sabato 26 gennaio 2013
Più belle del vero
Fino al 3 febbraio (chiusura il lunedì), mostra davvero interessante a Villa Recalcati. Si potranno ammirate gli oli su tela di Francesco Murano (ecco in foto le Odle), Impressioni ad alta quota (questo il titolo della mostra) davvero stupende.
martedì 22 gennaio 2013
Il racconto del mercoledì
foto federico bonoldi
IL FALO’
DELLA VERITA’
Il borgomastro di una
ricca città del nord s’era vestito pesante, di lana e di flanella, sciarpa e
scarponcini col pelo e una simil colbacco alla russa; barbetta lunga di tre
settimane, mentre si avvicinava alla grande catasta di legna stringeva nella mano
destra una grossa torcia fiammeggiante, nella sinistra un biglietto. Era lì
convenuto per l’accensione del tradizionale falò di Sant’Antonio, un’usanza di
quel borgo che vedeva in cerchio intorno alla collinetta il sindaco o borgomastro
(per dirla alla nordica), il prevosto e altri notabili della città, fra i quali
si distinguevano il capo degli organizzatori della pira (un ometto tutto bianco
di capelli, di sopracciglia e pallido come una luna smorta) e una signora in
età, con un mantello color porpora, a capo della Famiglia (con la F maiuscola)
che si prodigava per tenere vive le tradizioni del luogo. La stretta via che
infilzava la piazzetta era satura di cittadini, vogliosi di presenziare alla
festa.
Era usanza lanciare
nel fuoco biglietti recanti desideri, per lo più amorosi, nella speranza che il
santo arrivasse dove fallivano la buona volontà, il fascino e i quattrini. Anche
il primo cittadino aveva il suo breve scritto ma non chiedeva mogli, amanti o
una botta di vita. Essendo prossime le elezioni di quella regione, domandava
senza giri di parole che vincesse la sua parte, impegnata da tempo a far valere
le ragioni del settentrione. Nella sua mente si figurava il sud come un diavolo
che tirava il nord verso il basso, dentro il fuoco dell’inferno; o ancor meglio
come una sanguisuga, che succhiava sangue ossigenato dal vento delle Alpi,
ingrassava ai danni di un esangue settentrione, costretto a lavorare il doppio
per sovvenzionare pigri fratelli, adusi a lunghe sieste pomeridiane, svuotati
nelle forze da qualche grado in più di calore nell’aria. Mentre intingeva la
torcia fra le cassette di legno lasciò scivolare il biglietto lì accanto, in
attesa che bruciasse tutto, senza lasciare traccia delle sue speranze politiche,
solo qualche brandello di cenere svolazzante nella rigida notte del sedici
gennaio.
Avvenne un fatto
inatteso: la fiamma attaccò subito ma il biglietto, avvolto dal fuoco, scappò
fuori come per timore di scottarsi, si ritrasse intatto, volò, perse quota e
finì proprio davanti allo scarponcino peloso del primo cittadino. ‘La fiamma
avrà propiziato uno sbuffo’ pensò e si inchinò per raccoglierlo.
“Si sente male?”
chiese la signora ammantata di porpora.
“Mai stato così bene”
rispose lui. “Una gran bella festa. E il fuoco prende che è una meraviglia.”
“Sant’Antoni dul purscèll… ghè da fidàss” disse la donna, nel
dialetto del luogo.
Il sindaco rispose: “Già..l’è propri vera…” ma con la mente
era al biglietto. Guardò. La prima facciata che lesse era la sua scrittura,
tale e quale. Era già pronto per rilanciare il foglietto nel fuoco, quando notò
che il retro non era intonso. Trasalì. Lesse.
‘Diavolo d’un
borgomastro, cosa pretendi? Che un eremita egiziano quale sono stato io appoggi
la tua secessione? O forse hai sbagliato Antonio, e pensi a quello da Padova,
nato un millennio dopo di me? Certo, Padova farebbe comodo alle tue mire
nordiste. Ma sappi che lui a Padova è solo morto, i suoi natali sono di
Lisbona. Rispedisco dunque il tutto al mittente. E vota bene!’
Il sindaco traballò.
“Lei non la conta
giusta. Stasera non mi piace. La cera non è buona. Torni a casa” disse
premurosa la capessa della Famiglia.
“Sarà stato il vin
brulè” disse il borgomastro, con il volto trasfigurato dalla gigantesca fiamma,
che crepitava a pochi metri da lui.
domenica 20 gennaio 2013
sabato 19 gennaio 2013
Il braccialetto giallo
Alla fine del 2005 anch'io, come milioni di persone, tenevo al polso il braccialetto giallo di Lance Armstrong, il ciclista che proprio quell'estate aveva vinto il suo 7° Tour de France. Dopo poco tempo si è rotto. Ora si è 'rotto' anche Lance, infranto il suo mito, costruito sulle bugie. Sta ammettendo, anche se a pezzetti, con fatica e confusione. Dovrebbe essere più chiaro. Confessare tutto una volta per tutte. E ripartire alla grande. Ma so che non sarà affatto facile.
giovedì 17 gennaio 2013
mercoledì 16 gennaio 2013
Open Day alla Vidoletti
Sabato 19 gennaio, dalle 10 in avanti, Open day alla Vidoletti, scuola media di via Manin 3, a Masnago.
