mercoledì 21 settembre 2011

IL RACCONTO DEL MERCOLEDI'

LA CROCE

Siedo di fronte a mio padre. E’ sdraiato a letto, compirà novant’anni fra tre giorni, sopra di lui un crocifisso. Osservo la croce e faccio due conti. L’hanno comperata, lui e mia madre, più di sessant’anni fa in un negozietto della Val Gardena. Non ero ancora nato ma l’acquisto è stato motivo di molte narrazioni quando, ragazzi, sedevamo intorno allo stesso tavolo. Ascoltata due o tre volte questa storia del crocifisso noi avremmo voluto alzarci da tavola, passare ai giochi, sapevamo la trama: mia mamma avrebbe preferito appendere sopra il letto di giovane sposa una Sacra Famiglia e mio padre una croce. Il compromesso era stato raggiunto: la Sacra Famiglia sopra la testa di mia madre, la croce sopra il cuscino di mio padre

Guardo il muro (che avrebbe bisogno di una rinfrescata), della Sacra Famiglia si nota solo la traccia lasciata dalla luce, il contorno di quel quadro che mio padre ha riposto non so dove dopo la morte di mia madre.

Resta la croce.

Non ho mai saputo perché il mio vecchio preferisse già così giovane quei due legni incrociati, con il Cristo gardenese che pende in avanti, perfetto nelle proporzioni, un drappo a coprire il sesso, gli occhi chiusi, nessuna smorfia sul volto. Il loro ripetuto racconto si fermava in superficie. Oggi, se non avesse l’influenza, glielo chiederei. E molto altro domanderei a mio padre ma forse una cosa su tutte, che non è una domanda ma un imperativo: insegnami a morire.

Lo osservo, respira a fatica ma è solo influenza, il medico dice che non c’è pericolo, l’uomo che mi generò porta nei cromosomi la preziosa eredità di una salute che gli invidio. Non è certo in pericolo di vita ma è cotto dalla febbre e non posso domandargli perché mi ha messo al mondo, costringendomi a morire. Perché il venire al mondo non è il nostro problema; il vero problema è come lasciarla questa sfera, gomitolo di dolore.

Apre gli occhi, sorride, tossisce, vuole la mia mano, scotta, la sua mano destra è gonfia, pare un tizzone che arde.

Và a ca’” mi dice, poi zoppica in altra tosse, non riesce a continuare, mi butta in faccia un mezzo sorriso e socchiude gli occhi.

“C’è tempo” gli rispondo e capisco di volergli bene. Mi fanno pena i suoi pensieri, ad altro non può pensare un uomo della sua età: è qua. E forse riflette su un desiderio che oggi è il mio: ‘Devo sapergli regalare questa certezza. L’ho costretto a vivere, oggi gli dimostro che si può uscire con dignità, soffrendo senza soccombere all’angoscia del nulla.’

La vita è questo quotidiano adattarsi alla morte. E il non pensarci è la sola formula vincente. Ma quando si avvicina e ci presenta il foglio di via, che attesta la nostra resa, fingere di non vederla non è distrazione da uomini.

Perché il mio vecchietto scelse la croce? Per furbizia? Per saggezza? Aveva inteso che era meglio partire per tempo?

Go cald…damm ‘na gota d’aqua…”

S’è svegliato di nuovo.

“Tieni” e gli porgo il bicchiere, lo reggo per la nuca, lui sorseggia, tossisce. Gli tocco la fronte. Brucia. Gli porgo un panno umido, che se lo tenga in testa, temo che gli vada arrosto il cervello.

Lasa perd…al servìss a nagòtt

“Vedi tu” ma forse dovrei essere più impositivo, obbligarlo nonostante il medico minimizzi. Ma a dispetto dell’età difende la totale autonomia. Non vuole dar peso ai suoi figli. Sa di averci già messo sul groppone un macigno. Basta quello. Ma il peso non è quel reggergli il capo e bagnargli le labbra; pesa che lui è solo un anticipo del nostro destino. Una prova.

Prende fiato, raccoglie ciò che resta dell’aria che hanno pensato per lui; la ricaccia di fuori, tramutata in un lungo sospiro che racconta di risposte impossibili: “Se te vöratt fa cusè.”

Lo guardò e sorrido: “Già…”

“A cosa pensi?” mi chiede pochi secondi dopo che la pendola ha battuto i dodici colpi del mezzogiorno e sto pensando che forse è davvero tempo che vada.

A cosa pensi? Domanda inattesa posta da lui, tanto rispettoso dei nostri pensieri da sembrare distratto. Glielo dico? Mi confido? E perché me lo chiede? Mi sono tradito?

“A niente” e subito mi vergogno di quella menzogna.

Balòss” fa lui. “Vieni qua” e allunga le braccia.

Mi piego in avanti, lui alza le braccia e sfiora la croce, che sobbalza sul chiodo e finisce sul letto.

Ta vöri ben.” Vorrebbe piangere ma si trattiene. Un padre non piange davanti ad un figlio. Non lo può spaventare.

Un padre è un eroe.


in foto: crocifisso al Passo Pordoi

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