mercoledì 31 agosto 2011
Speriamo
Il racconto del mercoledì
FANGO
La Valle Venosta è tagliata dal vento e dall’Adige. L’aria e l’acqua fanno bene alle mele, che colorano il verde e danno ricchezza a quelle terre del nord. L’Adige è poco più di un rigagnolo a Prato allo Stelvio, ma cresce alla svelta scivolando verso Merano, come un bambino che ha premura di farsi grande. Dall’alto del lago di Resia la valle, terra di alpini, s’allarga spinta ai fianchi dal vento quieto o violento nei giorni d’umore cattivo.
La Valle Venosta è parte della valle di lacrime, conosce il dolore; ne assaporò il gusto rancido la primavera di qualche anno fa.
Domenica
Francesco, contadino, benché fosse domenica andò a controllare il suo vasto meleto. Era il tempo dei fiori, che parlano ai frutti come l’oggi al domani. Passò di pianta in pianta, di filare in filare e s’affacciò sulla scarpata che finiva nell’Adige, parte del suo argine, una riva scoscesa in quel tratto. Soddisfatto del suo lavoro, letto nell’abbondanza dei fiori, pensò di rientrare: aveva freddo. E al freddo s’aggiunse un pensiero disturbante: il Consorzio gli aveva garantito l’intervento riparatore sul suo impianto d’irrigazione; da tempo perdeva un più punti, era un inutile spreco d’acqua. Allontanò la rabbia pensando che la sua valle di acqua ne aveva in abbondanza. Non lo vedeva da quel punto della sua tenuta ma l’Adige aveva fattezze di fiume, lì sotto, ai piedi del baratro.
Lunedì mattina – Silandro
Michaela studiava a Merano, e con lei Franz e Judith. Judith era la sua amica più intima, ultimi giorni di quel rapporto privilegiato perché era arrivato, nel cuore di Michaela, Franz di Malles Venosta.
‘Se me lo chiede me ne sbatto…’ pensò Michaela. E Franz glielo chiese subito, mentre Judith sedeva su una panchina della stazione ferroviaria di Silandro, fumando la prima sigaretta della settimana, le sole boccate di gioia in quel lunedì fatto di sbadigli e di voglia di tornare nel letto.
“Allora?” disse Franz a Michaela.
“Allora che?” chiese la ragazza facendo la tonta.
“Io bigio” disse lui, spavaldo.
“Cazzo, ho paura” disse lei, facendo la preziosa.
Judith fumava a pochi metri da loro, guardava i piedi e il fumo che saliva, i pendolari del treno e osservava la sua amica andarsene, forse per sempre, con quel cesso di Franz, nato e cresciuto a Malles Venosta, il paese della caserma alpina Sigfrido Wackernell.
“Aspetta” disse Michaela, e andò a sedersi a fianco dell’amica.
“Bigio…” ma non si capiva se era una domanda o un’affermazione.
Judith la prese come una domanda: “Fai quel cazzo che vuoi!”
“Ma che hai?” disse.
“Niente” disse Judith.
“Allora io non vengo. Dì ai prof che sono malata, ho il mal di pancia…vedi tu, va sempre bene.”
Judith non rispose, mosse il capo e probabilmente era un sì, finì la sigaretta, buttò il filtro per terra, lo schiacciò, guardò l’orologio della stazione e si alzò come dovesse sollevare tutta la noia dell’universo.
Il treno da Malles era già arrivato, sostava qualche minuto a Silandro e poi giù, verso Merano, seguendo la direzione del vento e del fiume.
“Ma dove andiamo se piove?” chiese Michaela al suo ragazzo.
“In un bar…a Glorenza.”
“Decidi tu.”
“Decido io, okey.”
***
Il treno si mosse. Un trenino di poche carrozze, senza i fili della corrente come capelli sopra il cranio di latta. Era un treno a combustibile fossile, e sopra la testa i tubi di scappamento e un tossicchiare verso la valle come fosse un ciemme, il camion medio usato dagli alpini per il trasporto delle truppe.
