lunedì 5 novembre 2012

Quel giorno che tremò la notte 20



VENTI

“Silenzio, diobono, fate silenzio” gridò quello che stava sul tetto crollato.
“Che c’è?”
L’uomo sul tetto si piegò sui detriti, avvicinò l’orecchio alle tegole spezzate. “Forse…un lamento…via di sotto…via di sotto…” e si mise in piedi. Riprese a buttare da sopra, giù nel cortile, i pezzi di tetto che riusciva a spostare da solo.
“Che hai detto, Peppo….sentito qualcosa?”
“Sì, sì” diceva Peppo, che si muoveva rapido. Si fermò. Si passò la fronte con il dorso della mano, si mise in ginocchio.
Don Marco pensò che stesse pregando.
Peppo piangeva. “Non ce la si fa…ci vogliono i mezzi…briciole, sposto solo le briciole, madonna santa.”
“Vengo su anch’io” disse Giorgio, ma fu trattenuto per il braccio da una donna. “E’ pericoloso. Se crolla?” Giorgio si fermò.
Don Marco si diresse verso la porta.
“Che fa, reverendo, stia qui, non entri…” disse la donna che aveva bloccato Giorgio. Si era presentata come un’amica della padrona di casa, che ricordava ancora quando il piccolo Romano veniva dai nonni, succhiava l’erbacucca, dava il fieno ai conigli e il pastone al maiale.
Don Marco nemmeno la sentì. L’uscio di casa era semiaperto, lo aprì del tutto, venne investito da polvere, terra, buio e gelo. Uscì, andò all’auto, prese la torcia elettrica e tornò dentro, mentre Giorgio si stava arrampicando sulla lunga scala, con l’intenzione di raggiungere Peppo in cima alle macerie.
Puntò la luce alla sua sinistra, aprì la porta, adagio. Aveva paura. Pensava e pregava. Aveva freddo. Stava attraversando spazi di realtà simile al sogno, ogni tanto pensava a Roma e alla promozione. E se avesse proseguito dritto anziché svoltare per il paese? Non poteva neppure chiamare per giustificare il ritardo, l’assenza. Si vergognava di quel pensiero, pregava. Girò col fascio tondo sulle pareti, sui mobili di quel locale, che mostrava pochi segni del terremoto: qualche crepa, quadri fuori asse, calcinacci a terra, odore di umido, di muffa, di sporco. Uscì e puntò la luce in avanti, verso quelle che dovevano essere ripide scale. Il materiale della parte superiore della casa di campagna s’era accatastato soprattutto sulla destra, a sinistra si riusciva a passare strisciando contro la parete, superando piccoli ostacoli. Buttò la luce in cima, ebbe l’impressione che l’ingresso ai locali superiori fosse del tutto ostruito.
Sull’uscio s’affacciò la donna di prima: “Reverendo, stia attento…Vede qualcosa?”
Don Marco stava per dire che si vedeva poco ma che forse ce l’avrebbe fatta ad arrivare in cima quando venne da fuori a dentro come un rantolo della terra, le scale ebbero un fremito, il prete si voltò e corse fuori. Era stata una scelta d’istinto, non ci aveva pensato, l’azione aveva preceduto la riflessione.
La scossa d’assestamento fece inclinare la scala esterna, che andò a finire sopra l’auto dei giovani. Giorgio e Peppo si fermarono, impietriti, in ascolto di quel lamento, soffiato dal centro della terra. Non più di una decina di secondi, infiniti, che non provocarono altri crolli all’edificio, ma lesioni nella speranza della gente.
Don Marco si vergognò per quella sua fuga da pavido. Si ricordò di un episodio di gioventù. Erano partiti per le vacanze, la loro auto s’era bloccata in autostrada, brillava la spia rossa, c’erano problemi al radiatore. Suo padre aveva aperto il cofano del motore, lui era sceso per primo e per mostrarsi adulto aveva preso uno straccio e iniziato a svitare il tappo. Una folata di vapore bollente l’aveva sfiorato in viso e s’era messo a correre urlando come avesse le fiamme nei capelli.
“Non entri, per carità” disse la donna. “Lasci fare a quelli lassù.”
“Non si preoccupi, sto attento. Bisogna fare presto” disse don Marco e varcò di nuovo la soglia.
   

                                                                                             20 - continua

Quel giorno che tremò la notte 19



DICIANNOVE

Romano si svegliò. Ma era una condizione di vita confusa: sogno, incubo, realtà. Pianse di terrore. Fregò il mento con rabbia, per ammazzarsi. Avrebbe dovuto aspettare la morte. Perché non era ancora morto? La vita non poteva sopportare quel suo martirio. Una condanna atroce. Avrebbe voluto solo dormire.
Ebbe un fremito, brividi incontrollati, tremori. Tossì. Sentì un dolore acutissimo alla schiena, al petto. Sputò qualcosa. Ebbe l’impressione di aver liberato spazio per l’aria, per le parole, una via di fuga per la sua disperazione.
Forse sarebbe riuscito ad urlare. Disse un “Aaaaaaa…” prolungato. Cercò di urlare Roberta Roberta e poi aiuto aiuto aiuto.
Il ronzio alle orecchie era diminuito. Percepiva qualcosa della sua voce. Prese coraggio. La voglia di vivere moderò la forza distruttiva dell’ansia.
Fece silenzio. Sentì qualcosa. Per un attimo pensò a Roberta, alla sua voce. Intuì che erano lontani rumori di pietre rimosse. C’era qualcuno sopra di loro. Non erano soli.
“Aiuto aiuto aiuto” e ogni parola gli costava uno sforzo tremendo.
Ora non sentiva più nulla. S’era illuso. Il rumore che gli martellava i timpani lo aveva ingannato.
Il panico lo aggredì di nuovo con una violenza che non gli lasciò scampo.   

                                                                                          19 - continua