mercoledì 11 maggio 2011

Auguri in ritardo

Sebbene con un giorno di ritardo, faccio gli auguri agli amici Fausta e Bruno, che ieri hanno festeggiato i loro 31 anni di nozze. Non avendo foto di loro due insieme ho scelto questa, che ritrae Bruno (a destra) insieme all'amico Paolino, in cima al Monte Legnone.

Passione

Ieri pomeriggio scendevo dal Sacro Monte, a sessanta all'ora, in sella alla mia Decathlon gialla. Il giorno prima, nei pressi di Rapallo, scendeva ad 80 all'ora Wouter Weylandt, corridore belga di 26 anni, impegnato al Giro d'Italia. E' caduto ed è morto. Io so cosa vuol dire scendere veloci, in precario equilibrio sopra una bici, che ha copertoncini larghi un centimetro. Ma chi ha passione per questo sport non ci pensa. Va e si diverte. Soprattutto in discesa. Io ho dentro un po' di quella passione, che senz'altro ha spinto Wouter a scegliere il mestiere del ciclista professionista. Io e lui siamo fra coloro che, per dirla con Dante 'la ragion sommettono al talento'. Io, alla mia età, sono diventato molto prudente, ma quando ne avevo 26 di anni, scendevo veloce. Ho sfiorato anche gli 80, qualche volta. Forse 80 no, ma 70 sì. Io capisco Wouter e, col pensiero, lo abbraccio.

IL RACCONTO DEL MERCOLEDI'

Dedico questo mio racconto del mercoledì al ciclista professionista Wouter Weylandt, morto tragicamente sulle strade del Giro d'Italia.

settembre

Tutti pensano alla morte. Anche se non ci si pensa. Molti, credo, immaginano la scena del proprio funerale, quando gli altri, almeno qualcuno piangerà la nostra dipartita. Abbiamo bisogno di sentirci capaci di creare nostalgia. Vi è chi spende denari per farsi predire il futuro da prezzolati ciarlatani: il futuro, quindi anche la morte. Credo sia pura follia, perché la nostra unica fortuna di viventi sta nella salutare ignoranza degli eventi tragici in generale, e della morte in particolare.

Per parte mia, ho invece espresso un desiderio: se proprio c’è da morire (e proprio c’è da morire) che almeno sia come piace a me. E cioè così.

Supino, sul duro di una delle due panchine in pietra, poste a vedetta della piana lombarda, insieme ad un obice da 75/13 demilitarizzato, due bombe e ad una lapide (che fa memoria della Linea Cadorna del ’17, e di una tetra quanto inoffensiva minaccia di invasione austro-ungarica dal Canton Ticino), sul piazzale-eliporto di una delle cime del Campo dei Fiori, che ho battezzato ‘del cannoncino’. Sotto la nuca le mani, o tutt’al più il caschetto da corridore ciclista, quale mi definisco: ciclista non professionista. Perché sul duro giaciglio devo arrivarci in bicicletta, dopo oltre nove chilometri di salita, percorsi possibilmente sotto i cinquanta minuti, partendo dal rione di Sant’Ambrogio Olona.

Quando non sommavo l’età che ho adesso, la salita (da me sempre amata) era conditio sine qua non per la discesa, la mia vera passione, che affrontavo spericolatamente, senza tema di morire. Non pensavo alla morte, allora. Non credevo possibile che lei, infame, rivolgesse la sua ingordigia anche contro di me. Oggi è diverso. La salita è il dolce, faticoso cammino verso quell’approdo, cioè il mio distendermi sulla panca. Perché devo toccare la meta affaticato (quel giusto), ma soprattutto sudato, affinché appaia benefico il getto d’acqua che, sgorgando dalla borraccia, si spande in rivoli sul mio volto; se d’estate, anche sui capelli e sulle braccia. Così mi distendo. Lo sto facendo anche ora, che un robusto ma non violento vento settembrino mi ha condotto quassù, a tratti appesantendomi la pedalata, a volte facilitandola. Sono giunto al piazzale che è quasi mezzogiorno. Non c’è nessuno. Fermo il cronometro: quarantasette minuti primi, quaranta minuti secondi. Bene. Compio un paio di evoluzioni intorno al triangolo in vernice, che contorna la grande H (sempre in vernice), segnale per l’elicottero, che una volta sola ho visto atterrare lì. Due circonferenze, sempre più ristrette, poi lascio il mezzo, mi bagno e mi distendo, cercando il sole, come le lucertole. E oggi c’è, appeso ad un cielo senza foschia, a tinte forti. Sento il vento che s’arrampica da nord-ovest, struscia sui boschi e sulle rocce, va a sfrangiarsi contro un arbusto, incastonato fra le ultime pietre sommitali. Soffia il vento ma si disperde verso l’alto, non arriva alla panca.

Morire così, dentro questo fresco mormorìo, nel silenzio, sentendo che la pelle s’asciuga, le guance, il mento, il naso, infine, ultime, le sopracciglia. Morire così, con quelle vallate e quei colli, quelle acque e quei boschi che non ho più neppure il bisogno di ammirare, tanto li ho mandati a memoria. Mi costituiscono, ormai.

Oggi non ho guardato verso ovest, ma so benissimo che il lago Maggiore avrà pressappoco lo stesso colore dei boschi, blu notte lui, verde cupo loro. Siamo ai primi di settembre, le foglie hanno appena iniziato la policroma metamorfosi, ciò che senz’altro appare è un esteso manto verde punteggiato di case, raggrumate in paesi che si chiamano Brinzio, Arcumeggia, Bedero, Castello Cabiaglio, su e giù sino a Luino, borgo di confine fra la terra e il lago.

Morire così, ad occhi chiusi aspettando gli occhi chiusi della fine, senza soffrire: perché davvero si è già sofferto abbastanza. Con la pace dentro e il bello fuori, un volo d’aliante che accarezza la cupola dell’Osservatorio, i tanti laghi della pianura, le rocce, le nuvole, i ghiacci a disegnare l’orizzonte lontano.

Davvero vorrei morire così, se dipendesse da me. Adagio adagio, respirando il vento che sale e si disperde, ad occhi chiusi, nel buio dei pensieri che tutto contengono. In alto, dopo aver abbracciato e baciato le mie molte donne, che in quello stringere forte sospetteranno un eccesso di romanticismo, e non il mio saluto più radicale. La pedalata e insieme il sonno, uno sciogliersi dentro il settembre più accogliente. Un addio senza dolore, disteso sopra il duro della pietra; un ritorno alla terra, mendicante ai piedi di Dio.


il presente racconto è tratto dal libro 'Una città in cornice' di Carlo Zanzi e Carlo Meazza (Macchione editore)