Il treno partì da Silandro. Judith s’era seduta in testa, sulla prima carrozza. Primo divano della prima carrozza, con le spalle rivolte a Merano. Al suo fianco una ragazza che conosceva di vista, davanti a lei Regina e Rosina, due sue amiche più giovani.
Judith s’era seduta lì perché era un vagone fumatori, non per incontrare qualcuno. Voleva star sola. Era incazzata e assonnata. Avrebbe pianto come i vetri, lacrime di pioggia che scivolavano dal tetto ai finestrini alle pareti alle ruote ai binari, o gocciolavano sopra i sassi della massicciata.
Accese la seconda sigaretta, promettendo a se stessa che sarebbe stata l’ultima prima dell’inizio delle lezioni.
***
Franz, diciott’anni da poco compiuti, s’era fatto prestare dal padre un’auto di terza mano, una Fiat Panda vecchio modello, una Panda quattro per quattro, tutte le ruote motrici per correre sulle molte salite della Valle Venosta. Franz in principio non aveva pensato ai bar di Glorenza. Meglio all’aperto con Michaela, lungo l’Adige o su verso Slingia o sul monte Watles ancora innevato. Aveva sperato nel sole, ma ora la pioggia li costringeva a starsene al chiuso.
“Dove mi porti?”
“Da Thobias?”
“Da Thobias…va bene.”
Michaela non era eccitata come avrebbe sperato. Aveva freddo anche in auto. “Ma è acceso il riscaldamento?”
“Ci mette un po’ a sentirsi. Hai freddo?”
“Sì.”
Aveva freddo e pensava a Judith. Non aveva mai bigiato. Guardò alla sua destra, le gocce aggrappate al finestrino in prese scivolose, di poca durata. Guardò i capelli di Franz, biondi, corti, un taglio da nazi. I tergicristalli passavano sul parabrezza con manate violente, il vetro si stava appannando.
“Com’è che si appanna?” chiese a Franz. “Come fai a vedere.”
“Ci vedo…comunque tieni” e le passò uno straccio. “Pulisci.”
Le parve un ordine troppo invadente e confidenziale. Perentorio. Si sentì in colpa.
***
Judith fece pochi tiri di sigaretta. Capì che si stava addormentando, il treno le cantava la ninnananna. La spense e si appoggiò al finestrino. Era gelato, si sfilò la sciarpa e la mise a cuscino fra il vetro e la testa. S’addormentò. Un sonno brevissimo, svegliato da un rumore impressionante, come un rutto di tuono che incute terrore a tutta una valle. Judith si svegliò che il treno si stava già inclinando mentre un tronco di melo, mandato in frantumi il finestrino, s’abbatteva su Regina e Rosina. Ma questo Judith non lo vide, finita a terra dopo aver preso un gran colpo alla schiena contro la ragazza che le sedeva di fianco e il bracciolo di legno. Non vide Regina e Rosina schiacciate dal tronco, vide nell’atroce dormiveglia i sassi e il fango entrare dalla breccia senza più vetro. Cercò di rialzarsi ma una grossa pietra la ributtò a terra, semicosciente. Sentì un gran freddo, un dolore potente sul volto e l’abbraccio mortale del fango, che la sommerse. Cercò riparo, avrebbe voluto portare le braccia davanti al volto ma non si muovevano, imprigionate dalla frana. Chiuse la bocca, già piena di fango. La riaprì, invocando aria che non poteva trovare dentro quella carrozza, sommersa dal fango e da fiori di melo, tomba per Judith, per Regina, Rosina e per l’altra ragazza, che Judith conosceva di vista. Veniva da San Valentino alla Mutta.
***
Le notizie girano lente o veloci, come lava o come l’acqua impazzita di un’alluvione, entrano nei luoghi e nelle persone con sussurri o con prepotenza, reclamando l’attenzione che meritano. La sciagura del treno diretto a Merano, travolto da una frana causata dalla pioggia e dal difettoso impianto d’irrigazione del contadino Francesco, giunse adagio adagio a Michaela, come un pugno a sua madre, la prosperosa Karol.