in foto: le classiche magliette verdi Vidoletti, che fanno sempre bella figura negli eventi sportivi scolastici
martedì 15 gennaio 2013
Il racconto del mercoledì
Gennaio
Per chi arriva a Brinzio da Varese, se tiene
sulla destra la chiesa e butta gli occhi sulla sinistra, oltre le poche, basse
case del paese, non può fare a meno d’annegare nel verde. Estesi prati a balze,
come un mare d’onde alte, si portano verso la scogliera che, nel caso di
Brinzio, è fatta d’alberi, di boschi e infine di rocce, pietre sulla sommità
del massiccio del Campo dei Fiori, visto nel suo versante nord. D’inverno il
monte prealpino, per lunghi tratti del giorno, e senz’altro dal primissimo
pomeriggio, nega al sole il gusto di indorare quello spreco d’erba. L’ombra
scende lesta verso la chiesa, attardandosi a stendere il suo manto freddo sui
boschi di fronte, che salgono ai Valicci.
Brinzio è fresca d’estate, fredda d’inverno.
Se, a gennaio, in città piove, a Brinzio può nevicare. E se fiocca, su quei
prati il tappeto di cristallo non si scioglie. Può resistere mesi, sin dopo
febbraio. I residenti ne hanno fatto tesoro, hanno risolto a loro favore i
lamenti dei freddolosi regalando una pista per lo sci da fondo agli amanti dei
legni sottili. Se nevica, naturalmente. Perché la fiocca sa essere molto
ricercata. Così è stato per una decina d’anni. Poi ci ha ripensato ed è tornata
ad imbiancare i prati. Questa storia, che è poi la storia di tutti, è stata
scritta da un anziano sciatore proprio il primo anno di fiocca, dopo tutto quel
digiuno. Scritta con la vita. Per parte nostra ci abbiamo aggiunto solo il
piacere di raccontarla.
***
Aveva gustato tutto quel candido ben di Dio
dalla finestra al primo piano della sua casa di Brinzio. Ore ed ore ed ore di
neve bella, soda, con poca acqua e molto ghiaccio, quieta e poi a tratti in
sfarfallìo, rimestata dal vento.
Aveva atteso un giorno e una notte. E anche
qualche ora al mattino, perché aveva imparato a pazientare. Aveva portato
pazienza, ormai, ottantun anni. Aveva atteso che il piccolo gatto delle nevi
gli spianasse la via, sui prati della pista da fondo. Non aveva voglia di
regalare alla neve, sebbene tanto attesa, quelle energie per farsi da solo i
binari necessari alla sua sciata, in perfetta, consolidata tecnica classica,
cioè alternata, destra, sinistra, avanti indietro in parallelo, con le braccia
a muoversi in sincronia con le gambe, movimento lungo, senza strappi,
sfruttando al meglio la scarligàda. Né
s’era preoccupato di preparare per tempo gli attrezzi, sciolinandoli: una
preparazione cavillosa e, non di rado, inefficace. S’era lasciato convincere a
comprare sci di nuova generazione, già belli e pronti, una spruzzata poco prima
di partire e via, tant l’è istèss, stessa cosa, gira e rigira. Se non meglio.
Aveva comprato quegli sci rossi un paio d’anni prima, per curiosità e per
propiziare abbondanti nevicate. Li aveva collaudati a Cunardo, dove la neve la
sparavano coi cannoni.
Uscì che saranno state le dieci. Il sole
rotolava sulla cresta del Campo dei Fiori, come una lenta palla su un terreno a
buche e rialzi. Infilando gli sci e muovendo i primi scivolìi sentì dentro la
vivacità di una vita giovane, e la domanda: “Ho più di ottant’anni ma, se sto
così, perché dovrei morire?” Si immaginò eterno.
Dalle dieci alle tredici fu come si
ricordava: un giro per scaldarsi, un altro per stancarsi, un terzo fatto di
soste, di chiacchiere, di incontri con i paesani con gli sci ai piedi (tutti
più giovani, oltre gli ottanta restava, da sciatore, lui solo). Poi, all’ora di
pranzo, la pista divenne bianca coltre senza nessuno, salvo un ragazzino del
locale Sci Club e un cane da slitta, in libera uscita dai recinti del vicino
allevamento. Poi se ne andarono anche loro.
Avrebbe dovuto far rientro per il pranzo ma
non aveva appetito e, più di tutto, conservava una gran voglia di sciare, quasi
a voler risalire la china di tutti quegli anni persi, per via delle neve che
non si staccava dal cielo. Così tirò dritto. E venne il quarto giro, e poi il
quinto e subito appresso il sesto e il settimo e –miracolo- anziché affaticarsi
si riposava, ogni tornata sulle sue balze e lungo i pendii, salita discesa e
pianura era ristoro più che sofferenza, piacere intenso e non dolore.
La neve scintillava, trapuntata di diamanti.
Gli sci procedevano in andamento alternato con una facilità e scioltezza di
scivolamento che lo meravigliarono, ma non più di tanto, se è vero che ad ogni
passaggio davanti alla casina dell’arrivo si sentiva come un bimbo, appena
sceso in cortile, pronto a correr dietro al pallone.
