lunedì 7 gennaio 2013

Cicale al carbonio 22

                                                     tornante verso il passo del Cuvignone


                                       ventidue    


Marco uscì finalmente in bicicletta, per un giro di sessanta chilometri almeno, che moriva aprile dentro una giornata con nuvole di carta velina. Erano passati undici mesi dal Giro d’Italia dello scandalo. Gli restava un anno di squalifica. A Beatrice aveva confessato tutto.
Erano tornati qualche giorno dagli amici di Laveno Mombello, sulle strade della corsa rosa.
Marco voleva starsene solo, lui, la bici, l’asfalto e quelle gambe che, dopo mesi di astinenza, s’erano fatte smilze, deboli e abbruttite da lunghi peli neri.
Appena lasciata Laveno, superato il sobbalzo del passaggio a livello, sentì trasformarsi in nausea la sua debole voglia di tornare in sella. Nausea dei pedali, disamore per quello sport. Ma non era più questione di professione. Doveva rimontare in sella alla vita. Tante altre volte era uscito in bicicletta e tornato indietro; quella mattina col culo sul sellino ci rimase e volle proseguire. Affrontava un debole falsopiano e gli pareva duro come il Mortirolo, peggio di quel Cuvignone che s’era messo in testa di scalare. La stessa salita inserita, e per due volte, nella penultima tappa del Giro della vergogna. Quella salita lunga dieci chilometri era la sofferenza quotidiana di Alfredo Binda, campione immortale di Cittiglio, ricordato a Vararo con un museo, sulla porta del quale avevano appeso una targa con incisa la poesia in vernacolo di Santino Broggini, poeta di Arcumeggia:

Vàrda i sò man e vàrda giò, i garùn,
pö vàlza 'l cò, al ciel sùra Varàar;
cròdan i gòtt, scarlìgan par la frunt
e brüsa 'l cöör, rabiùus sü la salìda.

"Alfred, in gamba" e batt i man ul vecc.
"T'è vist ‘ma'l bòfa ul Binda. Pòar patàn."
Làssa i cà da Varàar, pö tàca 'l bosch,
ga n'è da pedalà p’al Cüvignùun.

Cerca n'òmm la sò vall, in mezz ai frasch;
spera n'òmm la sò cima, e tanta voja
da mett giò ‘l pè, finìla lì la storia.

Spùngian i cramp, sciòpan i garùn,
fadìga dì par dì ‘nà al Cüvignùun
par turnà giò ‘n dul vènt, cuntènt me'n spùus.

Marco non aveva studiato le avventure incredibili e vincenti del Binda, né capiva il dialetto bosino; ora, arrivato a Cittiglio, si trattava di trovare il coraggio della svolta a sinistra. Ci provò.
Moriva aprile e lui voleva risorgere. Il sole non dava fastidio, sapeva che avrebbe incontrato anche ombra e frescura. Subito in piedi l’asfalto, un budello fra belle ville e il profumo delle prime cascate di glicine. Mise il ventisei quando in gara aveva spinto un sedici. Ora il giro di pedale era più sciolto. Un tratto di pendenza più dolce quindi, lasciate le abitazioni, ecco di nuovo il ripido. Non lo desiderava, ma il ricordo della tappa e della doppia salita, mese di maggio di un anno prima, tornava impietoso. Era salito in quel tratto con un diciotto, galleggiava nel cuore del gruppetto di testa, credeva di poter controllare tutto, scrutava il Togni come un cane da punta. Due cosce sode che avevano trascinato corpo e bici dal nord al sud dell’Italia, valicato le Alpi, spinto nelle crono come un motore da cinquanta all’ora.
Cercò di distrarsi guardando il panorama. Ora poteva permetterselo. In valle s’allontanava Cittiglio e si vedeva Gemonio, con i suoi colli feriti dagli scavi di un cementificio. La vallata si inselvatichiva, ombra e il lontano rumore del torrente San Giulio. A sinistra il Sasso del Ferro nel suo versante meno nobile; l’altro, a occidente, degradava su Laveno e regalava panorami sul Verbano. I boschi erano malcurati, soprattutto robinie soffocate dall’edera, rari faggi, qualche castagno. Arrivò il breve tratto in piano e poi altra pendenza, con il San Giulio a lambire la strada, anche pini e la casetta con il cartello: ‘Mulino della Valle-Amici dei funghi-Cittiglio’.
Nuova salita e più cielo sopra la fronte sudata. Ad un tornante che virava a mancina vide una cappelletta, con la scritta A.V.I.S. Cittiglio: una bella Madonna con Bambino. Non l’aveva notata durante la tappa del Giro, coperta dai tifosi, dalla sua fatica vorace, dall’odore dei freni e delle frizioni delle ammiraglie, dal gas delle auto e delle moto, dalle bandiere e dalle urla. Ancora un chilometro, svolta sulla destra e s’aprì il pianoro di Vararo. Varè in dialetto, poche case annunciate dai campanacci delle mucche. Nemmeno quel grande prato aveva visto un anno prima, erba nuova e il giallo dei tarassachi, la cima del Sasso del Ferro, un alpeggio a pochi chilometri dal centro di Varese.
Prese fiato ma non era stanco. Sentì in bocca il buono della bici che aveva gustato da ragazzino ma perso in fretta, nell’impasto di sale e amaro della troppa fatica: a tutta sempre, anche in allenamento, anche nelle categorie giovanili.
Dopo la piana di Vararo prese di nuovo il bosco, ora più curato: grossi faggi, una pineta, un sottobosco ottimo per funghi e la mulattiera, che indicava la via dei Pizzoni di Laveno. Il passo del Cuvignone lo si vedeva, tre chilometri verso oriente, e anche la via che tagliava la vegetazione, poco sotto il profilo delle Prealpi. In basso la Valcuvia, davanti un falsopiano, ai lati felci e noccioli, piante di basso fusto e sporcizia lasciata dalla gente.
Marco saliva e la fatica si spegneva, lasciandogli nelle gambe e nella pancia una bella sensazione. Alzò lo sguardo verso la fine della scalata; più a destra, fra il Cuvignone e la cima del Monte Nudo, galleggiavano nel cielo tre parapendii. Uomini appesi a una tela colorata sfidavano il vuoto e la loro paura. Li seguì nel loro volo lieve, curando con la coda dell’occhio di non finire nella scarpata, dentro buche o contro i sassi lasciati in strada dall’inverno. Si sentì leggero e felice. Provò desiderio di un panino al salame.         

