lunedì 12 novembre 2012

Quel giorno che tremò la notte 27



VENTISETTE

Il papà di Roberta si chiamava Rino, la mamma Rosalba. Quando si era trattato di trovare il nome giusto alla primogenita, avevano pensato -con scarsa fantasia e riducendo di molto il ventaglio di opportunità- di mantenere la erre come lettera iniziale. Da lì il nome Roberta, e Renata alla secondogenita. Una forma elementare per illudersi di essere una famiglia unita. Ma la fortuna o il caso o chissà che avevano voluto che quella famiglia crescesse davvero con un forte senso di appartenenza alla piccola comunità domestica, che andava avanti a litigi, silenzi ma più spesso sceglieva sentimenti positivi.
Rino, Rosalba e Renata erano arrivati in quell’ospedale dell’Aquila martedì sette aprile, quando ormai era buio. Il cellulare e i documenti di Roberta avevano reso il loro incontro il più veloce possibile. Da quattro giorni si alternavano, vegliando intorno al letto della figlia. I medici con i genitori non avevano nascosto il vero: era tutto possibile, il risveglio e la morte, la rinascita o la sconfitta definitiva. Sperare era il solo atteggiamento razionale. Si trattava comunque di coma vigile. “Stato vegetativo persistente” aveva chiarito il medico. “Abbiamo autonomia respiratoria e cardiocircolatoria, è lecito sperare.” Sconsigliavano il trasferimento in un altro nosocomio, la risalita verso Milano. Quel reparto di terapia intensiva poteva bastare. Comunque erano sempre liberi di firmare e di portare la ragazza più a nord. Roberta aveva bisogno di cure e di preghiere, di sentire parole affettuose e rassicuranti, ripetute con ostinazione, piangendo o ridendo. Per il momento, però, non dava cenni né di capire né di soffrire. La ragazza dormiva e si svegliava, apriva e chiudeva gli occhi, ma la sua lontananza dalla vita piena era angosciante.
Si annusava un profumo buono, di primavera e di disinfettante. Fiori recisi erano stati invasati e i vasi posti su ogni comodino, il terremoto non aveva interrotto il procedere della stagione bella.
In un momento di sconforto, quando il continuo abbandonare gli occhi sopra la figlia distesa si era fatto insopportabile, Rino si alzò e seguì i rumori che filtravano al di fuori della camera d’ospedale. Prese il lungo corridoio pieno di luce, cercando nel cammino di scacciare la certezza che non si sarebbe mai più svegliata. Cercò di strozzare l’angoscia con lunghi respiri, non trattenne alcune lacrime, di commozione e di rabbia, finse di non aver sentito il saluto di un paziente, che camminava sorretto da un girello a quattro ruote. Proseguendo in quella direzione, il rumore aumentava. Era un televisore acceso. Entrò nella piccola sala, stavano sedute cinque persone, due sedie erano libere, si sedette sopra quella più isolata. Non aveva voglia di contatti umani. Davano in diretta i funerali dell’Aquila. Lo sapeva che si sarebbero celebrati quella mattina, sapeva di Roberto, aveva avuto modo di incontrare i genitori dell’amico di sua figlia, era informato ma desiderava una cosa soltanto: quel risveglio. Eppure anche quel risveglio non sarebbe bastato, perché aveva il terrore che ne uscisse ferita per sempre. Pensieri velenosi lo intossicavano: non poteva ingannare se stesso, era contento per la sopravvivenza di Roberta. Era sua figlia, per Dio! L’altro non lo conosceva nemmeno, provava pietà, si immedesimava in quel padre ma alla fine di quella compassione un po’ artefatta restava la gioia per la possibile salvezza di Roberta. Aveva schifo di quei pensieri meschini, ma gli appartenevano e avrebbe dovuto accettarli.
Si sedette. Il celebrante stava parlando. Capì che si trattava della predica. Non era incuriosito da quelle parole. Non gli avrebbero insegnato nulla. Avrebbero potuto solo farlo incazzare di più. Ma resistette. Sapeva che la rabbia avrebbe ceduto al pianto, e col pianto sarebbe arrivata la voglia di pregare. La implorava ma intanto non poteva guardare quel prete con benevolenza. Aveva forse avuto vittime nella tragedia? Aveva una figlia in coma? Come capire il dolore di un padre e di una madre, con quella tonaca addosso? Troppo facile consolare senza reale compassione, possibile solo a parità di disgrazia.
“Solo Dio potrà aiutarvi” stava dicendo il celebrante. “La mia povera voce ha senso solo se sarà capace di farvi salire sino a Lui.”
Lui, Lui… ripeteva Rino, Lui chi? Quel Dio che aveva permesso il terremoto? Addirittura voluto? A Lui bisognava ora affidarsi? Pregare una contraddizione? O pregare il nulla? Un’invenzione?
Stava bruciando di dolore, quelle parole non lo dissetavano. Si alzò, i gommini della sedia strisciarono sul pavimento con un lamento, lo schienale cozzò contro la parete, due dei presenti si voltarono, Rino si girò verso la porta. Fece in tempo a vedere che stavano mandando immagini a tutto campo, una panoramica della spianata ricoperta di bare e di uomini disperati. Meno fortunati di lui. Corse verso sua figlia.    

                                                                                             27 - continua