Michaela lo seppe perché da Thobias ad un certo momento arrivò un tale che sembrava ubriaco già di primo mattino: per questo in principio non fu preso sul serio. Straparlava di una disgrazia giù, sulla ferrovia, sicuramente con morti e feriti.
“Ma che cazzo sta dicendo quel tipo?” chiese Michaela a Franz.
“E tu ci credi?” disse Franz.
“E se fosse vero? Perché dovrebbe inventarsela…”
Karol era al lavoro, ricevette una chiamata al cellulare, che era acceso per dimenticanza, vigendo il divieto dell’uso del telefonino. Così seppe del treno e della frana. Uscì di corsa, cercò riparo sotto una pensilina, chiamò la figlia Michaela. Il fatto che quella ragazza non rispondesse mai al cellulare era il solo motivo di speranza. Ma Michaela rispose. Non avrebbe certo parlato a sua madre se non avesse sentito l’ubriaco del bar esprimersi ora con voce convinta; giurava che non aveva bevuto nemmeno un analcolico, spergiurava che quel treno, cazzo, era deragliato davvero, con morti e feriti veri, laggiù, lungo la sponda dell’Adige, poco dopo Silandro.
“Michaela…Michaela…”
La ragazza rispose.
Karol urlava, piangeva di gioia e picchiava i piedi per terra, dentro una pozzanghera. Già qualcuno si era avvicinato e la tranquillizzava.
“Sono io, mamma…ci sono…calmati, sto bene….”
***
Elisabeth, la mamma di Judith, era in auto, diretta per lavoro al Passo di Resia. Sentì la notizia alla radio. Fermò l’auto sul ciglio della strada. Di fronte a lei, a qualche chilometro, il passo. Alla sua sinistra il lago di Resia, con il campanile del vecchio paese che affiorava dall’acqua, immagine di calamità e di attrazione turistica.
Chiamò al cellulare la figlia. Il telefono si limitava a suonare. Cominciò a piangere. Spense la radio e con calma scese dall’auto. Con una ventata di rabbia feroce richiuse la portiera. Attraversò la strada e si affacciò sul lago.
Chiamò di nuovo la figlia, seduta sul guard-rail. Occupato? Dava occupato? Sì, mio Dio, è occupato, sta parlando, è viva. Attese e la pioggia, ora, non la sentiva nemmeno. L’ansia le rubava il respiro, il cuore a mille, le mani gelate. Faticò a schiacciare il solo tasto che le serviva per mettersi in contatto con lei. Solo la mitragliata dei tututututu…Provò, riprovò…ancora silenzio.
Si mise seduta nel fango, la schiena appoggiata al guard-rail. Passavano le auto alla svelta, solo una rallentò e ripartì senza il coraggio di fermarsi, di scendere, di chiedere. Ma Elisabeth aveva solo bisogno di sua figlia.
Il dolore la annichiliva. E pensare che Judith non era certo la ragazza che rispondeva alle chiamate dei genitori. Ma sua madre, disperata, la vedeva già morta. Eppure continuò Elisabeth a schiacciare quel tasto, a ripassare la vita di Judith, la loro vita insieme: il bene e il male, il bello e il brutto, gli abbracci, i baci, l’odio e i litigi. Sarebbe stato tutto nuovo ora, incredibilmente affascinante. Bastava un cenno di voce dentro quel cellulare.
Se la strinse addosso con il pensiero. Chiuse gli occhi e baciò quel fantasma. Poi provò ancora e ancora e ancora a chiamarla, più a sud, dove l’Adige alza la voce e pretende di essere fiume.
