venerdì 7 dicembre 2012

Vicolo Canonichetta 12



Dodici

Giulio s’era trovato di nuovo in mezzo alla strada. Era salito in auto ma vagava per la città come una bussola senza attrazioni.
Aveva pensato di andare dal dottor Brunetti, medico di base, poi in Farmacia, persino al Pronto Soccorso, lasciarsi cadere lì all’ingresso, come l’avessero scaricato da un’ambulanza: che ci pensassero loro, i padroni della salute, a cavargli fuori il marcio.
Infelice si fermava (un semaforo, un parcheggio) respirava a lungo, si schiaffeggiava, ripartiva, tremava, accostava di nuovo, respirava, accendeva lo stereo, lo spegneva perché la musica gli confermava la sua incapacità di ascoltarla.
Terrorizzato all’ipotesi che, facendo ritorno a casa, Matilde non ci fosse più, era passato per la sua via, l’auto della moglie c’era e così se n’era andato di nuovo, verso il niente di una città che stava espellendo quel corpo estraneo.
Presentarsi al lavoro? E quelli che sapevano della sua storia con Lucia? Che aveva preso le ferie per portarsela di nuovo a letto? S’era confidato con pochi, e fidati, ma il vanto di allora oggi era vergogna.
Intorno alle quindici stava scendendo verso il lago. Parcheggiò alla Schiranna, vicino alla piscina. Poi si portò sulla riva. Sentiva voci provenire dalla sede della Canottieri. Vide partire un singolo, subito con remata forte, diretto verso Bodio. Davanti a lui il lago piatto, un odore sgradevole d’acqua stagnante, di alghe, di pesce, e un pescatore con una canna fissa, molto lunga.
“Abboccano?”
“Neanche una leccata.”
“Non è che l’acqua sia molto pulita.”
Dìsan ca l’è guarì…par mi a l’è l’istèss da trent’ann fa…danèe sbatü via.”
“Per giunta, soldi nostri.”
Poi Giulio non ebbe più voglia di parlare, e neanche il pescatore che posò la canna, cambiò il cagnotto, accese una sigaretta, tossì e riprese la sua patetica lotta contro i gobbini, le scardole e i boccaloni del lago di Varese.
Guardò l’acqua, onde minime che si sfrangiavano su piccoli sassi, che accarezzavano la pancia di anatre vagabonde, che cedevano alla morte senza lottare. Chiazze verdi di rimasugli di alghe dondolavano, insieme a piccoli detriti, testimonianza della maleducazione di qualcuno. Una libellula sfiorò il galleggiante bianco e rosso, lanciato dal pescatore fiducioso, e partì decisa verso le cannette del parco ‘Luigi Zanzi’.
Spostò lo sguardo dal litorale di fronte a lui, quello di Galliate, arrivò a Biandronno, Bardello, salì verso il cielo incontrando il Monte Rosa: sbiadito, reso più mansueto dall’afa, più che roccia e ghiaccio pareva una grossa nuvola panciuta pronta a svaporare, scomparendo come un fantasma. E fantasma era anche la traccia di luna, bianca impronta nel cielo smunto.
Tornò ai suoi piedi, s’avvicinò fino a farsi sfiorare la punta da quell’acqua poco sana. Allora si ricordò dello zio Emilio, un parente ottantenne che viveva solo, malato, lontano dal ricovero perché qualche amico lo curava. Abitava in quella zona periferica della città. 
Sapeva delle sue condizioni e dei suoi bisogni, ma se n’era sempre disinteressato. Pensò che allo zio Emilio, esperto nel soffrire, avrebbe potuto raccontare tutto. Sentì che quello zio gli apparteneva. Avevano entrambi un corpo che bruciava. Prese l’auto, trecento metri di strada, parcheggiò e salì da lui.
***  
Matilde si mise comoda. Accese una sigaretta e cominciò a pensare all’avvocato. Portargli o no il foglietto di Lucia? Essere sincera sino alla vergogna o trattenersi? Ma bastava molto meno per separarsi; bastava dire che Giulio gli avevano portato via vent’anni di vita, che si era sbagliata e che c’era tempo per rimediare. La separazioni era il male minore? No, un gran bene. Per entrambi? Per lei di sicuro, e che lui andasse sulla forca. 
Prese carta e penna, buttò giù qualche appunto. Scriveva e metteva a fuoco quel foglietto a quadretti, come a quadretti era il foglietto con scritto sopra dell’amore (amore?) di quell’altra verso suo marito. Aveva scritto proprio: Ti amo...’ Perché scomodare un verbo così impegnativo?
Si sentì spiazzata. Su Giulio spadroneggiava, si lamentava ma lo teneva per la collottola. Sarebbe stata in grado di farne a meno?
Ingoiò fumo e rabbia: se li era immaginati nel letto. S’alzò, aprì la portafinestra della cucina, andò in sala e accese la tele. Davano Cento vetrine.
*** 
Sofia aveva ascoltato, nell’ordine, dopo che i suoi se n’erano andati, lasciandola padrona dell’appartamento: Trouble dei Coldplay, Angelo di Francesco Renga, Un sole dentro al cuore di Giorgia e Cry me a river di Justin Timberlake. Su Cry me a river, più o meno a metà, dentro quel ritmo insistente e un po’ ossessivo, anche vagamente triste e inquietante, s’era ricordata della maturità: da studiare. Perché se non aveva problemi di ammissione né di promozione, non le andava di uscire col minimo.
‘Lasciamola finire e poi spegniamo’ si disse. Mantenne la promessa. Spense l’Mp3, scese dal letto, zampettò scalza a chiudere la porta di casa, s’incamminò verso la scrivania. Ma Altin batteva in testa come un motore fuori giri.
Ci aveva messo del tempo per convincersi che no, basta, ora bisognava studiare per davvero. Leggeva e le parole s’aggrovigliavano, si spegnevano: l’attenzione era su altro. Cercava di rabbonire il cuore, lo rimproverava ma quello faceva di testa sua e lei si lasciava cullare dalla strafottenza dell’amore. La prof di lettere aveva spiegato Giacomo Leopardi. Le era parsa distratta quella mattina. Con un poeta come Leopardi non sarebbe stato difficile regalare emozioni ai suoi alunni. Sofia non se ne ricordava. Forse perché troppo emozionata da Altin. Forse...e suonò il campanello...e sperò si trattasse di un’amica. In due sarebbero state obbligate a studiare. Ma non s’era accordata con nessuno. Una sorpresa? Capitavano. Arrivavano da lei amiche disperate, spettinate dall’ansia della maturità, alla ricerca di mutua compassione.
Corse ad aprire. Prima guardò nello spioncino. Altin? Già altre volte era entrato in casa sua. Mai trovandola sola.    

                                                                                                  12-continua

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