E il sole, immobile, ad una spanna dalla
sommità del Campo dei Fiori, pareva ignorare l’epilogo del tramonto.
***
Giosuè Piccinelli detto ‘il barba’ fu leccato
e baciato dapprima da un cane da slitta, e quindi trovato senza vita dall’amico
parente Luigi Vanini, lungo il pianoro della parte sommitale della pista da
fondo del Brinzio, alle ore 13 e 15 del 10 gennaio 2002. Infarto, o forse
infarto con ulteriori complicanze. Disposta l’autopsia, ed eseguita, dopo
qualche giorno si seppe che infarto non c’era stato. Morto era morto. Non si sa
di che. Probabilmente felice.
domenica 13 gennaio 2013
Vedersi o non vedersi
Vedersi o non vedersi non altera l'amore
se si è raggi di un unico splendore:
mai la quercia vedrà la sua radice
ma è quella linfa a renderla felice
Silvio Raffo Maternale
sabato 12 gennaio 2013
Respiro da asmatico
Una vita senza ideali, senza battaglie, senza la speranza di una vita eterna è come il respiro di un asmatico.
venerdì 11 gennaio 2013
Cicale al carbonio 24
Ventiquattro
Era stata una notte d’amore. S’erano addormentati
che albeggiava. Ogni sincerità e perdono
s’erano abbracciati insieme ai loro corpi.
Marco fu svegliato dalle campane di Bardolino.
Contò i rintocchi. O undici o dodici. Si girò verso Beatrice e sentì dentro il
brivido della normalità. Aveva mal di testa e un dolore allo stomaco, che
cresceva. In fondo si risvegliava cornuto. Certe cose –pensò- forse è meglio
nemmeno saperle. Poche ore prima aveva buttato giù tutto il boccone indigesto
come fosse una leccata di gelato, ora lo ruminava a poco a poco, acido e amaro
come fiele. Riuscì a tenere a bada la rabbia, pensando che anche lui le aveva
messo le corna.
Andò in bagno. Piegandosi in avanti, sul lavandino,
si vide riflesso dentro il tappo metallico. La convessità gli faceva un naso
enorme, lo deformava; forse gli occhi era tristi per davvero.
Fece piovere l’acqua dalla bocca del rubinetto,
solo un filo, per annegare senza fretta. La sua immagine scomparve. Si lavò i
denti, il viso. Avvertì brividi strani, un malessere diffuso: ecco qua, minimo
minimo un raffreddore, pensò.
Aveva bisogno di calore. Di un corpo caldo. Tornò da Beatrice, che dormiva
in equilibrio sopra il fianco sinistro. Prese la piega del suo corpo. Cercò di combaciare il più possibile a lei,
ma era troppo piccola. Non gli bastava. E l’aveva tradito.
Cercò di riaddormentarsi. Ora stava bene. Forse il
secondo risveglio sarebbe stato più promettente.
24-fine
giovedì 10 gennaio 2013
Cicale al carbonio 23
Ventitrè
Marco e Beatrice stavano
seduti su una panchina, sul lungolago di Bardolino. Erano da poche partite le
donne impegnate nel Triathlon Internazionale, ragazze con la muta nera, pesci
enormi che sguazzavano verso la grande boa, posta a settecentocinquanta metri
dalla partenza.
C’era afa, il lago era una lastra, evento assai raro sul
lago di Garda alla fine di giugno.
Sul prato antistante la spiaggia della partenza i diversi
gruppi dei triathleti maschi attendevano il suono della sirena: prima i
campioni, via via gli altri, compresi alcuni settantenni che ancora avevano il
coraggio di affrontare un triathlon olimpico: millecinquecento metri di nuoto,
quaranta chilometri di bici e dieci chilometri di corsa, senza soluzione di
continuità.
“Ti ricordi la traversata?” disse Marco a Beatrice. “Chissà
che fine ha fatto la mia muta.”
“Ma non l’avevi regalata a tuo cugino?”
“Non me l’ero tenuta per ricordo?”
“Bò…”
***
Mirko Pedruzzoli, giornalista de La Gazzetta dello Sport,
inviato a Bardolino per far cronaca di quel Triathlon, uno dei più prestigiosi
del circuito internazionale, aveva riconosciuto Marco Marchi e non s’era
lasciato scappare l’occasione. Una decina di domande, alle quali il ciclista
aveva risposto con pazienza e disponibilità, anche perché da qualche tempo
s’era messo in mente che avrebbe ripreso le gare, che sarebbe tornato più forte
di prima. Aveva sbagliato, ma il solo modo per cancellare la figura da
impostore era quello di dimostrare che valeva una Maglia Rosa anche senza epo.
Beatrice aveva portato pazienza, non aveva risposto a una
domanda del Pedruzzoli, s’era limitata a sorridere davanti al fotografo.
Ora s’era tuffato in acqua l’ultimo gruppo di triathleti,
quello dei più scarsi, gente che avrebbe completato la gara ben sopra le tre
ore.
“Andiamo nella zona bici a vedere il cambio?” disse Marco.
Beatrice non rispose. I suoi piccoli occhi chiari stavano
annegando a centrolago.
“Mi ascolti?”
“Scusa…dicevi…”
“Dicevo di andare a vedere il cambio.”
“Se vuoi…io….”
“Tu?”