martedì 30 agosto 2011
L'Idrolitina
Lettera ai giovani
Quanta sete
lunedì 29 agosto 2011
L'arte della lamentazione
L’ARTE DELLA LAMENTAZIONE
Facebook sta amplificando ciò che già si sapeva: siamo maestri nell’arte della lamentazione. Faccio parte dei milioni di utenti del ‘giocattolino di Mark’ e noto la tendenza. Quando faceva freddo e pioveva a luglio, gocciolavano dal cielo informatico grandinate di lamenti e di proteste, con relativa promessa: ‘Non oserò mai più lamentarmi, quando farà finalmente caldo!’ Poi, dopo ferragosto, è arrivato l’anticiclone africano, la bollente brezza sahariana, l’afa umidiccia e, finalmente, abbiamo potuto indossare canotta e pantaloni corti. Ma ben pochi hanno mantenuto le promesse, ed ecco nuovi lamenti, puntualmente registrati da facebook con piagnucolosi rimbrotti al Padre Eterno, evocazioni di tempi più lieti, speranze in un futuro piovoso, rinfrescante, bisognoso di maglioni. Si tenga conto che a lamentarsi su facebook non sono certo gli anziani, coloro che più di tutti malsopportano la grande afa di questi giorni; al limite loro avrebbero qualche ragione, ma non usano il social network e si lamentano per altre vie. No, no, qui a prendersela col meteo infame sono i giovani e gli adulti non oltre i sessanta. Si dirà: ma il lamento è la miccia di ogni rivoluzione, è il prologo della rivolta. Chi tutto sopporta con pazienza è ‘vecchio’ e non rinnova. C’è del vero, ma qui parliamo di lamentazioni sterili, inconcludenti, proteste senza proposte costruttive, esternazioni che forse regalano qualche secondo di ‘rinfrescante’ condivisione di una noia, ma non buttano addosso secchiate d’acqua, né rannuvolano il cielo piatto. Dunque? Sopportiamo con pazienza. Anzi, sfruttiamo ogni virgola di questa condizione premonsonica, consapevoli che basteranno un paio di temporali e sarà subito autunno. Arriveranno castagne, foglie secche, policromie e immancabili lamentazioni stagionali.
La Provincia di Varese domenica 28 agosto 2011
in foto: la rinfrescante immagine del nevaio del Monte Leone
Come una cerva
domenica 28 agosto 2011
La passeggiata della domenica: Alpe Veglia-Lago Bianco
Alpe Veglia-Lago Bianco
Alpe Veglia-Lago Bianco
sabato 27 agosto 2011
Mari e Pietro

Un bel regalo
I monti pallidi
Unità
Immacolata
venerdì 26 agosto 2011
Con l'amico Elio, grande ciclista
Un fresco buon giorno
giovedì 25 agosto 2011
Amore di gioventù
Fuga da New York

Fare piazza pulita
Come Coppi e Bartali
mercoledì 24 agosto 2011
Gioia e dolore
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IL RACCONTO DEL MERCOLEDI'
Il soffio del desiderio
C’era una volta, e c’è tutti gli anni, il dieci di agosto, San Lorenzo, la notte delle stelle cadenti. Ci sono un padre e suo figlio. Il padre ha un desiderio e sa che può spenderlo bene, perché la notte di San Lorenzo è la notte dei desideri realizzati: il desidero è quello di regalare stupore al proprio bambino.
Anche il figlio ha un desiderio, anzi tanti, o forse nemmeno uno: è annoiato. Già, dimenticavo i nomi: il padre si chiama Claudio, il figlio Mattia.
Papà Claudio vorrebbe fare una proposta al figlio ma senza innervosirlo, perché da qualche tempo Mattia è spinoso come un carciofo.
Claudio si butta: “Mattia, perché non usciamo a vedere le stelle cadenti?”
“Stelle cadenti?”
“Sì, al parco.”
Mattia ci pensa. Ha in mano il cellulare, sta mandando un essemmesse. Pensa poco e dice subito: “Non ho voglia.”
“Dai” insiste papà Claudio.
“Ufff” risponde Mattia. “E poi guardare le stelle mi fa venire il torcicollo.”
“Ma io ti insegno come fare per evitarlo.”
“Come?
“Se vieni te lo spiego.”
Mattia ha dentro il nervoso da ragazzino svogliato. Accende la tele.
“Ma che fai?” dice il padre.
“Guardo la tele.”
“Non vieni?”
“Aspetta…forse c’è…”
“Che cosa?”
“Uffa…è già finito…”
“Dai, andiamo.”
Mattia si alza come fosse un elefante, adagio, pesante. “Però se mi scoccio torno a casa.”
