mercoledì 14 novembre 2012

Quel giorno che tremò la notte 29



VENTINOVE

Scrosciava dal cielo d’Abruzzo una pioggia senza pietà. Fredda, sputata sulle cose e sugli uomini da un vento che pareva soffiato da un demonio incazzoso. Don Marco faticava a vedere la via, teneva i tergicristalli alla velocità massima, la ventola sul quattro, l’aria calda ma i vetri dell’auto si spannavano a fatica, doveva usare un panno per farsi strada, per vedere in quelle raffiche d’aprile. Una primavera bastarda.
Arrivò alla tendopoli, un distesa di case finte color cielo sereno. Posteggiò nel fango. Non c’era che fango in quella spianata di anime prostrate. Senza scendere dall’auto si infilò gli stivali di gomma, a fatica; nonostante mangiasse poco e male da giorni quel suo ventre obeso non perdeva centimetri di circonferenza. Si sentiva gonfio. Prese l’ombrello e scese nella pioggia e nel gelo.
Era il minimo che potesse fare: celebrare la Messa per gli aquilani costretti alla tenda in attesa della new town, della cittadina prefabbricata che era stata loro promessa dagli uomini delle istituzioni. Il minimo, ma prima del terremoto gli sarebbe parso un gran sacrificio.
L’acqua del cielo aveva chiuso gli aquilani nelle case di tela impermeabile. I segni di vita erano i rumori che filtravano all’esterno: parole, pianti di bimbi, televisori accesi, musica. Il pianto degli adulti era silenzioso, non usciva all’esterno, era un dolore compresso, una matassa di rabbia e paura che opprimeva la bocca dello stomaco. La pioggia mitragliava le tende, annegava nelle pozzanghere, regalava nutrimento alla natura e nuove ragioni di lamento per la gente del terremoto. Cominciava a dar fastidio davvero, a inumidire i vestiti e le coperte, a filtrare all’interno di quei locali provvisori, rendendo la sopravvivenza uno strazio.
Vide un pallone uscire veloce da una tenda, seguito dai rimproveri di una madre e dalla corsa di un ragazzetto di una decina d’anni, con piccoli stivali verde semaforo che rincorreva la sfera a scacchi. “Basta! Basta col calcio!” urlava la donna. Don Marco si chiese se era stata lei a calciare fuori il pallone, esasperata, oppure il bambino, con un tiro più potente del consentito. Osservò la corsa traballante del ragazzo, che non si curava di scansare le pozze, pareva entrarci di proposito, con passi che facevano schizzare l’acqua provocando alti spruzzi. La palla si era fermata contro la tende di fronte. Il ragazzetto la prese con le mani e anziché tornarsene dentro per la via più breve, immaginò un rientro più lungo, per sfogarsi, per correre un po’. Passò vicino al sacerdote e don Marco si lasciò vincere da un verbo che gli uscì senza pudore: “Passa!” disse. Il bimbo si fermò, riconobbe il prete che diceva Messa, superò la sorpresa e gli fece arrivare fra i piedi la sfera. Stop di piatto, passaggio di ritorno, e nel tempo di quei due movimenti calcistici rivide le sue partite giovanili, la scelta sacerdotale, la fatica di quella rinuncia, e insieme riassaporò il sapore del gol, della doccia dopo una vittoria sudata, le bevute alla fontanella in fondo al campo, per soddisfare la violenta sete dell’estate. ‘Di sicuro ora sarei più magro’ pensò. 
Il piccolo immaginò di scartare chissà quale difensore e tirò contro un palo della luce, la palla rimbalzò (l’aveva centrato) rotolò e finì a mollo in una delle pozze più profonde della tendopoli. La madre si affacciò da quell’uscio di plastica: “Marco, dove sei andato? Non mi fare uscire, altrimenti…” Si chiamava come lui. Lo ammirò nella sua resa all’obbedienza di figlio: raccolse la palla, la fece volteggiare in aria, la abbracciò come un portiere dalla presa sicura. Rientrò nella tenda.
La donna vide il prete. “Don Marco, vuole un caffè?”
Solo un mese prima avrebbe risposto ‘La ringrazio, come l’avessi preso, vado di corsa’ e invece disse di sì, volentieri, avrebbe fatto in tempo per la celebrazione.
Entrò. Di fronte al televisore un uomo, un adolescente e il piccolo Marco, che si stava togliendo gli stivaletti. Dalla tele usciva una canzone, che ripeteva ‘Domani, domani….’
“Ci hanno regalato pure una canzone” disse l’uomo, che s’era alzato e aveva stretto la mano al don. “Fanno presto quelli, si ritrovano e si fanno una bella cantata…all’asciutto. E col portafoglio gonfio.”
La donna sbuffò.
“E vorrei proprio sapere che fine faranno i soldi del cidì, chi se li imboscherà” continuò l’uomo, insofferente
“Fanno quello che possono anche loro” disse la donna, con la moka del caffè in mano.
“Già” disse il don, che intanto si guardava intorno. Aveva visitato altre tende, non quella, ma vista una era come averle conosciute tutte. La pioggia aveva però costretto a nuovi arredi: catini e secchi per contenere le gocce che filtravano, scivolavano, rimbalzavano sui poveri beni di quelle famiglie accampate.
“Fa freddo” disse don Marco.
“Quando le fa storte, Dio ci va giù pesante” disse l’uomo, incenerito dallo sguardo della moglie. Ma lui fissava don Marco, quella frase era per l’uomo di Dio, da lui si aspettava una replica decente.
“Se conoscessi i pensieri di Dio” rispose don Marco.
“Se non li capisce lei” disse il padrone di casa.
“E finiscila” disse la donna. “Ho invitato don Marco per il caffè, non per il tuo processo.”
Il prete si sentì a disagio, cambiò discorso, prese a pretesto la canzone che non aveva lasciato lo schermo. “Mi diceva di questa canzone…di che si tratta?”
“Una cinquantina di cantanti famosi” disse il papà di Marco, “si sono ritrovati per noi, per raccogliere soldi….chissà quando li vedremo…ma qui ci vorrebbe un miracolo” e si passò la mano nei capelli, lunghi capelli neri.
Don Marco pensò che il miracolo era già presente in quella loro pazienza, nella voglia animalesca di non voler morire, di resistere alla tragedia. ‘Non siamo così soli…non siamo così soli…’ ripetevano i cantanti alla tele, in un abbraccio canoro. 
Arrivò il caffè. Il prete guardò l’orologio, fece due calcoli, non avrebbe rispettato il tempo di digiuno prima della celebrazione eucaristica, preferì tradire le regole ecclesiastiche, non il desiderio di condividere il suo tempo con quella famiglia. Fatti e non parole. Di prediche ne aveva scritte a migliaia, una vita di sermoni con l’impressione che non sarebbe mai stato in grado di mettere in pratica quelle buone intenzioni, che lanciava dal pulpito come coriandoli a carnevale.
Bevve il caffè, ringraziò, saluto, guardò Marco che stava incollato al video. Il ragazzetto si girò e gli sorrise, con la felicità incosciente dei piccoli, che non vedono lontano e s’accontentano del loro eroe televisivo, che dimenticano alla svelta, non ancora tarlati dal virus della memoria, dal terrore dell’epilogo.
Don Marco uscì dalla tenda, aprì il grande ombrello che aveva preso con sé e si diresse verso la chiesetta da campo: solo un’altra tenda, con un tavolo per altare, qualche sedia, un tabernacolo provvisorio e la candela rossa, accesa per non perdere la speranza che quel pane tondo e piatto fosse davvero il corpo secco di un Dio.        
     
                                                                                     29 - continua