mercoledì 28 settembre 2011

La ricetta di Kouchner

Bernard Kouchner (foto da Google immagini), 71 anni, medico, nel 1971 dopo aver toccano con mano in Biafra la misera dell'uomo, fonda Medici senza Frontiere. Da allora (anche ad alto livello politico) non ha mai smesso di fare del bene al prossimo. Ieri ho letto sul Corriere della Sera una bella intervista. Dice in conclusione Bernard: "Faccio quel che posso, dove posso. La settimana scorsa ho posato la prima pietra di un ospedale per mamme e bambini a Conakry, in Guinea. Una volta che la si è provata, non si può rinunciare alla sensazione di essere utili."
Essere utili: una buona ricetta contro il mal d'autunno.

Il mal d'autunno

Oggi ho scoperto che esiste anche il mal d'autunno. Parola di scienziati. Ne soffrirebbero il 25% degli italiani, e le donne quattro volte in più degli uomini. Quindi 11 milioni di donne circa soffrirebbero di mal d'autunno, dovuto alla diminuzione della luce e del sole. Mal d'autunno, cioè ansia, tristezza e disturbi conseguenti. Non discuto, mi pare però che questo non sia un male stagionale, c'è sempre, cioè ogni periodo dell'anno può essere sfregiato dal male di vivere, e addirittura nella stessa giornata si può passare dal mal di vivere ad una vita che non fa male. Ci sono tante ricette e strategie per sfuggire al mal d'autunno. Io oggi suggerirei quella di Bernard Kouchner (vedi altro post).

IL RACCONTO DEL MERCOLEDI'

LA STAZIONE

Necessito dei ricordi come dell'acqua. O forse potrei farne a meno ma sono loro a chiamarmi, voci lontane e penetranti di mitiche sirene. Non posso affermare da convinta che vivo quel tanto che serve ad accumulare altri ricordi; esagererei, per quanto ogni eccesso contiene una scintilla di verità. I ricordi sono la mia vita, in parte la costituiscono, la rendono di volta in volta più piacevole o più melanconica. Non di rado, nel timore d'esser già vecchia, li scaccio in malomodo, o più educatamente li ripongo, li evito, perché ho anche tanto da fare, di interessante e di noioso, che nulla divide con quanto ho già vissuto.

Ma vi sono giornate che paiono votate alla memoria. Mi levo con una tale predisposizione alla nostalgia che il corpo si fa spugna, s'inzuppa di ciò che è stato e non è mai semplice, né indolore, convincerlo che i sogni sono amici incompleti, offrono un calore così fuggevole, una gioia così triste al risveglio, che non è un buon affare assecondarli sino alla delusione. Eppure queste giornate fanno parte della mia esistenza. Oggi, infatti, ci sono caduta dentro. Per questo sto camminando verso la stazione. Alla ricerca del profumo di Marco.

Ecco il sottopasso: scendo, fra poco il buio e le scritte. Allora, oltre vent'anni fa, ventitré per l'esattezza, erano assai meno questi fratelli neri, con le loro mercanzie, con le loro timide pretese.

Finalmente la scala in salita, la luce; anche oggi, forse più d'allora, provo il timore di stare qui sotto, sola, benché sia ora di punta. O è la paura d'esser rimasta orfana, lungo il viale dell'approdo?

I gradini, il sole, il vento che già s'è impadronito di marzo, la discesa fra due ali di platani e, sulla sinistra, la stazione: direi che ben poco è mutato.

Dio, che impressione pensare che i muri possono resistere più a lungo di me! Questo rigido blocco di porfido sopravviverà al mio sonno. Qui tutto si è conservato, eccezion fatta per la precaria tettoia là in fondo, deposito di biciclette e motorini. Hanno spianato, ne ha tratto giovamento il panorama. Si vede sino alla foce del viale, al di là del palazzo moderno, già edificato ai tempi di Marco. Con questa visuale allungata avrei riconosciuto il pullman qualche attimo prima.