“Certo” promette papà Claudio.
Escono. Fa caldo, siamo nel cuore dell’estate. Claudio alza gli occhi al cielo e manda un piccolo mugugno.
“Cos’hai visto?” chiede Mattia.
“Niente” risponde suo papà.
E allora guarda anche lui, vede piccole luci lontane, e subito il male al collo. Sbuffa.
I due entrano nel parco pubblico, poche centinaia di metri da casa loro. C’è gente, la notte è rumorosa per le voci che si rincorrono, il buio non fa paura. Claudio e Mattia salgono in cima alla collinetta del parco. “Speriamo non ci sia gente quassù” dice Claudio “ma sarà dura, tutti vogliono andare in alto.” E invece sono soli. Strano. Ecco un tavolo e due panchine.
“Bene” dice Claudio. “Ora ti faccio vedere” e si sdraia sul tavolo, a pancia in su. “Così niente mal di collo.”
“Bella forza” dice Mattia, che non può nascondere la sorpresa. La soluzione era facile ma non ci aveva pensato.
“Vieni, ci stai anche tu” dice Claudio.
Mattia si sdraia e proprio in quel mentre arriva una coppietta. Lui dice a lei, con disappunto: “E’ già occupato.” E lei: “Peccato!” Se ne vanno.
Mattia è felice per quel tavolo tutto per loro.
Claudio no, ora può spiegare al figlio il perché del mugugno di prima: “Che sfortuna, stanno arrivando le nuvole.”
Ora le vede anche Mattia, bianche, sottili, veloci. La luna piena le illumina, ma la più villana delle nuvole copre la luna, il buio sommerge il parco pubblico e i tanti visitatori, arrivati apposta per gustarsi le stelle cadenti, annegate ora nella nebbia.
“E se soffiassimo contro le nuvole?” propone Mattia.
Claudio resta stupefatto per quell’idea elementare, fantastica, fantasiosa, meravigliosamente irrealizzabile. “Perché no?”
“Dai, insieme” dice Mattia e dà il buon esempio, prende fiato, pompa la gabbia toracica, gonfia le guance e soffia il suo fiato caldo contro il cielo nero.
“insieme” dice il padre, e cercano di coordinare il tempo dell’espulsione dell’aria.
Incuriosita da quel rumore, la coppietta torna sui suoi passi, vede i due che soffiano e fa lo stesso. Con sorpresa i quattro notano che il loro fiato fa ondeggiare le punte dei pini. Questo li incoraggia, li invoglia a continuare.
“Dai, più forte, più fiato” dice papà Claudio, con voce eccitata.
“Mi gira un po’ la testa” dice Mattia.
“Allora fermati un attimo, riposa, continuiamo noi” dice Claudio.
“Siamo troppo pochi” dice la signorina al suo ragazzo.
“Hai ragione” e allora lui si affaccia verso il grande prato del parco e urla: “Perché non soffiate tutti con noi?” Lo grida al buio e a quelle piccole luci, sono le torce a batteria di chi è venuto a vedere le stelle cadenti e ora se ne sta andando deluso. Le lucine si fermano, disegnano ghirigori nella notte, puntano verso il cielo. E poi è tutto un rincorrersi di ‘sì, soffiamo, tutti insieme, mandiamo via le nuvole dispettose’.
Ora il vento caldo che esce dalle tante bocche fa rumore, come per una tempesta. I pipistrelli fanno planare i loro voli, si aggrappano agli alberi e cominciano a soffiare. Lo stesso fanno i dieci gatti che stazionano d’abitudine nel parco, i cani giunti sin lì al guinzaglio dei loro padroni, i topi campagnoli, molti insetti notturni e persino alcune lucciole, che non si vedevano da tempo in quell’area verde della città.
Si sa che le cicale cantano di giorno e dormono la notte. Svegliate dal soffio potente degli umani curiosi, mutano il canto in piccoli rivoli di fiato, che si uniscono al tutto, piccole gocce in quel mare d’aria diretto vorticosamente al cielo.
Il rumore richiama passanti lungo il viale, corrono preoccupati a vedere, capiscono e si aggregano senza far troppe domande.
