mercoledì 12 dicembre 2012

Vicolo Canonichetta 17



Diciassette

All’orologio del campanile del Bernascone, settanta metri di pietre lanciate verso il cielo, suonavano le quindici e tre quarti. Ma Giulio non sentì i rintocchi. A quell’ora s’accorse che l’auto di Matilde non era parcheggiata davanti a casa. L’appartamento era vuoto. La chiamò al cellulare, che suonò libero, a lungo, poi la comunicazione fu interrotta. Riprovò, e ugualmente giungeva il segnale di libero e poi la conferma che sua moglie non voleva parlargli.
Chiamò la segreteria del liceo. Nessuno rispose. Il liceo era chiuso.
Si sentì perso.
Girava da un locale all’altro come una furia. Guardò anche nel suo cassetto, dentro la scatola dei condom: il biglietto non c’era più. Quel foglietto con scritto: “Ti aspetto alle diciotto, bar Leoni. Ti amo. Lucia” era sparito. Matilde aveva scoperto il tradimento.
E allora pensò subito all’avvocato, perché al Caravati sua moglie faceva spesso riferimento come ad un approdo inevitabile; era una minaccia incombente.
Si tranquillizzò. Chiamò la segretaria del Caravati, controllando il tono della voce.
La donna al telefono, prima gentile, poi meno disponibile al dialogo, gli aveva fatto capire che non era tenuta a render pubblici gli orari di appuntamento.
“Sono suo marito.”
“Non basta, mi spiace.” Ma dopo altre domande e risposte, aveva confermato: “L’avvocato ha un appuntamento alle sedici.”
Giulio le era andato incontro.
***    
In quel momento, suonavano le quindici e quarantacinque. Matilde sentì molto bene il rimbombo dei bronzi. Dopo essersi fermata a guardarsi nei cristalli delle vetrine e ad osservare la merce esposta, in quel momento, l’attimo dello scampanio, transitava a non più di duecento metri dalla base imponente del campanile della basilica della sua città. Quel campanile era uno dei simboli di Varese, un borgo ideale per viverci, con velleità turistiche che a fatica potevano però trovare riscontri nelle preziosità dell’arte. Il campanile e la vicina basilica restavano fra i monumenti più ragguardevoli, insieme ad un Palazzo ducale, a giardini pubblici e privati curati con gusto e rispetto. In periferia, poi, la sacra montagna, altre cime prealpine, i laghi, ma anche tanto traffico, pochi parcheggi e un eccessivo risveglio edilizio.
Non avrebbe comunque cambiato città. Era nata lì, i suoi genitori erano nati, vissuti e morti lì.
In piazza Giovine Italia scambiò due parole con una conoscente. Gli ultimi minuti prima delle sedici pensò di farli correre in là con una visita in basilica.
Non era sua abitudine. Non aveva ereditato la devozione da sua madre che entrava in chiesa tutti i giorni, percorreva metà della navata centrale con tre segni di croce, poi svoltava a destra, verso l’altare laterale con la statua della Madonna addolorata, ornata di stelle sopra il capo. Davanti alla Santa Vergine, in lacrime per la morte del Figlio, si inginocchiava, pregava e piangeva. Dopo la morte del marito poteva capitare che si recasse in basilica anche due volte nella stessa giornata.
Matilde intinse la punta delle dita nell’acquasantiera, l’acqua benedetta era fredda, si segnò, recitò un pateravegloria e si diresse verso la cappella dell’Addolorata. Si sforzò di pregare alla Madre, ma fu distratta dalle candele di plastica: le piccole luci artificiali tremavano, ma non erano fiammelle mosse dall’aria. Erano un altro inganno. Nell’uscire fu attratta da un quadro: ‘La Carità’ del Bianchi, opera seicentesca. La carità era una donna formosa, che allattava un neonato obeso. I seni erano scoperti ma la tela manteneva uno straordinario equilibrio di tinte e di forme, senza volgarità. Invidiò l’autore e anche quei seni di donna. 