Il sasso si conserva, assai meno il mio corpo. Se mi vedesse oggi...smorzato il panico della maturità, non l'ho mai più incontrato. Eppure, dalle fonti che ho qua e là rubato, abita sempre nello stesso paese, forse nella medesima casa.

Sono alla panchina. Mi sedevo o l'attendevo in piedi? Come avrei fatto, mio dio, a star seduta? Il tempo l'avrei avuto perché m'appostavo qui con almeno dieci minuti d'anticipo. Era, dal mio arrivo, un andirivieni da sentinella: seduta, in piedi, uno sguardo alla via, un secondo all'orologio (eccolo, tal quale, sopra di me), un terzo verso l'edicola, poi quattro passi sino a scorgere le rotaie. Giungeva un attimo prima di lui il treno delle sette e ventotto, intasato di studenti. Oggi sono più colorati, almeno epidermicamente policromi. Non so dentro. Dico degli studenti, con i loro zaini, i paille, le giacche a vento, i maglioni. Si usava, ai tempi miei e di Marco, lo zainetto militare, ben poco capiente; metà libri e i vocabolari trovavano alloggio sottobraccio, fasciati o no con gli elastici. Lui reggeva in spalla uno zaino sdrucito. Ricordo ancora le scritte, ad una ad una, e dov'erano collocate sullo sfondo grigioverde.

Ora mi siedo. Oggi riesco a star ferma sulla panchina, interpreto in me l'agitazione, sedàta ma vigile, del ricordo: di Marco e di quell'età. Solo gli occhi formicolano, come allora formicolava il cuore. Guardo là in fondo, verso il palazzo di dodici piani, verso un improbabile automezzo. Il pullman girava a sinistra, faceva le carezze alle foglie degli ippocastani e si fermava dinanzi alla mia attesa. Mai che fosse puntuale; ritardava sempre, ma non oltre i quattro minuti: del resto, di più non sarei stata in grado di resistere. Sole eccezioni i giorni di neve e di sciopero, giorni, per me, di lutto.

Camminavo e scrutavo, con dentro...oggi, di quel benefico spasimo, è rimasta l'impronta. Forse sono cattiva, ingiusta. Forse i ricordi conoscono l'arte dell'inganno: rubano aria al presente e riconsegnano un passato poco veritiero, incredibile. Dire impronta, o dire ombra di quel cuore in festa è troppo poco. Una differenza c'è, e netta, ma ha più attinenze con la naturalezza, la spontaneità.

E chi se l'era andato a cercare Marco? Dico Marco per affermare tutto ciò che, con lui, era filtrato nel mio cuore ancora imperfetto (ammesso che, oggi, sia meno precario di allora).

Ricordo un lento e insieme violento penetrare di quel ragazzo dentro la mia voglia un po' artefatta di studiare per imparare, per far carriera, per riscattare un ruolo...Marco possedeva le chiavi, ha aperto il mio futuro, ha scombinato le carte, ha mutato l'ordine dei valori, mi ha inconsciamente offerto sentimenti ignoti. Quel ragazzo, il più bello, resiste, come è vero dio che m'ha trascinata qui, sospinta dalle folate di marzo, nei luoghi dei nostri quotidiani incontri.

Oggi è diverso. Non dico più bello o meno bello: dico solo diverso. I miei piedi sono incollati a questo asfalto che avranno rinnovato almeno dieci volte. Allora consumavo le suole...dietro a lui.

Affermare che oggi non ho attese, non ho speranze per il domani, non ho modeste eccitazioni sarebbe ingratitudine verso la mia maturità di donna attempata. Sono sentimenti necessari, vitali e per questo li ricerco: per necessità. Perché la vita si spegne e se non hai pronto un nuovo lume, se il buio ti convince che comanda un solo padrone, sei condannata alla resa. Scappare o corrergli incontro, mai aspettarla seduti, con il capo che ciondola, senza scintille di luce, come s'attende un pullman sfogliando, senza interesse, una rivista di moda. La mia maturità è l'arte d'accendere piccoli lumi, e quando son tutti smorzati è il tempo di scendere quaggiù, alla stazione. Ad attendere il pullman, ma con interesse, senza il profumo di morte di quattro fogli di carta patinata.

