martedì 7 febbraio 2012

Il racconto del mercoledì



Premessa: questo racconto brevissimo fa parte di una serie di racconti inediti, dove oggetti e sensazioni, sogni e visioni parlano in prima persona.
Questo raccontino potrebbe fare anche un po’ schifo (non per la qualità della scrittura, almeno spero non per quella, ma per certe immagini ‘crude’)




LA CACCOLA



Sono una càccola. Di per sé sarei una tipa timida. Anzi, lo sono. Non amo uscire di casa. Sto bene, riparata da peli e buie cavità. Madre natura mi ha fatto brutta, rinsecchita, senza beltà. Che dovrei mostrare al mondo? Così me ne sto rincantucciata. Caso mai, di quando in quando, faccio capolino e guardo di sotto, curiosa, affascinata nell’ammirare la sovrabbondanza di ciò che mi manca.
Eppure il dito mi fa la corte. Che avrò mai di interessante? Mi accarezza, ‘ravana’ nel buio, un poco mi stacca dalla parete contro la quale mi faccio piatta, cerco protuberanze per aggrapparmi ma non ho mani né braccia. Se solo mi accarezzasse. Il dito è prepotente, pare giocare con me, mi stuzzica, mi lusinga ma presto arriva il tempo della violenza. Così vengo strappata dalle mie radici. Non pago, forse per nascondermi da sguardi maliziosi e accusatori, irriverenti e sfottenti, il dito (spesso il più intraprendente è l’indice) chiama il pollice e insieme mi schiacciano, mi lavorano, mi stendono come fossi pastafrolla. Ridotta a pallina finisco a terra, o dentro un fazzoletto che funge da sudario per la mia morte. Mai che mi riportino a casa. Voi non ci crederete, ma fuori dalla mia caverna divento rossa. So che non si capisce. Rossa perché timida, rossa perché, francamente, mi vergogno di quel dito manesco che è anche parte di una mano, di un braccio, di un corpo che comprende testa e cervello, ignaro (il cervello) che esiste un galateo da rispettare, figuracce da evitare e càccole che vanno lasciate al buio, nell’ombra, scarti indegni di vedere la luce, che non amano nessun dito, autosufficienti, eppure felici della loro minima, inconsistente vita reclusa.

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