“Preferirei stare qui, sperando che non arrivi altra gente a
rompere…”
“Ochei…bene…”
Dopo qualche minuto Marco cominciò a malsopportare il loro
silenzio, riempito dalle comunicazioni degli altoparlanti, dal vociare dei
turisti e dei tifosi, dal ronzare dell’elicottero sopra le loro teste.
“Tutto a posto?” chiese a Beatrice.
Si guardarono negli occhi. Beatrice era ingessata dentro un
mezzo sorriso. Avrebbe voluto regalargli tutta la verità che le marciva dentro
ma se ne uscì con un “A posto, a posto, andiamo pure a vedere il cambio” che
Marco accettò con più di un sospetto.
***
Videro il cambio nuoto bicicletta, e poi bicicletta corsa.
Applaudirono ai vincitori, poi fecero il bagno in una caletta, accessibile solo
a pochi intimi. Per raggiungerla bisognava possedere le chiavi di un cancello e
loro le avevano, perché amici dei proprietari. Marco si spinse al largo,
Beatrice si limitò a sedersi nell’acqua, lasciando che il lago quieto le
coprisse i seni. Si puntellava alle braccia tese all’indietro, con le dita
rivoltava la ghiaia del fondo. Quando sentiva caldo buttava la testa verso il
sole, intingeva i capelli e li lasciava sgocciolare. Teneva d’occhio Marco; con
lui ce la faceva, con l’ansia no, che saliva e la intossicava. Non era da
stronze parlarne ora? Dopo un anno? O subito o niente. Confessare adesso,
quando finalmente Marco era tornato in sella e tutto avrebbe desiderato,
fuorché seguire il filo di quella storia di tradimento? Non l’avrebbe mai
saputo. Con lui era finita per davvero. Giorni incredibili ma ne era valsa la
pena? Temeva che, a stare zitta, quel malessere le sarebbe durato tutta la
vita.
***
“Ottimo” disse Marco, dopo una leccata al gelato, gusto
fragola. Lui prendeva solo e sempre fragola e fiordilatte.
Stavano su un’altra panchina, zona sud di Bardolino,
isolati. Era già buio. Era giugno ma poteva essere agosto.
‘Manca l’aria’ e Beatrice lo pensò. Non gustava il gelato,
non gustava le luci né il buonumore di Marco.
“Certo che oggi sei strana forte.”
Beatrice lo guardò e gli stampò in fronte un viso inebetito.
Una smorfia più che un sorriso. O si alzava o confessava.
Marco cominciò a raccontare di un suo collega, che se la
faceva con una badante ucraina.
Beatrice s’alzò dalla panchina e prese la direzione della
spiaggia.
“Che fai?”
“Camminiamo…vuoi?”
“Dai, fammi finire il gelato seduto” e allungò la mano
libera dalla cialda per arpionare la mano di lei. Mancò la presa. Beatrice era
già scappata troppo avanti.
Marco le corse incontrò.
Beatrice si
fermò e si voltò di scatto: “Non ce la faccio.”
Ormai glielo
aveva detto.
***
Bepi Tommasi,
proprietario di una delle gelaterie più frequentate di Bardolino, la stessa
scelta da Beatrice e Marco per il loro cono, aveva deciso di fare quattro passi
verso la spiaggia, insieme a Giuseppe Zoni, triathleta locale che quel giorno,
in gara, era arrivato trecentodiciottesimo, scendendo sotto le tre ore.
Giuseppe stava raccontando a Bepi di aver perso tre minuti buoni durante il
cambio nuoto bicicletta, perché la lampo della muta s’era incastrata, quando
Bepi sentì il vociare di un litigio in fondo alla spiaggia, verso il lago.
“Ma quelli
non sono Marco e sua moglie?”
Giuseppe
frugò nella poca luce dei lampioni. “Forse.”
“Sono loro, e
litigano di brutto” disse Bepi. Vide Marco strattonare Beatrice e portarsi di
corsa verso l’acqua. “Ma che sta facendo?”
Nella notte
si sentì lo sciabordio dei piedi di un uomo che corre nel lago.
***
Anche Marco
aveva tradito Beatrice e lo confessò, subito dopo che lei aveva fatto il nome
del suo amante lavenese. Si abbracciavano e intanto parlavano e camminavano con
i piedi a mollo nel lago. Si baciavano mischiando il sapore delle labbra e
della verità, che s’imponeva senza vergogna. Sentivano freddo. Se ne andava il
peso dall’anima. Quella nuova sincerità li rendeva invincibili. E anche un po’
folli.
Marco
trascinò Beatrice in avanti. Ora l’acqua
saliva al ginocchio, ai fianchi. Sentì la voce allarmata di qualcuno che li
chiamava dalla riva, sentì lei che diceva di no ma insieme che desiderava
quella pazzia.
“Scusa” disse
Beatrice.
“Scusa” disse
Marco.
Da complici
si tuffarono nel lago di Garda, in piena notte, al buio, in quell’acqua che
pareva di pece, senza pensare più a niente, se non a stringersi per scaldarsi.
Ma in acqua furono costretti a sciogliersi, per cercare un nuoto impacciato.
“Che freddo”
disse Beatrice.
“Bestia, si
gela” disse Marco.
Il pensiero
di nuotare verso il largo mutò subito in un nuoto affannato verso la riva,
ridendo e tremando.
