mercoledì 28 dicembre 2011

Il papà di Patrizia


Ieri la morte della signora Teresina, mamma della mia amica Carla, oggi è morto il papà della mia amica Patrizia (foto), che abbraccio. Per noi, amici da quarant'anni, è il tempo della morte dei genitori. C'è stato il tempo della nostra amicizia, agli inizi degli anni Settanta, il tempo degli amori, dei matrimoni, delle nascite dei nostri figli, dei battesimi, delle prime comunioni, intervallati (per fortuna raramente) da morti improvvise, di alcuni di noi o dei genitori in giovane età. Io porto ancora i segni della morte di mia madre, nel 1984, a soli 56 anni. Oggi è il tempo dei primi matrimoni dei nostri figli, dei primi nipoti, ma è purtroppo anche il tempo di salutare chi ci ha dato la vita. Non siamo mai pronti alla morte, non possiamo esserlo, noi che siamo fatti di vita, per la vita. La morte è la negazione della nostra essenza, non ci appartiene, è un assurdo, un non senso. Eppure dobbiamo digerirla. Accettarla, sopportarla, 'viverla' è il compito più ingrato, è un compito disumano. Per questo abbiamo bisogno di credere che non si muore mai, ci occorre un Dio che ci aiuti nel cammino più duro. Che ci prenda per mano. In braccio. Quel che sia, purché si possa superare la prova.

Dopo un abbraccio


Dopo un abbraccio fra due persone che si amano davvero, l'universo non arrossisce, tira piuttosto un profondo sospiro di sollievo.

IL RACCONTO DEL MERCOLEDI'


Adesso vai pure

Quel suo ultimo bacio scivolò sulla pelle della mia fronte e s’intrufolò fra i capelli. “Adesso vai” disse mio padre. “E’ primavera.”
Mi spinse in là, verso il prato. Le sue mani e il vento mi convinsero che quella era la via da seguire. Lo salutai: triste, certo, ma le gambe erano allegre, inquiete, con una gran voglia di correre, saltellare sopra quel prato di primule e viole, di margherite e tarassachi. Avrei preso per la coda le rondini, ma anche a raggiungere il cielo quelle tagliavano a fette le nuvole: troppo scaltre per me. Troppo veloci.
La primavera cantava e sapeva di glicine. Ma arrivò la città. Case basse all’inizio, di lamiera e di mattoni con poco cemento. Il prato ora era fango, un pollaio, galline spennacchiate, cani arrabbiati, forse solo affamati, e bambini come me, più sporchi di me. Più tristi. Eppure gentili, perché quando mi bagnai calze e scarpe, finendo in una pozzanghera, mi consolarono e mi offrirono calze e scarpe, bucate e asciutte.
A loro chiesi la via. Risposero: “Sempre diritto. Non li vedi i palazzi, là in fondo? Non lo vedi che si mangiano tutto il panorama?”
Così la mia primavera annegò nel traffico e nell’asfalto, alberi feriti dalle lamiere delle auto, intossicati da piccoli camini di ferro.
Fu un vecchietto, sdentato e secco come un chiodo, aggrappato ad un bastone come un naufrago a una cassa di legno, a regalarmi la sua confidenza: “Se vuoi l’estate, ragazzo, corri oltre i muri e i semafori. Se no non la riconosci. Neppure la vedi. Non ritrovi il suo profumo di fior di sambuco. Qui il grigio ti confonde le idee.”
Venne la mia estate dopo l’ultimo ponte, quando osservai che il fiume torbido mutava colore, sgattaiolando fra i tronchi di un bosco di pioppi. Insieme alle nuvole, galleggiava nell’aria profumo di tiglio.
Lì la incontrai: bella come le lucciole che, insieme, cantando e ridendo e facendo moine, inseguimmo per tutta la notte. Ci riposammo, vicini vicini, tanto che all’alba non eravamo più solo noi due.
Salì il sole da oriente, già caldo. Gustammo di nuovo un frutto maturo, nuotammo nel lago, lasciammo che il sole bevesse sino all’ultimo le gocce addormentate sulla nostra pelle, persino quella che s’era nascosta, furba, nell’antro dell’ombelico. Solo allora prendemmo, in tre, la via verso l’autunno.
Io stavo nel mezzo, volevo sentire tutte le mani, quella sottile, unghie lunghe e curate, la bella mano di tua madre, e la tua, piccina, già pronta alla fuga ma subito ancorata a me, per paura.
Ma arrivò il giorno della mia prova, quando ogni padre rimpiange di essere padre. Quando tu, per seguire un animale del bosco, o forse ancor più per correre dietro alla tua voglia curiosa, ti perdesti fra i tronchi e le felci. Tu gridavi ‘Papà’, io urlavo il tuo nome ma eravamo troppo distanti e troppo impauriti. Fu tua madre a trovarti, quando la notte della prova s’era svegliata dentro un mattino senza luce. E arrivò la tua luce: dormivi su un prato, stanco e con gli occhi gonfi di incubi.
L’autunno dei monti ci insegnò nuovi colori, tutti i colori possibili. Ci coprimmo al primo freddo, ci stringemmo per riparo dal vento, mangiammo funghi e castagne e uva selvatica, aspra e dissetante. Solo allora, nel veloce tramonto d’autunno, ti confidai il segreto, capace di farti accettare l’inverno, il buio e la nostra partenza. Il segreto di una vita che non muore. La speranza di una morte che non vince.
Come si conviene, si staccò dal soffitto del cielo la prima neve. Fiocchi larghi e lenti e pesanti, poi minuti e veloci, soffiati da un vento sputato da una gola cattiva. Un urlo, contro di noi.
Gridava arrabbiata la tempesta mentre, con passi sofferti, a tastoni cercavamo un rifugio, assi di legno incastrati a casetta. Lo trovammo e fu una grande fortuna, perché la pesante coperta della notte ci avrebbe soffocati. Così passammo l’inverno: un po’ di polenta, patate e formaggio di capra, del vino. Per l’acqua ci bastava sciogliere al fuoco la neve.
Crescevi e volevi sapere. Protestavi e volevi scappare, ma era freddo oltre i vetri.
Lentamente la terra si bevve la neve e la trasformò in prato, erba verde smeraldo e primule e viole, dopo i bucaneve. Non attendemmo le rondini. Volevi partire, raspavi il terreno come un toro nervoso, eravamo il doppio di te, un padre e una madre, ma non ti bastavamo già più. Eppure quando il mio ultimo bacio scivolò sulla pelle della tua fronte e s’intrufolò fra i tuoi capelli, ti fermasti. Abbracciasti tua madre e poi mi guardasti, in attesa della mia ultima voce.
“Adesso vai pure” ti dissi, “perché è primavera.”


Con questo racconto per bambini-ragazzi ho partecipato al concorso letterario Pontemagico 2008, non arrivando nemmeno nei primi dieci (non dico primo), ma non mi sono certo arrabbiato. Anzi, dirò di più, forse parteciperò ancora, al Pontemagico 2012. Continuo a ritenere che sia un racconto discreto.

Semplicemente uomo


Dovrebbe essere la scelta di vita più naturale, e invece pare essere irraggiungibile: perché a fatica ci accontentiamo di essere semplicemente uomini. I banali gesti di umanità ci appaiono ovvi, quindi poco desiderabili, quindi evitabili. E' questo il principio della durezza di cuore, che regola il pulsare stentato del mondo.