lunedì 3 dicembre 2012

Vicolo Canonichetta 7


Sette


Matilde fumava. Seduta, gomiti appoggiati sulla grande cattedra della sala professori. Gambe accavallate, la mano s’appoggiava al braccio, l’altra mano s’allungava in dita nervose, che stringevano il piccolo cilindro di tabacco. Scodinzolava il fumo verso il neon, bucavano il fumo gli occhi di lei e si posavano qualche metro più innanzi, alla macchinetta delle bevande.
Quattro colleghi stavano in piedi. Anche Franco. Guardava Franco e il paragone con Giulio era impietoso. Per Giulio. Franco...gli rubò soprattutto le spalle, la vita stretta, il gonfiore dei muscoli delle braccia. Tradire Giulio sarebbe stato necessario e stupendo. Franco era la preda.
Ma Giulio dov’era? Lo chiamò; s’era ricordata che doveva essere via per lavoro, due giorni...due giorni la casa libera. Scavallò le gambe; forse si poteva fare quello stesso pomeriggio, no, aveva l’appuntamento col Caravati. Ci sarebbe stata la notte. Perché Giulio non gli aveva lasciato nemmeno un biglietto? Neppure il solito bacio asfittico? Spense la sigaretta, prese il cellulare e compose il numero.
*** 
“Dove sei?”
“Al lavoro...dove dovrei essere?” Giulio cercava di nascondere i sintomi dell’ansia, ma respirava come un asmatico.
“Ma non dovevi andar via?”
“Dovevo…”
“E allora?”
“Non si va più.”
“Non potevi dirmelo?”
“Scusa...”
“Scusa? Ma a che ora sei uscito?”
“Non lo so...sette, sette e mezza...”
“Perché così presto?”
“Perché l’abbiamo deciso presto se andare o no...”
“Ah...” e Matilde stava vomitandogli addosso la verità del biglietto. “A pranzo ci sei?”
“Ci sono...” e quasi inciampò, scendendo dalla rizzàda.
“Ma dove diavolo sei?”
“Te l’ho già detto...”
“Hai il fiatone...”
“Qui dentro manca l’aria...non hai sentito che caldo?”
“Sembra estate. Solita ora? Vuoi qualcosa?”
“Forse finisco prima. Ce la fai per mezzogiorno?” Voleva vederla.
“Ho la quarta ora, dodici e mezza, non prima.”
“Bene.”
“Puntuale.”
“Puntuale.”
“Ti sento strano.”
“Tranquilla.”
Tranquilla? Matilde l’avrebbe sgonfiato come un palloncino da Luna Park. Era appuntita come un istrice.
*** 
Suonò la campanella. L’intervallo era finito.
Franco s’era seduto di fianco a lei.
“Tuo marito?”
“Il rompiballe.”
“Ma va là...”
“Voi uomini siete tutti rompiballe” e gustava i suoi occhi. Avrebbe dovuto alzarsi, raccogliere il registro, i libri, la borsetta, incamminarsi verso la terza c ma si tratteneva, incollata sulla sedia dal piacere di ciò che, con quell’uomo, avrebbe potuto fare. Che aveva il diritto di fare, ormai.
“Andiamo?”
“Se proprio si deve....” disse Matilde.
“Cos’hai?”
“Terza c...e tu?”
“Avrei voglia...” e le sorrise.
Matilde arrossì. Così esplicito non era stato mai. Forse aveva capito che con Giulio davvero non andava bene. “Voglia di che?”
Franco fece il misterioso.
“Non mi hai risposto” insisteva Matilde.
“C’è il preside.”
Il dirigente sorrise ai due ritardatari, il solito sorrisetto baffuto che voleva dire tutto e niente, perché altro il preside non sapeva fare: sorridere e andare in giro a raccontare che il ‘Cairoli’ era la scuola più prestigiosa della città.
Salendo le scale verso l’aula della terza c, Matilde pensò che quella notte avrebbe avuto di fianco, nel letto, soltanto suo marito. Ma prima sarebbe arrivato il pranzo e poi ci sarebbe stato l’avvocato e più di tutto c’era, adesso, la rabbia d’essere stata tradita.

                                                                                                   7-continua

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