Nell’uscire
sgocciolanti dal lago videro due uomini che si allontanavano verso le luci
della strada.
“Ci hanno
visti” disse Beatrice.
“E chi se ne
frega” disse Marco.
“E adesso?”
chiese Beatrice. Intendeva come fare ora, bagnati fradici, per raggiungere casa
senza prendersi la broncopolmonite.
“E adesso ti
amo” rispose Marco, che aveva interpretato quell’adesso come una domanda
lanciata nel tempo a venire.
23-continua
mercoledì 9 gennaio 2013
Il racconto del mercoledì
DAVANTI ALLA MIA CASA
Sto fumando una sigaretta. Sto respirando altra morte, oltre a quella
che mi sentivo dentro e che mi ha spinto ad uscire da casa, un istante, il
tempo di un sottile cilindro che va arrosto. Mi sono seduto su una panchina,
oltre la strada. Abitiamo in una villetta, non siamo ricchi, il mutuo non si è
ancora estinto. Sono uscito perché mi ha preso un dolore in fronte, un male che
cola negli occhi, penetra nei bulbi, s’irradia. Ho cominciato a pensare che
quel grido fastidioso era solo l’inizio di un male tremendo, che mi consumerà.
E allora, quando il pensiero scende così in basso, in fondo al pozzo, allora è
meglio che esca di casa e che venga a sedermi qui, sulla panchina.
Non passano molte auto, la strada è secondaria, il paese dove vivo è
minore, tutt’intorno è solo la piatta pianura padana. Maggio muore dentro una
sera che non dovrebbe inciampare mai nella notte, una dolce sera che profuma di
rose. Se guardo nel mio giardino, dieci metri oltre la punta rossa della
sigaretta, vedo rose gialle e rosse. Il profumo, però, non passa la via.
Sto già meglio. E’ sempre così. Questa panchina è meglio del lettino
dello psicanalista. Che strano, il fumo mi intossica eppure riesce a liberarmi
la mente, meglio, riesce ad intossicare solo i pensieri che non lasciano
speranza. Si vede che loro proprio non fumano. Dopo una sigaretta riesco a
ritrovare la gioia di essere padre, due figli, Giorgio, dieci anni, e la
piccola Luisa, cinque. Eccola la mia bambina, è scesa in giardino, ora dirà:
‘Papà, vieni a giocare?’ Una volta diceva: ‘Papà, che fai lì tutto solo?’. Ha
capito che ho bisogno di questo spazio, attende e poi arriva.
“Giochiamo, papà?”
Ecco, lo sapevo: “Un attimo, sali su che arrivo. Prendi il pallone.”
Giorgio, purtroppo, è come me, i pensieri scivolano direttamente dalla
mente al cuore, o restano a ronzare nel cranio, non trovano mai la via della
bocca per sfiatare. Parla con gli occhi e con le labbra. Noi ci intendiamo.
Almeno credo. Gli ho regalato un’eredità pesante, ma che ci posso fare? Devo
farmene una colpa? Ho legioni di sensi di colpa che mi avvelenano, uno più uno
meno.
Luisa è tutta sua madre, per fortuna. Eppure Gloria, mia moglie, dice
che è comunque meglio nascere maschi: tutto più facile. Vorrei regalargliela la
mia facilità, la leggerezza che non ho.
Ora li sento, la mia famiglia è lì, il buono della mia vita sta
compresso in un cinque per sei, la mia piccola sala, dove la televisione è
accesa e vomita le solite disgrazie del mondo. Se sono uscito è anche per non
sentirle.
La sigaretta è consumata, la butto per terra, spengo il mozzicone con
la pianta del piede, poi lo raccoglierò e andrò a buttarlo nel cestino che sta
vicino al mio cancello. Quando risalirò. Luisa può aspettare. Strano che non
sia ancora arrivata con la palla. Ecco, sì, hanno cambiato canale. Ci sarà una
trasmissione che le interessa. Meglio, magari me ne faccio un’altra, di
sigaretta. Ma no, dai, la mia pausa può bastare, ora mi alzo, raccolgo il
muccio, chiamo la bambina.
Perché mi gira la testa? Che sensazione strana, come fossi da un’altra
parte, un sogno, tremo, trema la vista, nausea, miodio ora muoio, non riesco a
correre, un ictus?, vorrei sdraiarmi a terra, in mezzo alla strada, no, ecco
Luisa, corre col pallone in mano ma è come se scappasse, urla papà papà, passa
il cancello, è in strada, ma è il mondo che trema non io, io non sono malato,
guardo verso il cielo e subito scendo al tetto della mia villa, sento urla più
forti del televisore, il camino trema, la parabola che è accanto al camino
balla, sento come un rutto che sale da sotto i miei piedi, il tetto si apre, il
camino e la parabola entrano nelle fauci della mia casa che s’accartoccia,
Luisa è arrivata, salta sopra di me, il pallone rotola e finisce sotto la
panchina, due auto si sono fermate a pochi metri da noi, stringo la piccola
mentre frana per sempre la mia vita.
