martedì 26 giugno 2012

Il racconto del mercoledì



IL PASSAGGIO

Il pelouche dell’infanzia cerca di liberarsi dalla morsa nervosa delle dita di lei, la sua padrona, che lo maltratta: piccolo candido pelouche dal nastrino rosso al collo, morbido e impotente oggi, che lei ha voluto con sé, davanti al suo primo esame di competenza scolastica. Annega, riemerge, gli schiaccia la pancia e lui gonfia il torace, gli strizza il collo, le piccole zampe d’orsetto  che accoglie con pazienza tutta quell’ansia da prestazione. Lo accarezza ma –inganno- un attimo appresso è soffocato, manomesso, solleticato.
Lei è una gran bella ragazza oggi, sulla via della completezza: onde lunghe di lisci capelli s’adagiano sugli scogli di spalle larghe, ha scelto un vestito da sportiva qual è, di alta statura, basse colline di seni primaverili, il dolce profilo del naso e due mani nervose. Le lunghe dita tastano la morbidezza del vecchio amico d’infanzia, soggiogato al suo potere di donna costretta a soffrire per dire parole imparate a memoria. Vorrebbe essere altrove, aver già scontato la pena, vorrebbe tacere e baciare il pelouche ma non è ancora il tempo: ora gli serve, antico regalo tornato utile dopo anni d’oblio. Stava uscendo di casa senza di lui, una pesante cartella di libri e quaderni, il desiderio di scappare lontano e un respiro d’affanno. L’ha visto, nell’ombra, fra polvere e bambole molli, l’ha accolto nella sua mano. Cascate di ricordi piacevoli, speranza che avrebbe ottenuto conforto dall’animaletto di pezza.
Siamo quasi alla fine ma lei non molla la presa, lo tormenta, lo molesta, lo stressa con il suo stress.
Ora abbassa le mani sotto la cattedra, le ginocchia pressano dita e pelouche, lei guarda i suoi giudici, no lui no, quel professore no, quella domanda no, non sa nulla, pocopoco, quasi niente. Vorrebbe pregare ma accartoccia l’orsetto, si sfila il nastrino dal collo, cade a terra con il tintinnio della campanella. Un trillo che non sfugge alla commissione d’esame. Ma fingono i prof. Sorride solo lei, la sua amata, che capisce ed è pronta ad un’altra domanda, per rincuorarla. Sa che la saprà. Ma l’altro incalza, gliel’ha giurata, all’esame all’esame vedrai, forse è solo la rabbia di essere vecchio, uno che ha dimenticato la morbidezza della gioventù.
“Bene, può andare?” chiede un docente.
“Per me sì” risponde il più innocuo, distante nel suo mondo.
Un susseguirsi di sì, va bene, sorrisi e “Un momento”. Tutto combacia, gliel’aveva promesso, ci rivedremo all’esame.  “Una sola domanda, mi piacerebbe che tu parlassi….”
Non la sa. E’ andata male. Ci sarebbe un pianto di rabbia sul limitare del suo sorriso falso, e fra le dita l’animaletto che geme, che soffre, che incassa. Che non regge più: la testa prende commiato dal resto del corpo.
Si aprono le sue mani, unite per tenerlo. Si scollano ed è un altro dolore, inatteso e profondo, più insopportabile di quella domanda dell’ultimo istante.  
“Allora, signorina…”
Si solleva la chiusa del pianto, singhiozza senza vergogna per quell’attestato di debolezza.
“Non fare così.” Il professore tiranno è pentito, è il primo ad accorrere, cerca di rimediare con fare paterno. “Se non la sai, amici come prima. Non è importante. Sei andata bene. Non piangere.”
“Non piango…”
“Non piangi?” domanda la sua professoressa del cuore.
“No, non piango per…”
“Per..?” ed è tutta un’attesa curiosa.
“ Non è la domanda…”
“Allora?”
“E’ morto il mio amico.”

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