mai aspettarla seduti, con il capo
che ciondola, senza scintille di luce, come s'attende un pullman sfogliando,
senza interesse, una rivista di moda. La mia maturità è l'arte d'accendere
piccoli lumi, e quando son tutti smorzati è il tempo di scendere quaggiù, alla
stazione. Ad attendere il pullman, ma con interesse, senza il profumo di morte
di quattro fogli di carta patinata.
Lui stava seduto
immancabilmente sul fondo, con gli amici; pareva lo facesse apposta, sapeva che
la nuvola bigia del fumo non mi consentiva di vederlo oltre il vetro. Questione
di pochi attimi ma a quell'età si è intransigenti, si hanno molte pretese, non
si ha pazienza. Si è tremendi. Si ha l'idea che qualcuno ci stia strappando la
vita, si sia impadronito di noi, della nostra totalità, e così ci si vendica
con l'arma della pretesa. Sono queste le gocce di dolore, che in me nascevano
insieme alle lacrime. Perché si piange a quell'età, molto, e per un niente. E
di seguito si scopre la gioia del riso. E se sono qui è perché ho voglia di
ridere, e insieme di piangere.
Ecco un pullman. Allora
era blu carta da zucchero, goffo, sporco, malcurato, con qualche traccia sin
troppo opprimente del dopoguerra. Questi nuovi sono azzurri, metallizzati, più
in linea, lucidati di fino. Per certo percorreranno la tratta in minor tempo
anche se il traffico è, ne complesso, più consistente di quei tempi là. Il
cartello, però, è sempre uguale, alloggiato sotto il volante: stessi caratteri,
medesimi paesi elencati.
Conviene che mi alzi,
che gli vada incontro, a tempo con questa irrisoria tachicardia, che pure ha
iniziato il suo canto profondo. Precisamente come sulle tracce di Marco:
procedevo a piccoli passi, veloce né più né meno come il mezzo intento a
frenare, a curvare, a guadagnarsi lo spazio del posteggio. Io mi facevo sotto,
così, sapendo che lui sarebbe disceso fra gli ultimi. Attendevo, salutavo i
molti visi noti, sorridevo a qualche battuta, tipo 'Arriva, Ha parlato di te,
Non ha studiato un c...'. Infine lui. Ogni mattina uno scoppio diverso,
un'emozione mai identica.
Ma quell'uomo...Stai
calma, avvicìnati...Impossibile! Tranquillìzzati, è di spalle, certo non hai
visto bene, hai travisato. L'altezza è la sua, ma il mio Marco era magro,
un'acciuga, anche troppo, tanto da farsene un complesso. Ma a vedergli i
capelli, dal dietro, sono grigi oggi, non ne ha perso uno...Che faccio? Devo
rubare il colore dei suoi occhi. Ma quell'uomo va di fretta, per raggiungerlo
dovrei mettermi a correre. E' il caso? Mio dio, che ci sono venuta a fare alla
stazione? Corro, sì, voglio correre. Che penserà la gente? E anche a correre,
lui somma passi da atleta. Ma che fa? Non prende il sottopassaggio? Evidentemente
no, preferisce attraversare alla luce. E se scendessi io? Guadagnerei giusto il
tempo...per svelare il mistero.
Ma a che serve
risolvere il caso? Stùpida, ragiona. Non vuoi ragionare, lo so, ma ti è necessario.
Io corro, lo voglio
vedere. Parlargli, sapere, raccontare ventitré anni di vita senza di lui. E' un
diritto dell'anima.
E dopo? E' stupendo
narrare, ma in fondo? Che resta?
Io corro.
Fai pure.
Io volo.
Sai che il cuore può
indossare le ali. Ma tu, che hai studiato al liceo, conosci le ali di Icaro.
Di quegli anni lui m'è
rimasto. I libri, come sai, li ho tutti venduti.
Che aspetti allora?
Vai. Non vedi che sta attraversando?
Lo vedo.
Dunque?
Lui non può essere.
Io invece te lo
confermo: è lui, è Marco Ferri, sesto in elenco. Ma che fai? Lo saluti?
Saluto.
Qua la mano. Fra
qualche giorno ci torni. La stazione, come vedi, è ancora al suo posto. Nulla è
mutato.