sabato 8 dicembre 2012

Vicolo Canonichetta 13



Tredici


Giulio era salito da Emilio. L’anziano parente stava seduto su una poltrona e non s’alzò quando lo vide. Ma che fosse sorpreso, e forse anche felice di rivederlo, lo si leggeva negli occhi e nella rapidità con la quale aveva allungato la sua mano ossuta verso l’altra, sudata e gonfia.
“Giulio? Giulio a casa mia? Sa te fètt chi…” e lo invitò ad accomodarsi, quasi scusandosi di essere costretto a campare così malmesso.
Emilio non era solo. Gli faceva compagnìa una donna, sessanta, settant’anni, ben curata, come in ordine appariva lui: solo la barba era quella di un vecchio, troppo stanco per farsela tutti i giorni.
“Questa è Maria....Maria, Giulio...siamo parenti, un po’ alla lontana...”
“Parenti, parenti.” Pensò che finalmente si stava distraendo ma nel pensarlo riapparve la morsa allo stomaco, a metà, all’altezza del diaframma. Quell’oppressione non se ne andava.
Si mise seduto.
“Dicevi?” chiese Emilio.
Giulio infatti si era fermato, voleva dire qualcosa ma s’era bloccato pensando a quel concetto e alle parole e le parole non arrivavano, si confondeva. Prese un altro respiro lungo. “Sì, sì, scusa...ma fa caldo qui dentro...No, dicevo che figli non ne abbiamo, non ancora, ora però è un po’ tardi.”
Maria s’era avviata verso la finestra, aveva abbassato la tapparella per lasciare all’asfalto della strada tutto quel gran caldo di maggio. Poi era tornata a sedersi di fianco ad Emilio.
“Anche tu, niente figli, o ricordo male?”
“Non sono mai arrivati” disse il vecchio.
La fitta allo stomaco non lo mollava, come un morso di cane capace di addentargli la vita. Se la prendeva con Dio. Non riusciva a perdonarLo. 
*** 
Dio mio, aveva spiegato Giacomo Leopardi e stata distraendosi con Cento vetrine. Giulio l’aveva  a tal punto immiserita?
Matilde andò in camera da letto. Era quasi l’ora di prepararsi per l’avvocato.
Aveva riposto il foglietto nella busta. Andò a riprenderselo. Poi, con calma, continuò quello che aveva iniziato la mattina e che aveva dovuto interrompere per non sommare ritardo in classe. Frugò nel cassetto del comodino di Giulio. E frugò nei cassetti dei vestiti, senza mettere in disordine, certa che non avrebbe trovato nulla.
Guardò in tutte le borse del marito, in tutte le sue tasche, in ogni probabile nascondiglio.
Ora voleva musica classica. Scelse Mozart, concerto per pianoforte in do maggiore K. 467.
Adocchiava qua e là e intanto cercava la frase, la parola, il concetto capace di sintetizzare, come una perla, le ragioni della sua richiesta di separazione. Fallimento? Delusione? Inganno? Viltà? Bugia? Grettezza? Sulla parola ‘violenza’ si fermò più a lungo. E le sue colpe? Era disposta ad ammetterle, ma lei, nel tempo dei dissapori, non aveva nascosto la testa nella sabbia. Aveva sofferto e lottato, costruito mentre lui demoliva, non aggiungeva mattoni alla casa comune. Non piangeva insieme a lei, minimizzava: un’alzata di spalle e via, un altro giorno è andato.
Pensò che la mancanza di figli non li aveva aiutati; prima li voleva lui ma non lei, poi li avrebbe desiderati lei e lui divagava.
Allungò la mano sotto una pila di indumenti intimi. Trovò una busta di panno. La prese. L’aprì.
***   
“Bhè?”
“Posso?” chiese Altin.
“Vieni, vieni...ma che ci fai?”
“Ti spiego” e Altin entrò.
“Successo qualcosa?”
“Niente...solo che....”
Sofia l’aveva portato in camera. S’erano seduti sul suo letto.
“Solo che?”
“Ma sei sola?”
“Sì” e quel sei sola non le piacque. Si mise sulla difensiva.
“Niente...non mi andava di aspettare fino alle quattro.”
Lo guardò come per dirgli ‘Nemmeno a me’ ma lo tenne per sé.
“Che fai?”
“Stavo cercando di studiare; anzi, pensavo fosse Bea, così magari ci riuscivo.”
“A far che?”
“A studiare.”
“Allora ti rompo.”
“Figurati.”
Altin usava il casco come tamburo, aveva un profumo buono.
Lei fece un lungo respiro: “Ma che ti sei messo addosso?”
“Niente.”
“Non prendermi in giro.”
“Niente, perché?”
“Sai di buono” e si piegò verso il suo collo. Ora, vicina, il profumo era meno interessante. Le infilò le dita nei capelli mossi, lunghi dieci centimetri almeno.
“Dai, metti su musica.”
“Dovrei studiare.”
“O.K. Ti aiuto.”
“Per aiutarmi dovresti andartene.”
“Vado...allora me ne vado” e fece la mossa di mettersi in piedi.
“Non fare il cretino!” e s’aggrappò al suo braccio, buttandolo sul letto.
Altin non si tirò su subito. Attese. Invano.
“Mettiti seduto” disse Sofia, che lo studiava ma insieme se lo mangiava.  

                                                                                 13-continua