VENTOTTO
Il canto finale di quel funerale di massa ebbe inizio. Don
Marco era molto stanco ma resisteva in piedi, una ridicola sofferenza per
capire qualcosa del dolore vero. Immaginava che sarebbe stato impossibile
comprenderlo, reggerlo; ma alla fine –considerava- molti arrivavano a
sopportarlo, naufraghi che lottano perché fa più paura la morte di tutta la
fatica del vivere.
Avrebbe voluto
essere invisibile, lui, solo, al cospetto dell’assurdità. Il cattivo odore del
suo sudore gli saliva al naso, gocce sulla fronte, una fastidiosa umidità in
tutto il corpo. La preghiera era penosa e vuota di speranza. “Persino un prete
è ridotto così” si disse, e le ultime note del canto salirono al cielo, un
cielo smagliante, felice, irridente per il troppo sole, sorto a dar luce alla
tragedia.
Cominciò la
lunga operazione del trasporto delle bare. Il silenzio di minuto in minuto si
riempiva di voci, riaccese dalla speranza rinata con la celebrazione; ma era
più che altro la voglia di dichiararsi ancora vivi.
Don Marco
restava immobile, cercando di intuire quale fosse la bara 123. Cominciò a
girare fra le casse, e come lui tante altre persone. Gli ultimi saluti, gente
in ginocchio, muti, qualche gesto di disperazione composta, piccoli pugni
contro quel legno lucido, come a voler svegliare chi dormirà senza fine. Altri
vagavano come in un labirinto, non ritrovavano la via d’uscita verso la
felicità.
“Qualche
parente?” gli chiese un uomo sulla sessantina.
“No, no” disse
don Marco.
“E’ fortunato”
rispose, con un sorriso sbieco che prese l’andazzo di una smorfia.
Don Marco
volle dare a quelle labbra scomposte un senso, che più o meno suonava così:
‘Per forza, i preti non hanno parenti, i preti non hanno figli, i preti non
capiranno mai un cazzo della vita vera. La loro vita che puzza d’incenso è
comoda e falsa.’
Fu costretto a
dargli ragione, a convenire con quel pensiero malandrino. Ma non era più
disposto ad accettarsi così. Riprese la ricerca, bastava seguire i numeri, ben
visibili di fianco al feretro. Così arrivò nella zona della 123. Li vide da
lontano, un padre e una madre, dovevano essere sicuramente i genitori di
Romano. Lui, alto, reggeva come una pianta dal tronco robusto la sofferenza di
lei, che si appoggiava al solo sostegno rimasto, dopo quell’addio che nessuno
si aspettava. Una chiamata al cellulare, vado via qualche giorno, tranquilli,
tutto bene, poi un’altra chiamata che lascia intuire la tragedia, e un passo
più in là il riconoscimento di un figlio sventrato, che non si è potuto
salutare come si deve. E l’esistenza è finita. Per tutti.
Don Marco fu
sul punto di continuare il cammino, voleva presentarsi, vedere i loro volti, ma
si fermò: non avrebbe trovato parole, se non parole di prete, che in quel
momento della sua vita erano un canto stonato. Restò nel sole, ogni tanto
metteva la mano a visiera, osservava i due che restavano immobili, chiudeva gli
occhi, pregava.
Vennero anche
per la bara 123, la sollevarono e il piccolo corteo prese la direzione del
carro funebre, assegnato a quella morte. Volle seguirli da lontano. Considerò
che in due, che un padre e una madre avrebbero condiviso, e quel boccone amaro
si sarebbe diviso a metà. Forse ce l’avrebbero fatta, abbracciati così, dopo
l’abbraccio che aveva generato Romano. Gli nacquero dentro le immagini di quel
giovane, che era stato un bambino; lo vide correre, divertirsi, lo vide
crescere, faticare nello studio, emozionato per i primi amori. Un sentimento
ambiguo di rabbia e commozione, protesta e compassione gli si formò dentro e lo
invase. Si fermò e si ritrovò senza un pensiero preciso inginocchiato, ad
abbracciare una bara sconosciuta. E il pianto salì finalmente a liberarlo.
28 - continua
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