***  

Beatrice quella stessa mattina prese l’auto e andò a Cugliate Fabiasco. Lui non c’era, nonostante si fossero dati appuntamento alla villa. Aveva già deciso, ma avrebbe preferito dirglielo, guardando per l’ultima volta i suoi occhi. Attese cinque minuti, poi tornò verso Laveno. Alla rotonda di Ghirla lo vide in moto, velocissimo, affrontare la curva come fosse stato in gara. Cercava di recuperare il ritardo. Sarebbero arrivati messaggi e telefonate che s’era imposta di ignorare. Se ne sentiva capace. Marco non sapeva niente della loro storia.


                                                                                    22-continua








                                     

                                  










                           

Cicale al carbonio 21



                                       ventuno


Quella notte fra la domenica e il lunedì Marco se l’era immaginata nelle ore più dure, nelle vittorie più esaltanti: conforto o conferma, a seconda. L’amore con Beatrice se l’era gustato nelle salite e nelle discese, quando non aveva più voglia di parlare, di soffrire, di pensare a qualcosa che non fosse il sesso con lei.
E la notte fra la domenica e il lunedì era arrivata. Eccola.
Marco stava seduto nel letto, la schiena appoggiata al cuscino, messo in verticale. Beatrice gli stava al suo fianco, con il cuscino orizzontale, seduta ma un poco più sdraiata.
Stavano seduti nel letto, ancora in silenzio. La mezzanotte era suonata da tempo.
“Allora?” Beatrice, con quella domanda, non aveva pretese. Era una supplica, affinché scavasse un buco nel muro del silenzio. Dal quel silenzio bisognava scappare fuori.
Marco era una statua. Respirava con affanno.
Beatrice si girò alla sua destra, lo guardò, teneva la testa bassa, le mani giunte a preghiera intorno al naso. Ogni tanto si grattava la testa, scendeva con le mani conserte, tornava con le mani sul naso. Tremava. Confermava, nel silenzio continuo, i suoi sospetti.
“Perché non me l’hai detto?”
Marco si schiacciò gli occhi dentro le orbite. Spostò i capelli dietro le orecchie.
“Perché? Tu mi dici tutto?”
Era una domanda urlata.

*** 

Beatrice era stata in bagno una decina di minuti. Tempo che era servito a Marco per pensare se dirle la verità.
La linea era di negare. Anche l’ipotesi di uno scambio di provette, di un sabotaggio sul suo sangue, di un errore dei medici. Ci sarebbero state nell’immediato le controanalisi. Lui aveva già nominato il suo perito. Non sputtanarsi con nessuno.
Nemmeno con lei? Intuiva che dare a Beatrice la sua verità e il suo tormento lo avrebbe liberato da un incubo, che non riusciva a ributtare indietro con la menzogna. Almeno a lei. La sua sola isola, in quel mare.
Beatrice tornò e si distese sul letto, pesante di bugie. Non riusciva a dormire. Non voleva dormire. E Marco ancora al suo fianco. Non s’era mosso, si torturava i capelli, il mento, mandava di tanto in tanto piccoli colpi di tosse, come per schiarirsi la voce, prima di parlare. Tosse nervosa, che non diceva nulla.
Beatrice guardò la sveglia. La una e dieci. Si girò sul fianco, non lo voleva vedere. Perché l’aveva messa in crisi due volte: l’epo e quel sospetto di un tradimento.
“Mi puoi abbracciare?”
Beatrice cambiò fianco, ora lo vedeva. Si mise seduta. Abbracciandolo sentì che era sudato, la fronte bagnata, i capelli umidi.
Marco cominciò a singhiozzare. La stringeva, nascondeva le lacrime sul suo collo, le baciava i capelli, si nascondeva sulla sua spalla.
Piangeva e stava bene.
“Perdonami.”
Beatrice sentì, come una pugnalata, che non poteva meritarsi nessun perdono.


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