sabato 17 novembre 2012

Quel giorno che tremò la notte 31-2



TRENTUNO  due

Roberta era bella. I segni del terremoto sulla sua pelle erano scomparsi. Solo piccoli graffi sulle guance, un occhio leggermente gonfio; la pelle aveva ritrovato la sua giovinezza. Le braccia si distendevano fuori dal lenzuolo, parallele al corpo. Nel suo sonno senza risveglio dava l’impressione di sorridere ad un sogno piacevole. Don Marco si avvicinò al letto, le sfiorò la mano, le accarezzò la fronte, spostò i capelli che si erano abbassati e lambivano le sopracciglia. Allontanò la tentazione di darle un bacio sulla guancia, le prese la mano destra e pregò per la sua guarigione. Tese il lenzuolo in alto, accomodò la rivoltina, la chiamò a voce bassa, temendo di essere sorpreso, benché sapesse che erano rimasti solo gli infermieri di turno. Pensò che avrebbe potuto avere una figlia di quell’età, che forse sarebbe stato un buon padre, anche migliore del padre spirituale che era stato sino a quel momento. Provò nostalgia per ciò che aveva perso,  disagio per aver fallito la scelta di una vita.
Si mise a camminare lentamente intorno al letto, con le mani dietro la schiena, gli venne in mente don Abbondio in cammino, prima dell’incontro frutto di tribolazione; quel prete senza coraggio lo rappresentava troppo bene, provò disgusto ma era costretto ad accettare il verdetto della sua coscienza. Procedeva a piccoli passi, con una lentezza esasperante, aveva tutta una notte e di preghiere ne avrebbe recitate sino alla nausea.
Era circondato da sottili rumori che non gli davano fastidio, altra era l’origine della sua ansia, non forte ma costante, un cuore che correva e che lo obbligava a respiri mozzati. Campanelli che suonavano raramente, lamenti di malati e le ricorrenti frasi delle infermiere, abituate alla pazienza, a digerire l’altrui sofferenza come un pasto leggero, per non farsi ferire dal dolore. In quell’ospedale i locali erano puliti, asettici, per far indossare al male un abito decoroso. 
Gli salì dal profondo un atroce verdetto: era tutto inutile, la sua preghiera, il suo sacrificio in quella camera, l’esistenza, perché se anche Roberta si fosse risvegliata, fosse stata capace di dimenticare e di vivere sino a novant’anni, alla fine sarebbe morta seguendo il destino di tutti. Un fiotto amaro di disillusione lo obbligò a sedersi, cercò di scacciarlo subito, sentì l’ansia montare. Ora sulla poltrona riprese fiato, un poltrona dal cuscino troppo duro, scomoda. Dava le spalle alla finestra, davanti a lui il letto, oltre il letto la parete, imbiancata di recente, spoglia, due quadri e un crocifisso, sottile, di metallo, con un Cristo stilizzato. Più che quadri erano due poster con grandi fotografie di paesaggi, montagne, probabilmente dolomiti, e mare, un’alba o un tramonto con un sole enorme, di un arancione innaturale.
Guardò il crocifisso, si distrasse perché osservò Roberta e pensò che quei due ragazzi probabilmente stavano facendo l’amore quando la notte si era messa a tremare e il soffitto li aveva travolti abbracciati. E lui l’amore non l’aveva fatto mai. ‘Ma che pensi?’ si disse e cercò di scacciare quella mancanza come doveva allontanare ancora quel senso di vuoto esistenziale, ma non ci riuscì e pensò che ne aveva il diritto, almeno di pensare a ciò che voleva e non era colpa sua se nella mente si formavano quelle immagini. Né era colpa sua se l’istinto gli ribolliva dentro, nonostante il suo voto rinnovato di castità, tante buone intenzioni e preghiere, sempre preghiere ad un Dio sordo e muto, ad un Dio di sole pretese.
Guardò l’orologio, stretto al polso destro. Erano le ventitré e quindici. L’impianto dell’aria condizionata era in riparazione, faceva caldo. L’alta temperatura dilatava le vene, slacciò il cinturino che gli aveva lasciato un segno sulla pelle. Si asciugò il sudore dal polso, stirò i peli verso il basso, mise l’orologio nella tasca dei pantaloni. Gli dava fastidio tutto, il caldo, la pelle gonfia, la sofferenza quieta di Roberta, il suo futuro. Tornò al crocifisso alla ricerca di pace, di un senso. Sentì un pizzicore sul braccio sinistro. Guardò. Un ragno dalle lunghe zampe e dal piccolo corpo tondeggiante stava risalendo sopra di lui. Con un movimento schifato lo allontanò. La bestia finì a terra e cercò di scappare sotto il letto. Il prete la seguì nella sua disperazione, decise, allungò il piede e la schiacciò con rabbia. Si pentì quando vide l’animale muovere una zampa.
                                     31-2  continua

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