Ora è solo fumo intorno a noi.
lunedì 7 gennaio 2013
Cicale al carbonio 22
tornante verso il passo del Cuvignone
ventidue
Marco uscì finalmente in bicicletta, per un giro di sessanta
chilometri almeno, che moriva aprile dentro una giornata con nuvole di carta
velina. Erano passati undici mesi dal Giro d’Italia dello scandalo. Gli restava
un anno di squalifica. A Beatrice aveva confessato tutto.
Erano tornati qualche giorno dagli amici di Laveno Mombello,
sulle strade della corsa rosa.
Marco voleva starsene solo, lui, la bici, l’asfalto e quelle
gambe che, dopo mesi di astinenza, s’erano fatte smilze, deboli e abbruttite da
lunghi peli neri.
Appena lasciata Laveno, superato il sobbalzo del passaggio a
livello, sentì trasformarsi in nausea la sua debole voglia di tornare in sella.
Nausea dei pedali, disamore per quello sport. Ma non era più questione di
professione. Doveva rimontare in sella alla vita. Tante altre volte era uscito
in bicicletta e tornato indietro; quella mattina col culo sul sellino ci rimase
e volle proseguire. Affrontava un debole falsopiano e gli pareva duro come il
Mortirolo, peggio di quel Cuvignone che s’era messo in testa di scalare. La
stessa salita inserita, e per due volte, nella penultima tappa del Giro della
vergogna. Quella salita lunga dieci chilometri era la sofferenza quotidiana di
Alfredo Binda, campione immortale di Cittiglio, ricordato a Vararo con un
museo, sulla porta del quale avevano appeso una targa con incisa la poesia in
vernacolo di Santino Broggini, poeta di Arcumeggia:
Vàrda i sò man e vàrda giò, i garùn,
pö vàlza 'l cò, al ciel sùra Varàar;
cròdan i gòtt, scarlìgan par la frunt
e brüsa 'l cöör, rabiùus sü la salìda.
"Alfred, in gamba" e batt i man
ul vecc.
"T'è vist ‘ma'l bòfa ul Binda. Pòar
patàn."
Làssa i cà da Varàar, pö tàca 'l bosch,
ga n'è da pedalà p’al Cüvignùun.
Cerca n'òmm la sò vall, in mezz ai frasch;
spera n'òmm la sò cima, e tanta voja
da mett giò ‘l pè, finìla lì la storia.
Spùngian i cramp, sciòpan i garùn,
fadìga dì par dì ‘nà al Cüvignùun
par turnà giò ‘n dul vènt, cuntènt me'n
spùus.
Marco
non aveva studiato le avventure incredibili e vincenti del Binda, né capiva il
dialetto bosino; ora, arrivato a Cittiglio, si trattava di trovare il coraggio
della svolta a sinistra. Ci provò.
Moriva
aprile e lui voleva risorgere. Il sole non dava fastidio, sapeva che avrebbe
incontrato anche ombra e frescura. Subito in piedi l’asfalto, un budello fra
belle ville e il profumo delle prime cascate di glicine. Mise il ventisei
quando in gara aveva spinto un sedici. Ora il giro di pedale era più sciolto.
Un tratto di pendenza più dolce quindi, lasciate le abitazioni, ecco di nuovo
il ripido. Non lo desiderava, ma il ricordo della tappa e della doppia salita,
mese di maggio di un anno prima, tornava impietoso. Era salito in quel tratto con
un diciotto, galleggiava nel cuore del gruppetto di testa, credeva di poter
controllare tutto, scrutava il Togni come un cane da punta. Due cosce sode che
avevano trascinato corpo e bici dal nord al sud dell’Italia, valicato le Alpi,
spinto nelle crono come un motore da cinquanta all’ora.
Cercò
di distrarsi guardando il panorama. Ora poteva permetterselo. In valle
s’allontanava Cittiglio e si vedeva Gemonio, con i suoi colli feriti dagli
scavi di un cementificio. La vallata si inselvatichiva, ombra e il lontano
rumore del torrente San Giulio. A sinistra il Sasso del Ferro nel suo versante
meno nobile; l’altro, a occidente, degradava su Laveno e regalava panorami sul
Verbano. I boschi erano malcurati, soprattutto robinie soffocate dall’edera,
rari faggi, qualche castagno. Arrivò il breve tratto in piano e poi altra
pendenza, con il San Giulio a lambire la strada, anche pini e la casetta con il
cartello: ‘Mulino della Valle-Amici dei funghi-Cittiglio’.
Nuova
salita e più cielo sopra la fronte sudata. Ad un tornante che virava a mancina
vide una cappelletta, con la scritta A.V.I.S. Cittiglio: una bella Madonna con
Bambino. Non l’aveva notata durante la tappa del Giro, coperta dai tifosi,
dalla sua fatica vorace, dall’odore dei freni e delle frizioni delle ammiraglie,
dal gas delle auto e delle moto, dalle bandiere e dalle urla. Ancora un
chilometro, svolta sulla destra e s’aprì il pianoro di Vararo. Varè in
dialetto, poche case annunciate dai campanacci delle mucche. Nemmeno quel
grande prato aveva visto un anno prima, erba nuova e il giallo dei tarassachi,
la cima del Sasso del Ferro, un alpeggio a pochi chilometri dal centro di
Varese.
Prese
fiato ma non era stanco. Sentì in bocca il buono della bici che aveva gustato
da ragazzino ma perso in fretta, nell’impasto di sale e amaro della troppa
fatica: a tutta sempre, anche in allenamento, anche nelle categorie giovanili.