“Ecco, guarda ora” dice Claudio al ragazzo. Ha interrotto il suo lavoro, ha fatto uscire da un piccolo zaino un binocolo, che allunga a Mattia. “Guarda con questo.”
“Come si fa?” chiede Mattia. Non l’ha mai usato.
Ci mette del tempo, ma alla fine riesce a fare di due un’immagine sola, punta dritto sopra il tavolo e vede un grande buco nelle nuvole. S’allarga, scavato dal soffio poderoso di uomini e bestie.
“Che vedi?” chiede suo padre.
“Le stelle” risponde Mattia.
“Il desiderio..ricordati il desiderio…aspetta…pazienza.”
Il foro si dilata, più s’allarga più i soffiatori insistono, e fra questi il più scalmanato e proprio suo padre. Così Mattia può vedere un tondo di cielo sempre più sgombro di nubi, può contare sempre più luci. Che, però, non cadono affatto. Piccoli fori d’oro che vanno e che vengono ma nessun bagliore di stella che lascia la scia dietro di sé. E sta per protestare ma si trattiene, pensa al desiderio, le braccia si fanno pesanti in quella posizione, sta per cedere. Ma ecco la coda luminosa, il graffio nel buio, il pianto dorato del cielo.
“L’ho vista, l’ho vista” urla felice Mattia.
“Bravo” dice Claudio. “E il desiderio?”
Mattia passa il binocolo al babbo, sorride, fa il prezioso, indugia.
“Ho capito, ho capito…”dice Claudio, appagato.
E aveva capito bene: c’entrava proprio Rossella.
martedì 23 agosto 2011
Lago Maggiore: stupendo e maligno
LAGO MAGGIORE: STUPENDO E MALIGNO
L’estate sta finendo. Se c’è un bilancio negativo, pensando al turismo nella nostra terra dei laghi, è quello relativo ai morti per annegamento. Anche in questo 2011 non è mancato chi ha concluso tragicamente la propria vita nell’acqua. Il lago Maggiore si è confermato bacino tanto ammaliante quanto maligno. Le sue acque invitano alla nuotata, ma sia la profondità che la temperatura dell’acqua possono essere fatali. Lo so per esperienza, nel senso che pur con il dovuto allenamento, e dotato di muta da triathlon, ho constatato che l’acqua del Verbano è fredda anche a luglio e ad agosto, e che onde in apparenza risibili possono dare molto fastidio. Il dolce lago di Chiara e di Sereni, che quest’estate ho attraversato per la prima volta sopra una barca a vela, non perdona chi lo affronta da dilettante. Solo un paio di volte (ed ero ottimamente allenato) ho deciso di affrontare una nuotata di una certa distanza nel lago Maggiore. Della prima ho un ottimo ricordo, quando con l’amico Giovanni Montini (l’ironman di Barasso) ho costeggiato il tratto da Reno di Leggiuno all’eremo di Santa Caterina del Sasso; svoltato il promontorio, con basse onde che cozzavano contro la roccia, mi è apparso il monastero come un miraggio. Bellissimo. Non positivo è invece il ricordo di quando ho tentato la traversata Stresa-Reno, oltre 3 chilometri. ‘Se la porto a termine’ mi dicevo ‘potranno chiamarmi lo squalo del Verbano’. E invece mi sono ritrovato, goffa tinca dalla nuotata impacciata, a metà lago in preda ad una crisi di panico, che può cogliere anche nuotatori provetti (si pensi alla Pellegrini) e che non perdona, in caso di mancata assistenza. Nel mio caso l’assistenza era ottima e sono stato rimorchiato in barca, ma è stato un insegnamento che non dimenticherò mai più.
La Provincia di Varese domenica 21 agosto 2011
in foto: controluce al Sasso del Ferro e ai Pizzoni di Laveno
Scorta di foto
Qui non ho sbagliato
Salmi
Brava, Caterina
Auguri, Giancarla
lunedì 22 agosto 2011
Lodi
Con Marco e Luigi
Vacanze Shalom
Bianco Sciliar