Lui stava seduto immancabilmente sul fondo, con gli amici; pareva lo facesse apposta, sapeva che la nuvola bigia del fumo non mi consentiva di vederlo oltre il vetro. Questione di pochi attimi ma a quell'età si è intransigenti, si hanno molte pretese, non si ha pazienza. Si è tremendi. Si ha l'idea che qualcuno ci stia strappando la vita, si sia impadronito di noi, della nostra totalità, e così ci si vendica con l'arma della pretesa. Sono queste le gocce di dolore, che in me nascevano insieme alle lacrime. Perché si piange a quell'età, molto, e per un niente. E di seguito si scopre la gioia del riso. E se sono qui è perché ho voglia di ridere, e insieme di piangere.

Ecco un pullman. Allora era blu carta da zucchero, goffo, sporco, malcurato, con qualche traccia sin troppo opprimente del dopoguerra. Questi nuovi sono azzurri, metallizzati, più in linea, lucidati di fino. Per certo percorreranno la tratta in minor tempo anche se il traffico è, ne complesso, più consistente di quei tempi là. Il cartello, però, è sempre uguale, alloggiato sotto il volante: stessi caratteri, medesimi paesi elencati.

Conviene che mi alzi, che gli vada incontro, a tempo con questa irrisoria tachicardia, che pure ha iniziato il suo canto profondo. Precisamente come sulle tracce di Marco: procedevo a piccoli passi, veloce né più né meno come il mezzo intento a frenare, a curvare, a guadagnarsi lo spazio del posteggio. Io mi facevo sotto, così, sapendo che lui sarebbe disceso fra gli ultimi. Attendevo, salutavo i molti visi noti, sorridevo a qualche battuta, tipo 'Arriva, Ha parlato di te, Non ha studiato un c...'. Infine lui. Ogni mattina uno scoppio diverso, un'emozione mai identica.

Ma quell'uomo...Stai calma, avvicìnati...Impossibile! Tranquillìzzati, è di spalle, certo non hai visto bene, hai travisato. L'altezza è la sua, ma il mio Marco era magro, un'acciuga, anche troppo, tanto da farsene un complesso. Ma a vedergli i capelli, dal dietro, sono grigi oggi, non ne ha perso uno...Che faccio? Devo rubare il colore dei suoi occhi. Ma quell'uomo va di fretta, per raggiungerlo dovrei mettermi a correre. E' il caso? Mio dio, che ci sono venuta a fare alla stazione? Corro, sì, voglio correre. Che penserà la gente? E anche a correre, lui somma passi da atleta. Ma che fa? Non prende il sottopassaggio? Evidentemente no, preferisce attraversare alla luce. E se scendessi io? Guadagnerei giusto il tempo...per svelare il mistero.

Ma a che serve risolvere il caso? Stùpida, ragiona. Non vuoi ragionare, lo so, ma ti è necessario.

Io corro, lo voglio vedere. Parlargli, sapere, raccontare ventitré anni di vita senza di lui. E' un diritto dell'anima.

E dopo? E' stupendo narrare, ma in fondo? Che resta?

Io corro.

Fai pure.

Io volo.

Sai che il cuore può indossare le ali. Ma tu, che hai studiato al liceo, conosci le ali di Icaro.

Di quegli anni lui m'è rimasto. I libri, come sai, li ho tutti venduti.

Che aspetti allora? Vai. Non vedi che sta attraversando?

Lo vedo.

Dunque?

Lui non può essere.

Io invece te lo confermo: è lui, è Marco Ferri, sesto in elenco. Ma che fai? Lo saluti?

Saluto.

Qua la mano. Fra qualche giorno ci torni. La stazione, come vedi, è ancora al suo posto. Nulla è mutato.

Questo mio racconto è tratto dalla raccolta FAX D'AMORE (Macchione editore marzo 1998)