Dopo
la piana di Vararo prese di nuovo il bosco, ora più curato: grossi faggi, una
pineta, un sottobosco ottimo per funghi e la mulattiera, che indicava la via
dei Pizzoni di Laveno. Il passo del Cuvignone lo si vedeva, tre chilometri
verso oriente, e anche la via che tagliava la vegetazione, poco sotto il
profilo delle Prealpi. In basso la Valcuvia, davanti un falsopiano, ai lati
felci e noccioli, piante di basso fusto e sporcizia lasciata dalla gente.
Marco
saliva e la fatica si spegneva, lasciandogli nelle gambe e nella pancia una
bella sensazione. Alzò lo sguardo verso la fine della scalata; più a destra,
fra il Cuvignone e la cima del Monte Nudo, galleggiavano nel cielo tre
parapendii. Uomini appesi a una tela colorata sfidavano il vuoto e la loro
paura. Li seguì nel loro volo lieve, curando con la coda dell’occhio di non
finire nella scarpata, dentro buche o contro i sassi lasciati in strada
dall’inverno. Si sentì leggero e felice. Provò desiderio di un panino al
salame.
***
Beatrice quella stessa mattina prese l’auto e andò a
Cugliate Fabiasco. Lui non c’era, nonostante si fossero dati appuntamento alla
villa. Aveva già deciso, ma avrebbe preferito dirglielo, guardando per l’ultima
volta i suoi occhi. Attese cinque minuti, poi tornò verso Laveno. Alla rotonda
di Ghirla lo vide in moto, velocissimo, affrontare la curva come fosse stato in
gara. Cercava di recuperare il ritardo. Sarebbero arrivati messaggi e
telefonate che s’era imposta di ignorare. Se ne sentiva capace. Marco non
sapeva niente della loro storia.
22-continua
Cicale al carbonio 21
ventuno
Quella
notte fra la domenica e il lunedì Marco se l’era immaginata nelle ore più dure,
nelle vittorie più esaltanti: conforto o conferma, a seconda. L’amore con
Beatrice se l’era gustato nelle salite e nelle discese, quando non aveva più
voglia di parlare, di soffrire, di pensare a qualcosa che non fosse il sesso
con lei.
E la notte fra la domenica e il lunedì era arrivata. Eccola.
Marco stava seduto nel letto, la schiena appoggiata al cuscino,
messo in verticale. Beatrice gli stava al suo fianco, con il cuscino
orizzontale, seduta ma un poco più sdraiata.
Stavano seduti nel letto, ancora in silenzio. La mezzanotte
era suonata da tempo.
“Allora?” Beatrice, con quella domanda, non aveva pretese.
Era una supplica, affinché scavasse un buco nel muro del silenzio. Dal quel
silenzio bisognava scappare fuori.
Marco era una statua. Respirava con affanno.
Beatrice si girò alla sua destra, lo guardò, teneva la testa
bassa, le mani giunte a preghiera intorno al naso. Ogni tanto si grattava la
testa, scendeva con le mani conserte, tornava con le mani sul naso. Tremava.
Confermava, nel silenzio continuo, i suoi sospetti.
“Perché non me l’hai detto?”
Marco si schiacciò gli occhi dentro le orbite. Spostò i
capelli dietro le orecchie.
“Perché? Tu mi dici tutto?”
Era una domanda urlata.
***
Beatrice era stata in bagno una decina di minuti. Tempo che
era servito a Marco per pensare se dirle la verità.
La linea era di negare. Anche l’ipotesi di uno scambio di
provette, di un sabotaggio sul suo sangue, di un errore dei medici. Ci
sarebbero state nell’immediato le controanalisi. Lui aveva già nominato il suo
perito. Non sputtanarsi con nessuno.
Nemmeno con lei? Intuiva che dare a Beatrice la sua verità e
il suo tormento lo avrebbe liberato da un incubo, che non riusciva a ributtare
indietro con la menzogna. Almeno a lei. La sua sola isola, in quel mare.
Beatrice tornò e si distese sul letto, pesante di bugie. Non
riusciva a dormire. Non voleva dormire. E Marco ancora al suo fianco. Non s’era
mosso, si torturava i capelli, il mento, mandava di tanto in tanto piccoli
colpi di tosse, come per schiarirsi la voce, prima di parlare. Tosse nervosa,
che non diceva nulla.
Beatrice guardò la sveglia. La una e dieci. Si girò sul
fianco, non lo voleva vedere. Perché l’aveva messa in crisi due volte: l’epo e
quel sospetto di un tradimento.
“Mi puoi abbracciare?”
Beatrice cambiò fianco, ora lo vedeva. Si mise seduta.
Abbracciandolo sentì che era sudato, la fronte bagnata, i capelli umidi.
Marco cominciò a singhiozzare. La stringeva, nascondeva le
lacrime sul suo collo, le baciava i capelli, si nascondeva sulla sua spalla.
Piangeva e stava bene.
“Perdonami.”
Beatrice sentì, come una pugnalata, che non poteva meritarsi
nessun perdono.
