sabato 1 dicembre 2012

Vicolo Canonichetta 5



Cinque


Matilde si svegliò. L'ultimo sogno le aveva fatto credere che fosse domenica. Intuì dalla luce che era già mattina. Giulio nel letto non c'era. L'ultimo ricordo di lui era stato la solita protesta per il suo ronzìo notturno. Le dispiaceva, qualche volte meno, altre ancora godeva nel dargli fastidio.
Guardò l'orologio: sette e venticinque. Pochi secondi e la sveglia partì; s'alzò di scatto ma si quietò subito e intanto si chiedeva come mai suo marito non fosse nel letto.
Quando non lo trovò in nessun locale né riassunto in un biglietto si disse: 'Quando mai se n'è andato senza dirmi niente?' Volle calmarsi ma non ci riuscì.
Con la rabbia tornarono parole da innamorati, promesse di sincerità assoluta, ripetute parole d’amore. Amore? Giulio non era più quel Giulio, lei aveva il diritto di non essere più l'ingenua Matilde che l’aveva amato davvero.
Fu presa da una curiosità nevrotica. Aprì cassetti, lesse foglietti. Notò che era uscito senza portafoglio. Quando, aprendo il cassetto del comodino del marito, vide la scatola di legno intarsiato (conteneva fazzoletti di carta e condom) e l'intuito le consigliò di aprire anche quella, considerò che stava esagerando. Ma non si trattenne. E lo trovò proprio lì.
*** 
Matilde sarebbe arrivata a scuola in ritardo, ma era l'ultimo suo pensiero. Né s'interessava di dove potesse essere finito quel giuda. Aspettò le otto, prese il telefono, chiamò lo studio dell'avvocato Caravati, parlò con la segretaria, fissò un appuntamento per le sedici di quello stesso pomeriggio, poi chiamò la scuola ("Non è suonata la sveglia, arrivo subito"), completò il trucco, prese le chiavi dell'auto, scese in garage, avviò, fece con attenzione la manovra d'uscita, richiuse e si diresse verso il liceo classico ‘Ernesto Cairoli’.
Sospetti ne aveva. Ma i sospetti sono sospetti, la certezza era che Giulio non fosse così coraggioso e stupido da farsi l'amante.
Tamburellando nervosamente le dita sul volante viaggiava verso il liceo e la musica saturava la poca aria dell’interno della sua Panda. Nonostante fosse in ritardo, ben oltre le otto del mattino, c’era coda allo sfociare di via dei Campigli nella rotonda di piazza Libertà. In quell’ampio slargo circolare, sul quale s’affacciavano la Questura e Villa Recalcati, già Hotel Excelsior e ora sede dell’Amministrazione Provinciale, gli uomini di palazzo avevano collocato un simbolo dell’operosità e dell’ingegno varesino: un aereo a reazione per addestratori, il Macchi 308 dell’ingegner Ermanno Bazzocchi. Di primo acchito poteva impressionare il trovarsi di fronte ad un aeroplano, sospeso e immobile a qualche metro da terra, al centro di una piazza, al posto di una fontana o di un albero secolare.
Gestendo a fatica la rabbia per quelle auto incolonnate, Matilde ripassava tutte le occasioni che aveva avuto e che aveva lasciato appassire, perché era la moglie di Giulio. E la pazienza che aveva dovuto portare? Inghiottì l’amaro delle tante delusioni, patite per un uomo che era appassito subito. La telefonata all'avvocato era stato un gesto non più rinviabile.
Sgommando riuscì infine ad immettersi nel flusso circolare del traffico di piazza Libertà. Si immaginò quella donna: la sua età, il suo aspetto, la professione. Da quanto si vedevano? Erano già stati a letto? Il biglietto, poche parole, lasciava molti dubbi. Pensò se parlarne con Giulio prima o dopo l'incontro con l'avvocato, e come dirglielo, con rabbia o con le carezze avvelenate della superiorità. Lei sceglieva, lei lo mollava.
Completata la rotonda prese, in salita, via Venticinque Aprile, poca strada ancora poi si fermò, freccia a sinistra e su per i tornanti del colle del ‘Cairoli’. Trovò parcheggio vicino all’ingresso della palestra, un imponente edificio d’architettura fascista che aveva ospitato, negli anni Cinquanta e Sessanta, i canestri della squadra di basket della città. La grande Ignis, sponsorizzata dal commendator Giovanni Borghi, di lì a pochi anni avrebbe dominato in Italia e nel mondo, grazie al messicano Manuel Raga, ai varesini Aldo Ossola e Dodo Rusconi, a Dino Meneghin, Paolo Vittori, Ottorino Flaborea, Ivan Bisson, al biondo Bob Morse e a tanti altri giganti della palla al cesto. Se Varese erano nome d’esportazione, lo si doveva soprattutto a quello sport. 
***
Matilde entrò in aula e guardò subito verso Sofia: terzo banco, ultima fila di destra. Sofia era la figlia che non aveva avuto e che avrebbe voluto avere; le somigliava, era intelligente, sveglia e un po’ pazza, era un tipo, vivace e sfrontata, umorale, non secchiona e anche piena di problemi. Poi scoppiava la gioia incontenibile dei momenti di grazia.
Sofia era girata a parlare. Matilde chiese scusa agli alunni per il ritardo, capì che la classe non ne aveva sofferto, fece l’appello, cercò di simulare la normalità.
Nella classe c’era silenzio, una quiete ansiosa: era mattina di interrogazione, Matilde però non ricordava il programma.
“Che vi avevo detto? Oggi s’interroga, mi pare.”
“No, si spiega, prof” disse Sofia.
“Si spiega?” e intanto se la gustava. Lo aveva detto per ingannarla? Sarebbe stata capace di una menzogna? Ma quelle bugie, a quell’età, meritano un sorriso. E una dose di rischio per chi si fa avanti. La bugia di Giulio era stata una vigliaccata.
“Già, oggi spieghiamo...” Ma che spiego, pensava Matilde? Che la vita è un enorme inganno di perfezione? “Eppure, ragazzi, m’ero fatta l’idea che dovessi interrogare. E se andassi a  vedere il registro, scoprirei che dovevo interrogare Micheluzzi, anche perché è assente, vero, caro Micheluzzi?”
Ora la classe taceva. Anche Sofia. Matilde sapeva farsi rispettare.
“Prendete il libro. Giacomo Leopardi...”
“Pagina duecentodue” disse qualcuno.
 
                                                                                                            5-continua