lunedì 10 dicembre 2012

Vicolo Canonichetta 15



Quindici


Giulio era tornato in auto. L’abitacolo scottava, sapeva di fintapelle, di plastica, dell’avanzo del fumo di vecchie sigarette. Sentì la voglia di fumarsene una. Ma, oltre ogni tristezza, aveva bisogno di sua moglie. Non gli restava che Matilde.
Accese, partì verso casa. Giunto a Bobbiate capì di non essere pronto all’incontro. Parcheggiò vicino alla chiesa progettata dall’architetto Bruno Ravasi negli anni Sessanta. Trovò un posteggio all’ombra, ora faceva più fresco. Voleva scriverle qualcosa. O scrivere per dare ordine all’inferno che gli bruciava nel petto.
Guardò l’ora sul cruscotto: le quindici e tre.
Prese un blocco, la stilografica, appoggio il blocco al volante. Guardava le righe sul foglio. Si incrociavano. Doveva calmarsi e scrivere, anche banalità ma scrivere.
‘Cara Matilde…’ no, non era una lettera per Matilde, cancellò il ‘Cara’. Non riusciva a comporre una frase, non riusciva a pensare e a scrivere ‘Matilde, ti amo’.
Cancellò tutto, strappò il foglio, in quello nuovo scrisse ‘Mi si è rivoltato il cervello’, poi si piegò in avanti, la fronte sul block-notes. Piangeva, singhiozzava, poi stava meglio.
Sollevò la fronte dal volante. La scritta era una macchia. Le lacrime avevano bagnato il foglio. Strappò un’altra pagina. Guardò fuori: non passava nessuno.
Reclinò il sedile, sollevò un poco i piedi, chiuse gli occhi, appoggiò il blocco e la stilo sul sedile di fianco, prese aria, fece il possibile per quietarsi. Ma che aria poteva esserci lì dentro? Era in ombra, giù i finestrini, ma si soffocava.
Si tirò su di nuovo, riprese il quaderno, la penna. ‘Scrivi, imbecille...qualunque cosa...’ e, nello scrivere, ebbe l’impressione di una rinascita. In principio due, tre parole poi si perdeva ma ricominciava e una frase veniva e un’altra e insieme piangeva, di gioia e di rabbia, e riprendeva, ringraziando i segni blu che facilitavano la concentrazione.
Quando si sentì pronto per far ritorno da lei, l’orologio sul cruscotto segnava le quindici e ventisette.
***  
Matilde posava davanti allo specchio del bagno. Si stava truccando, prima d’uscire. Metteva in ordine la successione degli eventi: con l’avvocato non avrebbe dovuto questionare molto. Avrebbero più che altro concordato la lettera da mandare a Giulio. E qui un po’ era indecisa: non regalargli nessun preavviso o metterlo nelle condizioni di capire qualcosa? Accordi preliminari, giudice, separazione, tre anni il divorzio. I beni li avevano separati, il bene dei figli non l’avevano in dote, quell’appartamento era proprietà sua, per eredità familiare, che lui si cercasse un’altra sistemazione. I soldi non gli mancavano. Del resto le informazioni sul da farsi le aveva prese da tempo. Era ormai l’ora di prendere strade diverse. Se ne convinse. Non stava affrettando i tempi, non stava ragionando in crisi emotiva.
Con lo spazzolino del rimmel fra le dita rivedeva Giulio, quando Giulio somigliava al solista dei Beatles e le amiche, maliziose, cantavano ritornelli noti e ridevano; ora nemmeno di faccia ricordava più l’ex scarafaggio di Liverpool. Il sovrappeso gli aveva deformato il volto. Ma dentro era cariato già da prima, anche prima delle nozze, e lei un po’ se n’era accorta, ma quella somiglianza con Paul Mc Cartney…ed era certa che, con lei, sarebbe cambiato.
Un po’ di matita sulle sopracciglia, poi Matilde guardò l’ora: quindici e ventinove.   
Prese la spazzola. La tinta era da rinnovare. Molti capelli, dalla radice e per un centimetro buono, erano grigi; qualcuno già bianco latte. S’innervosì. Per questo le borse sotto gli occhi le parvero impresentabili.
Si piaceva sempre di meno.
***
“Ma oggi c’è il sole” disse Altin, sedendosi sul letto.
Sofia gli si sedette di fianco. Capì che il sole c’entrava con la sua richiesta, raccontargli di qualche sua brutta giornata. “Dicevo così...se non vuoi...” e s’alzò, per accendere dell’altra musica.
“Perché le cose brutte?”
“Ci sono giornate che fanno schifo” e Sofia ancora pensava alla canzone, e al suo seno sfiorato da Altin. 
L’albanese non era venuto in quella casa per parlare.
“Ascolta” disse ancora Sofia, “l’altro giorno mi stavi parlando di una certa Luzina...”
“Luzine.”
“Non era una storia triste?”
“Luzine era una ragazza, me la ricordo molto bella.”
“E poi?”
“E’ successo poco prima della traversata, qualche giorno prima” raccontava Altin. “Era marzo, aveva appena smesso di piovere. Abitavamo in centro a Skoder, vicino alla moschea, alla moschea dei Piombi. Ero sul balcone. Ho visto arrivare la Sigurimi, la Polizia Segreta. ‘Mamma, mamma, la Sigurimi’ e lei ‘Vieni dentro, chiudi tutto’ ma io non volevo entrare. Poi ho visto gli studenti dall’altra parte. Mia madre mi ha preso per il braccio, io protestavo, mi sono messo a piangere. Così mi ha lasciato guardare dalla finestra. E’ stata un po’ incosciente, per come sono andate le cose. Lei non ha visto, e neanche mio padre, che era al lavoro. Ho visto solo io. Il capo della Sigurimi aveva il megafono e urlava agli studenti di fermarsi. Poi uno dei suoi ha sparato una raffica verso l’alto. Mia madre non ha sentito perché teneva accesa la radio. Ho preso un po’ di paura ma sono rimasto lì, a guardare. Un’altra raffica, in alto, e il capo che diceva di fermarsi. Si sono fermati tutti. Solo una ragazza è andata avanti.”
“Luzine?”
“Sì, poi abbiamo saputo che si chiamava Luzine Seran, era di Skoder, aveva più o meno la tua età. Vent’anni non li aveva. Lei non si è fermata, e allora anche gli altri l’hanno seguita, uno, due, tre, dieci, tutti no, molti se ne sono andati via, qualcuno scappava indietro. Avevano paura. Un ragazzo, forse il suo ragazzo le diceva di fermarsi, la strattonava ma lei gli parlava. Si fermavano un po’, lei parlava, discutevano, riprendevano a camminare verso la Polizia, che era arrivata con le jeep. E il capo che gridava al megafono: Fermi, per dio! Fermi! Poi Luzine ha cominciato a lanciare sassi, altri lanciavano sassi contro i loro mitra, le loro auto. E allora è arrivata una raffica, poi un’altra. Luzine è caduta, altri gli sono caduti vicino, ma morta è morta soltanto lei. Sono corso da mia madre. Piangevo. L’ho abbracciata. Poi non si sentivano più spari. Le ho detto di venire a vedere, che avevano ammazzato dei giovani. Pochi giorni dopo ce ne siamo andati. Di Brindisi, della traversata, sai già tutto.” 

                                                                        15-continua 

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