agosto
E’ una bugia. Se vi dicono che si può
capire la sofferenza, senza provarla, non date retta al mentitore. Anch’io lo
credevo, e m’immaginavo gli stati estremi, il dolore più intenso, il patimento
più irrazionale, poi un mal di denti mi metteva sull’avviso: schiacciato a
terra come un verme. E per un mal di denti.
E’ una bugia, eppure lo stesso
guardatemi: in carrozzina, paralizzato. Non mi resta che poter muovere il capo,
ciondolare la testa nella speranza che qualcuno me la tagli, con mano ferma.
Non posso neppure togliermi la vita.
E lo vorrei fare adesso, anche adesso (ho pensato ad
ogni strategia per andarmene perché il pensiero, purtroppo, è sano), adesso che
mi hanno portato ai piedi del lago di Monate. Sulle sponde del mio lago.
Dopo lunghi anni, questa mattina,
ritagliata in un agosto caldissimo, ho detto a chi mi assiste: “Mi portereste
al lago di Monate?”
Mi ha guardato, la badante, con occhi
caritatevoli e puliti: “Andiamo…Come lei desidera.”
E sono qui. Ma sono anche, soprattutto
a quegli anni, quando qui ci arrivavo in bicicletta, nei pomeriggi di giugno,
di luglio, d’agosto. O verso mezzogiorno. Un piacere soprattutto agostano, dopo
aver già goduto mare e montagna, località turistiche lontane da Varese, dopo
aver scoperto (in verità riscoperto) che la nostra terra non ha davvero nulla
da invidiare alle altre. Una presa di coscienza quotidiana, ma che si riaccendeva
soprattutto in agosto quando, a metà del pomeriggio, dopo la pennichella e
qualche pagina di un buon libro, saltavo sulla dura sella della palmerina e
giù, dentro le fauci accaldate del Sasso di Gavirate. Talvolta pareva di
infilarsi davvero in un forno, la qual cosa accresceva la voglia di lago. Da Gavirate
a Bardello (e lì, in principio alla salita, sopra un tetto, leggevo la temperatura,
nel 2003 addirittura trentotto gradi), poi Biandronno, poi a destra per Faraona
(dove aveva trascorso la fanciullezza la sciüra Roselli, ma immagino che questo
interessi poco), quindi a destra per Travedona-Monate, infine a sinistra per il
piccolo lido.
Mi tuffavo e nuotavo; mulinavo le
braccia e godevo di quell’amplesso con le acque; battevo i piedi e, nel ruotare
il capo per respirare, respiravo anche il bello delle rive, del cielo, delle
ninfee, delle ville, dei piccoli moli, dei varesotti che sguazzavano, dei
varesini che si tuffavano, che remavano, che windsurfavano, che zampettavano a
mollo, per sconfiggere la calura, a basso prezzo ma con invidiabile panorama di
contorno.
Tralascio la narrazione del ritorno,
anche se il Sasso, in salita, nel caldo e dopo oltre mezz’ora di nuoto (un’ora,
se affrontavo la traversata Monate-Cadrezzate e dietrofront) spremeva i
quadricipiti femorali. Tralascio quelle pedalate, ma non posso tacere che, per
un incidente vergognoso per la sua banalità, i miei quadricipiti si sono
prosciugati, il ventre è tondo e gonfio, le braccia sono due fili, ho solo,
contratti, i muscoli del collo, e più sopra una testa che vorrei comprimere
sino a far scoppiare.
Sì, non ho vergogna ad ammetterlo: in
questa pozza, oggi, vorrei annegare, potendolo. Dico pozza anche se il lago è
sempre uguale ad allora, non è inquinato, ci sono bagnanti, il verde è verde, i
pesci ci sguazzano, le barche e i pedalò lo solcano. Ma per me è una pozza,
perché l’occhio, appannato dalla menomazione, non vede più.
Sollevatemi e buttatemi in acqua, per
dio!
…Eppure non mi lascerei morire. Non
darei all’ultima nemica la soddisfazione di succhiarmi via dal mondo così,
senza dover penare un poco. Niente resa alla falce, piuttosto resistenza sino
al sibilo nell’aria, al colpo che trancia.
Non potrei salvarmi da solo, certo,
andrei giù come un sacco di letame, ma in quella frazione di secondo, avrei
nostalgia del bello che è il lago di Monate, ritroverei il gusto della vita,
avrei forse il tempo di un urlo, sentirebbero, accorrerebbero, mi
riporterebbero a riva.
Invoco il suicidio ma –mi conosco-
tratterrei le mani di chi, impietosito dalla mia pena, avesse scelto di farsi
complice di quel tuffo. Urlerei: “No, per dio, no, aspetta, che diamine t’ha
preso, rimettimi seduto!”
Posso vedere. M’è dato, comunque, di
ammirare. Non m’è negato il dolce dello sguardo che accarezza il bello.
Abitassi a Quarto Oggiaro l’avrei già
fatta finita? Forse sì o forse no. Ci sarà almeno un albero, un giardino, un
fiore, un’ape, un tramonto decente a Quarto Oggiaro.
Ma un varesino non può finire nel lago
di Monate, sapendo che non può più nuotare.
Quell’acqua santa lo butterebbe fuori,
lo sputerebbe alla vita, ammonendolo per una fretta ingiustificata.
Sono qui, in carrozzina, solo. La mia
assistente è andata a bersi un caffè.
L’acqua s’allunga sino ad accarezzare
le ruote.
Avanti, indietro, avanti, indietro.
I miei occhi guardano e si convincono:
c’è tempo.
questo racconto è già apparso sulla rivista Menta e Rosmarino luglio 2012
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