mercoledì 15 giugno 2011

Il racconto del mercoledì

LA SCOPERTA DELLA FELICITA’

Sono vecchio. Quindi triste perché malmesso, dolorante, prossimo alla morte. Plutarco ci ha lasciato questa frase: “La morte di un giovane è un naufragio, quella di un vecchio è l’approdo in un porto quieto.” Non sono d’accordo. Almeno la mia vita non dice questo. Sono senza idee e senza progetti, eppure non voglio morire. E di quieto c’è solo, ai miei occhi, questo lago: sempre più vecchio e sporco d’alghe. Dai pori della sua buccia sfiata un odore cattivo. Eppure sono qui, seduto su un grosso masso, in località Schiranna. Davanti a me le cannette, sottili canne d’organo ritte al cielo. Non c’è brezza. Qui ho imparato a pescare. Avevo tredici anni, l’età delle prove: la pesca e le prime sigarette. Le rubavo a mio padre e me le fumavo in perfetta solitudine; un godimento puro quel silenzio e quel fumo. Presto ho imparato a non tossire, a ingoiare la nebbia calda, ad apprezzarne il sapore.

Oggi la Schiranna non mi interessa perché i miei occhi nuotano a pelo d’acqua e sono subito là, sulla riva opposta, fra le cannette di Galliate Lombardo. Dicono che ai vecchi viene il mal di collo a furia di guardarsi indietro. Non hanno ancora capito che i ricordi sono il ponte sul quale camminiamo, passo dopo passo, ponte che ci fa valicare il baratro di un futuro che non c’è più. Ponte che oggi mi conduce a Galliate, perché ho voglia di strappare un sorriso a queste mie labbra dritte e secche. Voglio ripensare alla storia dei gemelli Borri: Gionata (alto e secco), Paolo detto Pollo (più basso e robusto). Gionata più riflessivo, Pollo più ruspante. Si rassomigliavano nel rendimento scolastico (non buono per entrambi) e per la maestria nella pesca. Si muovevano con canna, filo, ami, galleggianti, esche come farebbe un giocoliere con i suoi attrezzi. E lo facevano fra cannetta e cannetta, evitando pozze e fango. Mai che l’amo si impigliasse nella vegetazione, che si ingarbugliasse la lenza, che dovessero imprecare alla perdita di tempo, dovuta agli incidenti che tanto deprimono il pescatore, soprattutto se accanto a lui –intento a riparare la lenza- un altro butta pesci nel cestino. Sapevo che i gemelli mi invitavano nella loro fattoria di Galliate, mi invogliavano a fare con loro una battuta di pesca anche per vendicarsi delle frustrazioni patite a scuola. Però ci andavo volentieri. In bici, la canna legata alla canna, il cestino a tracolla, euforico per la visione di pesche miracolose, in discesa giù per il muro di Cartabbia e poi il piano, sino a Galliate. Sapevo che il ritorno sarebbe stato penoso: cestino semivuoto e quella salita, a rendere ancor più infuocata la sconfitta. Lo sapevo e lo dimenticavo, testardo nell’ottimismo come la morte, odiosamente ripetitiva. Ma quel giorno, quell’afoso mercoledì pomeriggio, ventidue maggio millenovecentosessantanove, le cose andarono diversamente. Per fortuna esistono certe giornate: rendono giustizia alla tristezza, che non risparmia neppure i ragazzi.

Tutto come sempre: i due Borri scovavano inattesi e pescosi anfratti fra le canne, evitando il fango più alto. “Tel chì, l’è n’altar gubìn…sa l’è bell!” diceva Gionata. “Il solit culatùn” diceva il Pollo. “Ma specia ‘n mument…dasi dasi….senza pressa….e mo’ tira su….tela chi ‘na bela scardula…” Ed io, a qualche metro di distanza, finito nella mota, punto da tafani e zanzare, con due lenze regalate al lago, a dire: “Bravi….siete bravi…per forza, è casa vostra…” ma il pensiero era già oltre. Avevo scovato una radura che giudicavo promettente.

“Non andare di là… sabbie mobili” mi urlò sulla schiena Pollo, ma feci finta di non sentire. Arrivai, cagnotti sull’amo, due, uno trafitto da capo a coda, a coprire tutto il metallo, e l’altro a penzolare, preso per il collo, affinché si muovesse in acqua e attirasse la preda. Poi la premonizione. Ma con un amo così piccolo e un filo così debole, se abbocca un luccio spacca tutto. Così feci per una volta ciò che non facevo mai: rischiare. Persi dell’altro tempo cambiando filo, amo, galleggiante, esca, un lombrico succoso che imprecava alle punture dell’amo attorcigliandosi. Poi il lancio e l’attesa, mentre i due fratelli seguitavano a scambiarsi frasi nel dialetto di Galliate. Verso le quattro il mio galleggiante partì come un siluro. Feci ciò che un pescatore non dovrebbe mai fare, tirare subito con forza, vinto dall’euforia della cattura. Lì ci vuole quiete e pazienza, sangue freddo e un bel respiro. Quello strattone fu la mia fortuna: se il persico trota (meglio noto come boccalone) fosse riuscito a inabissarsi e a nascondersi in mezzo alle canne, da lì non lo tiravo fuori più. Invece riuscii a bloccarne la fuga, l’amo fortunatamente trovò appiglio nella grossa bocca del pesce, che iniziò la danza della morte, un agitarsi doloroso che un pescatore, crudelissimo, traduce come estasi da conquista.

Non urlai. Mi trattenni, incredulo e voglioso di non far sapere nulla ai due, che sarebbero accorsi aiutandomi nel recupero della bestia e portando a casa un po’ di vittoria. Silenzio, solo gli schiaffi che il persico dava all’acqua del suo lago traditore.

I Borri sentirono quel tramestìo, pensarono al mio solito impaccio, dissero uno svogliato: “Ora veniamo…” e si prepararono a porre rimedio alla mia inesperienza.

Mi trovarono ritto in piedi, la canna nella mano sinistra, il filo nella destra e sotto la mano l’enorme pesce; sfinito, dava gli ultimi colpi di vita, salutando con la pinna caudale.

“Bestia, che bucalùn!” fu l’esclamazione del Pollo.

‘Bestia, come sono felice’ fu il mio pensiero gaudente.

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