lunedì 3 dicembre 2012

Vicolo Canonichetta 8


Otto

Sofia camminava davanti a lei, goccia di quel torrente di studenti che saltellava a valle, in pendenza dal colle del ‘Cairoli’. Compagnia ciarliera e policroma, i tanti colori pastello degli Eastpack e delle polo a mezza manica, voglia di un buon pranzo ma soprattutto di raccontarsi, di raccontare i fatti altrui e di curiosare, in silenzio, le mosse di un amore ipotetico. Molti ridevano soddisfatti, come chi si è liberato di un peso e gode per uno spazio di piacevole, momentanea libertà.
Sofia parlava con un’amica. Non s’era accorta che la sua professoressa la seguiva, che ne curiosava le mosse, gelosa dei suoi diciannove anni. Accese il piccolo Mp3, uscì della musica, poi si tappò le orecchie con gli auricolari. Non aveva bisogno di ancheggiare, con quelle forme. Né di passarsi le dita fra i capelli e pettinarli, facendoli svolazzare verso le nuvole, perché di capelli ne aveva in avanzo e a quell’età non bisogna inventarsi nulla, per piacere.
Giunsero in fondo al colle, nei pressi del masso sacro, ricordo di guerre, di sacrifici, di ideali. 
Ma dove andava, adesso, Sofia? Perché attraversava? E con quella fretta?
Matilde si fermò a spiarla. Sull’altra sponda di via Venticinque Aprile sostava un ragazzo, in sella ad una moto piuttosto malmessa, un ragazzo col casco che stava porgendo un casco rosso anche a lei, che l’aveva baciato sulla bocca e insieme erano partiti.
Eccolo dunque l’albanese, che si raccontava fosse il suo nuovo ragazzo, dopo Bingo.
Frugò nella borsetta. ‘Dove diavolo ho messo le chiavi?’ e s’inquietò, poi le trovò, si calmò ma s’agitò di nuovo pensando al pranzo che avrebbe dovuto rimediare.
Non sarebbe stato un pomeriggio assonnato.

                                                                                               8-continua

Vicolo Canonichetta 7


Sette


Matilde fumava. Seduta, gomiti appoggiati sulla grande cattedra della sala professori. Gambe accavallate, la mano s’appoggiava al braccio, l’altra mano s’allungava in dita nervose, che stringevano il piccolo cilindro di tabacco. Scodinzolava il fumo verso il neon, bucavano il fumo gli occhi di lei e si posavano qualche metro più innanzi, alla macchinetta delle bevande.
Quattro colleghi stavano in piedi. Anche Franco. Guardava Franco e il paragone con Giulio era impietoso. Per Giulio. Franco...gli rubò soprattutto le spalle, la vita stretta, il gonfiore dei muscoli delle braccia. Tradire Giulio sarebbe stato necessario e stupendo. Franco era la preda.
Ma Giulio dov’era? Lo chiamò; s’era ricordata che doveva essere via per lavoro, due giorni...due giorni la casa libera. Scavallò le gambe; forse si poteva fare quello stesso pomeriggio, no, aveva l’appuntamento col Caravati. Ci sarebbe stata la notte. Perché Giulio non gli aveva lasciato nemmeno un biglietto? Neppure il solito bacio asfittico? Spense la sigaretta, prese il cellulare e compose il numero.
*** 
“Dove sei?”
“Al lavoro...dove dovrei essere?” Giulio cercava di nascondere i sintomi dell’ansia, ma respirava come un asmatico.
“Ma non dovevi andar via?”
“Dovevo…”
“E allora?”
“Non si va più.”
“Non potevi dirmelo?”
“Scusa...”
“Scusa? Ma a che ora sei uscito?”
“Non lo so...sette, sette e mezza...”
“Perché così presto?”
“Perché l’abbiamo deciso presto se andare o no...”
“Ah...” e Matilde stava vomitandogli addosso la verità del biglietto. “A pranzo ci sei?”
“Ci sono...” e quasi inciampò, scendendo dalla rizzàda.
“Ma dove diavolo sei?”
“Te l’ho già detto...”
“Hai il fiatone...”
“Qui dentro manca l’aria...non hai sentito che caldo?”
“Sembra estate. Solita ora? Vuoi qualcosa?”
“Forse finisco prima. Ce la fai per mezzogiorno?” Voleva vederla.
“Ho la quarta ora, dodici e mezza, non prima.”
“Bene.”
“Puntuale.”
“Puntuale.”
“Ti sento strano.”
“Tranquilla.”
Tranquilla? Matilde l’avrebbe sgonfiato come un palloncino da Luna Park. Era appuntita come un istrice.
*** 
Suonò la campanella. L’intervallo era finito.
Franco s’era seduto di fianco a lei.
“Tuo marito?”
“Il rompiballe.”
“Ma va là...”
“Voi uomini siete tutti rompiballe” e gustava i suoi occhi. Avrebbe dovuto alzarsi, raccogliere il registro, i libri, la borsetta, incamminarsi verso la terza c ma si tratteneva, incollata sulla sedia dal piacere di ciò che, con quell’uomo, avrebbe potuto fare. Che aveva il diritto di fare, ormai.
“Andiamo?”
“Se proprio si deve....” disse Matilde.
“Cos’hai?”
“Terza c...e tu?”
“Avrei voglia...” e le sorrise.
Matilde arrossì. Così esplicito non era stato mai. Forse aveva capito che con Giulio davvero non andava bene. “Voglia di che?”
Franco fece il misterioso.
“Non mi hai risposto” insisteva Matilde.
“C’è il preside.”
Il dirigente sorrise ai due ritardatari, il solito sorrisetto baffuto che voleva dire tutto e niente, perché altro il preside non sapeva fare: sorridere e andare in giro a raccontare che il ‘Cairoli’ era la scuola più prestigiosa della città.
Salendo le scale verso l’aula della terza c, Matilde pensò che quella notte avrebbe avuto di fianco, nel letto, soltanto suo marito. Ma prima sarebbe arrivato il pranzo e poi ci sarebbe stato l’avvocato e più di tutto c’era, adesso, la rabbia d’essere stata tradita.

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