Disegnò un altro segno di croce e fu di nuovo all’aperto. Si ricordò della rivista da comprare; calcolò che aveva il tempo di andare, a passo sveglio, all’edicola in fondo a via Como
***  
Alle quindici e quarantacinque in quel giovedì pomeriggio, Altin aveva da poco spento la moto. L’aveva lasciata dalle parti di via Speri della Chiesa Jemoli. I varesini avevano dedicato al loro massimo poeta dialettale una viuzza del centro città, con pochi negozi e troppe auto. S’era incamminato, Altin, di fianco a Sofia.
La ragazza era delusa, ma aveva bisogno di lui. Il pensiero che quella delusione potesse risvegliarla dal sogno di un amore speciale la infastidiva. Ci aveva provato perché tutti i ragazzi ci provano. 
Il silenzio prolungato fra i due resisteva. Le scuse di lui non arrivavano. Arrivò invece un “Dove mi porti?” che alle orecchie di Sofia parve una presa in giro. Aveva già dimenticato tutto? S’era già protetto dietro uno scudo di allegria? Ma forse aveva ragione lui. Ci aveva solo provato. Intanto pensava e stava zitta.
“Ho detto a te…” e poi si mise a fare il cretino, rendendosi ridicolo con frasi stupide.
“Finiscila!”
Altin tacque. Aveva sbagliato ancora. Proprio non la capiva. Era troppo complicata. Arrivò allora altro silenzio e quindi la mano di Sofia, che cercò quella di Altin.
“Camminiamo un po’” disse la ragazza.
Non presero per corso Matteotti. Da via Veratti svoltarono in via Broggi. Guardandosi i piedi, Sofia vide il modificarsi del selciato: la piazza Carducci era a piccole mattonelle di porfido rossastro. Scelsero poi di entrare in via San Martino, una delle più eleganti della città: negozi, boutique e un pavimento di lastroni grigi, separati al centro da un fondo di pietre tonde, simili a quelle della rizzàda del Sacro Monte.
Per strada girovagavano molti ragazzi, allegri come ogni ragazzo quando muore maggio e la scuola si prepara per le ferie. A meno che non s’avvicini il tempo degli esami. Come per Sofia.
***  
Oreste detto Bingo prese al volo l’autobus. Era partito in orario: quindici e quarantacinque. Sarebbe arrivato nel centro di Varese mezz’ora dopo.
Bingo aveva diciannove anni, frequentava la terza c al liceo ‘Cairoli’. Era compagno di classe di Sofia. Ma Sofia, per lui, era stata molto più di una vicina di banco. Erano andati insieme due anni e tre mesi. Era, Sofia, il suo vanto con gli amici, ma prima ancora era la sua ragazza. E anche dopo che l’aveva mollato, e poi s’era messa con Altin, restava la sua tipa. Benché lei l’avesse mandato al diavolo, prima con garbo, poi con villania. Una ragazza che non accettava padroni, fossero fighetti o truzzi di periferia.
Bingo s’era messo in mente di parlarle. Una volta ancora. E se ci fosse stato Altin, se li avesse trovati insieme in centro, allora aveva in mente altro. Così era andato in soffitta e aveva preso un paio di oggetti che erano appartenuti a suo padre, quando suo padre frequentava il suo stesso liceo, agli inizi degli anni Settanta. Uno zainetto militare, di forma quadrata, quaranta per quaranta, con lunga cinghia per reggerlo sulla spalla, e una pistola ad aria compressa, una Oklahoma dalla canna lunga. Ogni tanto la chiedeva in prestito al padre (‘Prendi, ma non uscire di casa con quella!’), ci metteva dentro piccoli proiettili in gomma e si divertiva a sparare a bersagli fissi. Ma ci provava anche con qualche passero, infastidiva i gatti e minacciava sua sorella.
Se avesse incrociato Altin, l’idea era di farlo crepare di paura. Un albanese altro non meritava. E un albanese non poteva permettersi di fregargli la ragazza, anche se aveva due anni in più e spalle da culturista. Con lui ci sarebbero stati due amici. L’appuntamento era fissato per le sedici e trenta, sotto il campanile. Li avrebbero cercati.

                                                                                                        17-continua