VENTISEI
Venerdì 10
aprile 2009
Il giorno che tremò la notte era un lunedì, il sei aprile
duemilanove. Don Marco era in auto diretto a Roma, ma nella Capitale non arrivò
mai. Per le notti aveva chiesto ospitalità al parroco di uno di quei paese sgretolati;
la canonica era rimasta in piedi, predilezione divina, o forse segno di
speranza. La mattina del dieci aprile,
un venerdì, si era recato a L’Aquila, uno fra i cinquemila presenti ai funerali
di duecentocinque vittime del terremoto. Lutto nazionale, esequie di Stato,
politici d’alto grado e prelati dall’anello pesante e dal lungo pastorale con
la voluta; in più milleseicento parenti delle vittime e altre tremila persone,
in piedi nella spianata, sotto un simpatico sole di primavera, che scaldava le
proteste verso Dio e asciugava le lacrime. Ma le proteste erano troppe e
circostanziate; le lacrime si riformavano subito e scivolavano lungo il solco
già tracciato.
Per giungere alla spianata di cemento, dove era stato
allestito l’altare, don Marco aveva costeggiato alcuni campi sportivi di tennis
e di pallacanestro. Lungo la via si erano incolonnati gli oltre duecento carri
funebri, una fila di mezzo chilometro; quindi alcune ambulanze, mezzi dei
Vigili del Fuoco e le spalle dei presenti, divisi per settori.
Pensò che avrebbe preferito starsene in piedi ma il più
vicino possibile alle bare. Aveva saputo che quel giovane era stato estratto
dai ruderi della casa, che si chiamava Romano e che ora riposava disteso nella
bara numero 123. Era stato informato anche di Roberta, la giovane che era nel
letto con lui, ricoverata in coma in un ospedale della capitale abruzzese. Non
li aveva abbandonati più. Pensare a loro, stare con loro gli faceva bene; la
loro storia di dolore lo rendeva meno prete e più uomo. Aveva preferito
salutare il giovane per l’ultima volta; per Roberta ci sarebbe stato tempo.
Quattro lunghissimi tappeti rossi isolavano il legno dal
cemento. Sopra ogni tappeto s’adagiavano i corpi, nascosti dal feretro, di
oltre cinquanta vittime dei quel rutto di morte. Molte le bare bianche;
soprattutto su quelle si inginocchiavano genitori increduli, sfatti dal dolore.
Sopra il coperchio di alcune delle bare più piccole stavano appoggiati
giocattoli e altri oggetti, compagni di giochi e di emozioni di chi era stato
schiacciato dalla sua casa, il luogo più rassicurante. Oltre i morti era stato
allestito un palco azzurro, con baldacchino, a riparo della pioggia o del
sole.
La maggior parte dei presenti piangeva o recava intorno
agli occhi il segno della commozione. Questo lo disturbava, perché a lui non
riusciva di piangere. Nemmeno pensando a Romano e Roberta, che aveva visto e
accarezzato. Nessuno sfogo gli usciva dagli occhi. E di fronte a quell’immane
tragedia, gli parve di soffrire troppo poco. La ragione gli aveva imposto di
lasciar perdere Roma e quella promozione, quasi un’offesa se commisurata al
dramma di una terra ferita nel profondo. Ma perché non gli bruciava il cuore?
Guardò un militare, uno fra i tanti presenti sotto il
cielo d’Abruzzo, chiamato per il servizio d’ordine. Giovane, stropicciava il
cappello d’alpino fra le mani, tratteneva il pianto ma si capiva che ce l’aveva
lì, pronto a tracimare. Era bello nella sua compassione. Avrebbe voluto
rubargli quel segreto elementare, quell’abilità che scalda, che fa bene.
Alcuni uomini del servizio d’ordine si avvicinarono ai
parenti che stavano in ginocchio ai piedi delle bare. Era solo per dire loro
che presto sarebbe iniziata la funzione religiosa. Ma erano timorosi al
cospetto di quella afflizione. Arrivò anche l’annuncio al microfono. Partì il
suono di un organo, un organetto da campo, non all’altezza di quella cerimonia.
Una musica afona, gracchiante. Seguì il coro, voci piene, forti, calde. Alcune
mamme e papà si staccarono dai loro figli e andarono ad accomodarsi nei posti
loro assegnati; altri parevano di pietra, un corpo solo con la cassa di legno e
con il morto nel buio.
Il canto ebbe
fine e cominciò la Messa. Don Marco seguiva senza concentrazione. Era distratto
da pensieri apparentemente senza alcuna connessione. Poteva riflettere su Dio e
su quel suo amore illogico, disumano e un istante dopo ritornare a quei suoi
occhi secchi, al cuore freddo, poco carnale; cominciava ad essere stanco,
avrebbe voluto sedersi, il sole era caldo e ora persino fastidioso, si era
dimenticato in auto gli occhiali scuri, la luce lo abbagliava, vedeva piccole
macchie nere apparire e scomparire sul suo campo visivo. Cercò di concentrarsi,
sarebbe stato un segno di rispetto verso quei corpi martoriati. Si sentiva a
disagio, non giudicava congruo il suo comportamento, date le circostanze. Fissò
l’altare, notò che due uomini politici erano distratti, parlavano fra di loro.
Un altro spense il telefono cellulare, ma prima lesse un messaggio.
Venne l’ora
dell’omelia. Conosceva personalmente il Cardinale che celebrava. Lo stimava.
Anni addietro era passato anche attraverso la prova dell’invidia, del desiderio
di raggiungere il suo grado episcopale. Ma era trascorso il tempo, svanite le
speranze di arrivare così in alto, e nell’accontentarsi di un destino più
sobrio aveva imparato ad invidiare di meno, ad accettarsi, a rallegrarsi per
promozioni di minor prestigio.
Ebbe un
pensiero disturbante, che tradotto voleva dire: ‘Vediamo cosa sarai in grado di
dire, al cospetto di tutta questa insensatezza.’ E per un attimo divenne anche
cattivo, augurandosi che il Cardinale facesse la figura del prete, capace di
insegnare agli altri con frasi imparate alla scuola della Parola di Dio, ma
poco compassionevoli. Si pentì di essere così stronzo. Cercò di strappare via
quella gramigna, dalle lunghe radici avvinghiate alla sua anima debole.
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