21-continua
domenica 6 gennaio 2013
Cicale al carbonio 20
venti
Alla guida dell’elicottero della Rai, che portava nelle case
di milioni di italiani immagini da ogni posizione del Giro d’Italia, il
comandante Bachisio Pireddu guardò verso il basso. Il gruppo arlecchino dei
corridori ciclisti, di chi aveva retto sino all’ultima tappa, pedalava
pigramente verso sud, alla volta di Milano, per lo sprint dell’epilogo.
Gregge di capitani e di gregari, metallo cromato che brillava alla luce. Dietro
ai ‘girini’ seguiva, come a un funerale, il corteo delle ammiraglie, davanti
moto e altre automobili. A bordostrada i tifosi, non molti per la verità, sotto
il sole forte del mezzogiorno. Pireddu disse qualcosa al suo secondo, del tipo
“Che bei posti!” e buttò gli occhi verso occidente. La luce del sole alto
abbagliava i colori, eppure il lago di Varese era di un azzurro irreale. Le
tonalità di verde variavano al mutare dei colli e delle valli, chiazzati dai
grigi e dai rossi delle abitazioni: palazzi ma soprattutto ville, campanili,
rare fabbriche. I colli diventavano montagne oltre il lago Maggiore, rocce e
nevi e ghiaccio sul Monte Rosa e sulle altre cime delle alpi svizzere e italiane.
Le nuvole erano striature biancolatte, innocue, senz’acqua.
“Incredibile!” disse il comandante al suo secondo. Ora non
pensava alle bellezze paesaggistiche della Città Giardino, ma al destino di
Marco Marchi, re del Giro, cui avevano tolto la corona nel momento meno
opportuno. “Potevano lasciarglielo vincere.”
“Per incastrarlo la mattina dopo.”
“Già…”
“Che tristezza…”
“Pensa ai tifosi…”
“Io penso a lui…a sua moglie. Chi se ne frega dei tifosi.”
Intuirono che era iniziato il collegamento, cronaca della
tappa conclusiva, Varese-Milano di centocinquanta chilometri, con percorso
cittadino per le vie del centro, dodici giri e il traguardo in piazza Duomo.
***
“Persino Henry Beyle, noto come Stendhal, grande scrittore
francese, passando per questa stupenda zona del nord Italia, terra di laghi,
Città Giardino, ebbe a lodarne le bellezze del paesaggio.”
“E con lui tanti altri artisti, personaggi famosi che qui
spesso hanno edificato la villa di campagna.”
“E da ultimo Piero Chiara, uno fra i massimi narratori del
Novecento, che ha ambientato i suoi romanzi proprio fra Luino, sul Lago
Maggiore, e il capoluogo Varese.”
“Grazie alle stupende immagini dell’esterna Rai di Milano,
possiamo gustare queste panoramiche dall’alto.”
“Il tempo ci favorisce ma non c’è sole, oggi, nel mondo del
ciclismo.”
“E non nascondiamo la difficoltà di dover fare la cronaca di
questa ultima tappa, dopo le vicende che hanno coinvolto Marco Marchi, il
veronese che aveva conquistato la Maglia Rosa proprio ieri, strappandola a
Beppe Togni con una progressione incredibile all’ultimo chilometro dell’ultima
salita del Giro, su al Campo dei Fiori.”
“Le notizie d’agenzia rimbalzano continuamente, ma la sola
certezza è che il leader della Toshibas bike, stamani, non ha preso il via.”
“Questa è la sola, drammatica verità. Perché dichiarazioni
non ne ha rilasciate, e il suo team-manager si è limitato ad affermare che
Marchi è affranto, non si sa spiegare i risultati delle analisi sul campione
del suo sangue e che, ad ogni buon conto, gli è stato impedito di salire sulla
bici.”
“Soglia
di ematocrito oltre il limite consentito, e non di poco: questi i dati in mano
agli uomini dell’antidoping. La decisione di non far partire Marchi è scattata
inevitabile, logica conseguenza di un ematocrito sopra la soglia consentita.”
“Ricordiamo che il campione di sangue è stato prelevato a
Marco Marchi stamani intorno alle sei. E’ stato svegliato, dormiva all’Hotel
Kursal, sul Colle Campigli. Se è stato deciso di fermare il campione della
Toshibas Bike proprio alla vigilia dell’ultima tappa, è perché dubbi non ce ne
sono.”
“Non posso che confermare quanto dici, e non posso non
notare la somiglianza fra questa brutta, bruttissima storia e la vicenda di
Marco Pantani, bloccato a Madonna di Campiglio, Giro d’Italia del novantanove.”
Mauro pensò che il nome Marco portava sfiga.
“Naturalmente nessuno intende sbilanciarsi, sino a prova
contraria il veneto avrà tutto il tempo e i modi per dimostrare la sua non
colpevolezza, la sua estraneità all’uso dell’epo, questa famigerata
eritropoietina che tanto male sta facendo al mondo del ciclismo. Ci saranno le
controanalisi, verranno nominati i periti di parte, il giudice. Staremo a
vedere.”
“A noi spetta solo registrare che l’uomo della Toshibas non
è partito, e quindi la Maglia Rosa è tornata a Giuseppe Togni, secondo ieri al
traguardo del Campo dei Fiori.”
“Salvo imprevisti, perché il Giro terminerà solo in piazza
Duomo, intorno alle sedici e trenta sarà lui il vincitore della corsa
rosa.”
20-continua
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