VENTISETTE
Il papà di
Roberta si chiamava Rino, la mamma Rosalba. Quando si era trattato di trovare
il nome giusto alla primogenita, avevano pensato -con scarsa fantasia e
riducendo di molto il ventaglio di opportunità- di mantenere la erre come
lettera iniziale. Da lì il nome Roberta, e Renata alla secondogenita. Una forma
elementare per illudersi di essere una famiglia unita. Ma la fortuna o il caso
o chissà che avevano voluto che quella famiglia crescesse davvero con un forte
senso di appartenenza alla piccola comunità domestica, che andava avanti a
litigi, silenzi ma più spesso sceglieva sentimenti positivi.
Rino, Rosalba
e Renata erano arrivati in quell’ospedale dell’Aquila martedì sette aprile,
quando ormai era buio. Il cellulare e i documenti di Roberta avevano reso il
loro incontro il più veloce possibile. Da quattro giorni si alternavano,
vegliando intorno al letto della figlia. I medici con i genitori non avevano
nascosto il vero: era tutto possibile, il risveglio e la morte, la rinascita o
la sconfitta definitiva. Sperare era il solo atteggiamento razionale. Si
trattava comunque di coma vigile. “Stato vegetativo persistente” aveva chiarito
il medico. “Abbiamo autonomia respiratoria e cardiocircolatoria, è lecito
sperare.” Sconsigliavano il trasferimento in un altro nosocomio, la risalita
verso Milano. Quel reparto di terapia intensiva poteva bastare. Comunque erano
sempre liberi di firmare e di portare la ragazza più a nord. Roberta aveva
bisogno di cure e di preghiere, di sentire parole affettuose e rassicuranti,
ripetute con ostinazione, piangendo o ridendo. Per il momento, però, non dava
cenni né di capire né di soffrire. La ragazza dormiva e si svegliava, apriva e
chiudeva gli occhi, ma la sua lontananza dalla vita piena era angosciante.
Si annusava
un profumo buono, di primavera e di disinfettante. Fiori recisi erano stati
invasati e i vasi posti su ogni comodino, il terremoto non aveva interrotto il
procedere della stagione bella.
In un
momento di sconforto, quando il continuo abbandonare gli occhi sopra la figlia
distesa si era fatto insopportabile, Rino si alzò e seguì i rumori che
filtravano al di fuori della camera d’ospedale. Prese il lungo corridoio pieno
di luce, cercando nel cammino di scacciare la certezza che non si sarebbe mai
più svegliata. Cercò di strozzare l’angoscia con lunghi respiri, non trattenne
alcune lacrime, di commozione e di rabbia, finse di non aver sentito il saluto
di un paziente, che camminava sorretto da un girello a quattro ruote.
Proseguendo in quella direzione, il rumore aumentava. Era un televisore acceso.
Entrò nella piccola sala, stavano sedute cinque persone, due sedie erano libere,
si sedette sopra quella più isolata. Non aveva voglia di contatti umani. Davano
in diretta i funerali dell’Aquila. Lo sapeva che si sarebbero celebrati quella
mattina, sapeva di Roberto, aveva avuto modo di incontrare i genitori
dell’amico di sua figlia, era informato ma desiderava una cosa soltanto: quel
risveglio. Eppure anche quel risveglio non sarebbe bastato, perché aveva il
terrore che ne uscisse ferita per sempre. Pensieri velenosi lo intossicavano:
non poteva ingannare se stesso, era contento per la sopravvivenza di Roberta.
Era sua figlia, per Dio! L’altro non lo conosceva nemmeno, provava pietà, si
immedesimava in quel padre ma alla fine di quella compassione un po’ artefatta
restava la gioia per la possibile salvezza di Roberta. Aveva schifo di quei
pensieri meschini, ma gli appartenevano e avrebbe dovuto accettarli.
Si sedette.
Il celebrante stava parlando. Capì che si trattava della predica. Non era
incuriosito da quelle parole. Non gli avrebbero insegnato nulla. Avrebbero
potuto solo farlo incazzare di più. Ma resistette. Sapeva che la rabbia avrebbe
ceduto al pianto, e col pianto sarebbe arrivata la voglia di pregare. La
implorava ma intanto non poteva guardare quel prete con benevolenza. Aveva
forse avuto vittime nella tragedia? Aveva una figlia in coma? Come capire il
dolore di un padre e di una madre, con quella tonaca addosso? Troppo facile
consolare senza reale compassione, possibile solo a parità di disgrazia.
“Solo Dio
potrà aiutarvi” stava dicendo il celebrante. “La mia povera voce ha senso solo
se sarà capace di farvi salire sino a Lui.”
Lui, Lui…
ripeteva Rino, Lui chi? Quel Dio che aveva permesso il terremoto? Addirittura
voluto? A Lui bisognava ora affidarsi? Pregare una contraddizione? O pregare il
nulla? Un’invenzione?
Stava
bruciando di dolore, quelle parole non lo dissetavano. Si alzò, i gommini della
sedia strisciarono sul pavimento con un lamento, lo schienale cozzò contro la
parete, due dei presenti si voltarono, Rino si girò verso la porta. Fece in
tempo a vedere che stavano mandando immagini a tutto campo, una panoramica
della spianata ricoperta di bare e di uomini disperati. Meno fortunati di lui.
Corse verso sua figlia.
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