VENTINOVE
Scrosciava dal cielo d’Abruzzo una pioggia senza pietà. Fredda,
sputata sulle cose e sugli uomini da un vento che pareva soffiato da un demonio
incazzoso. Don Marco faticava a vedere la via, teneva i tergicristalli alla
velocità massima, la ventola sul quattro, l’aria calda ma i vetri dell’auto si
spannavano a fatica, doveva usare un panno per farsi strada, per vedere in
quelle raffiche d’aprile. Una primavera bastarda.
Arrivò alla tendopoli, un distesa di case finte color cielo sereno.
Posteggiò nel fango. Non c’era che fango in quella spianata di anime prostrate.
Senza scendere dall’auto si infilò gli stivali di gomma, a fatica; nonostante
mangiasse poco e male da giorni quel suo ventre obeso non perdeva centimetri di
circonferenza. Si sentiva gonfio. Prese l’ombrello e scese nella pioggia e nel
gelo.
Era il minimo che potesse fare: celebrare la Messa per gli aquilani
costretti alla tenda in attesa della new town, della cittadina prefabbricata
che era stata loro promessa dagli uomini delle istituzioni. Il minimo, ma prima
del terremoto gli sarebbe parso un gran sacrificio.
L’acqua del cielo aveva chiuso gli aquilani nelle case di tela
impermeabile. I segni di vita erano i rumori che filtravano all’esterno:
parole, pianti di bimbi, televisori accesi, musica. Il pianto degli adulti era
silenzioso, non usciva all’esterno, era un dolore compresso, una matassa di
rabbia e paura che opprimeva la bocca dello stomaco. La pioggia mitragliava le
tende, annegava nelle pozzanghere, regalava nutrimento alla natura e nuove
ragioni di lamento per la gente del terremoto. Cominciava a dar fastidio
davvero, a inumidire i vestiti e le coperte, a filtrare all’interno di quei
locali provvisori, rendendo la sopravvivenza uno strazio.
Vide un pallone uscire veloce da una tenda, seguito dai rimproveri di
una madre e dalla corsa di un ragazzetto di una decina d’anni, con piccoli
stivali verde semaforo che rincorreva la sfera a scacchi. “Basta! Basta col
calcio!” urlava la donna. Don Marco si chiese se era stata lei a calciare fuori
il pallone, esasperata, oppure il bambino, con un tiro più potente del
consentito. Osservò la corsa traballante del ragazzo, che non si curava di
scansare le pozze, pareva entrarci di proposito, con passi che facevano
schizzare l’acqua provocando alti spruzzi. La palla si era fermata contro la
tende di fronte. Il ragazzetto la prese con le mani e anziché tornarsene dentro
per la via più breve, immaginò un rientro più lungo, per sfogarsi, per correre un
po’. Passò vicino al sacerdote e don Marco si lasciò vincere da un verbo che
gli uscì senza pudore: “Passa!” disse. Il bimbo si fermò, riconobbe il prete
che diceva Messa, superò la sorpresa e gli fece arrivare fra i piedi la sfera.
Stop di piatto, passaggio di ritorno, e nel tempo di quei due movimenti
calcistici rivide le sue partite giovanili, la scelta sacerdotale, la fatica di
quella rinuncia, e insieme riassaporò il sapore del gol, della doccia dopo una
vittoria sudata, le bevute alla fontanella in fondo al campo, per soddisfare la
violenta sete dell’estate. ‘Di sicuro ora sarei più magro’ pensò.
Il piccolo immaginò di scartare chissà quale difensore e tirò contro
un palo della luce, la palla rimbalzò (l’aveva centrato) rotolò e finì a mollo
in una delle pozze più profonde della tendopoli. La madre si affacciò da
quell’uscio di plastica: “Marco, dove sei andato? Non mi fare uscire,
altrimenti…” Si chiamava come lui. Lo ammirò nella sua resa all’obbedienza di
figlio: raccolse la palla, la fece volteggiare in aria, la abbracciò come un
portiere dalla presa sicura. Rientrò nella tenda.
La donna vide il prete. “Don Marco, vuole un caffè?”
Solo un mese prima avrebbe risposto ‘La ringrazio, come l’avessi
preso, vado di corsa’ e invece disse di sì, volentieri, avrebbe fatto in tempo
per la celebrazione.
Entrò. Di fronte al televisore un uomo, un adolescente e il piccolo
Marco, che si stava togliendo gli stivaletti. Dalla tele usciva una canzone,
che ripeteva ‘Domani, domani….’
“Ci hanno regalato pure una canzone” disse l’uomo, che s’era alzato e
aveva stretto la mano al don. “Fanno presto quelli, si ritrovano e si fanno una
bella cantata…all’asciutto. E col portafoglio gonfio.”
La donna sbuffò.
“E vorrei proprio sapere che fine faranno i soldi del cidì, chi se li
imboscherà” continuò l’uomo, insofferente
“Fanno quello che possono anche loro” disse la donna, con la moka del
caffè in mano.
“Già” disse il don, che intanto si guardava intorno. Aveva visitato
altre tende, non quella, ma vista una era come averle conosciute tutte. La
pioggia aveva però costretto a nuovi arredi: catini e secchi per contenere le
gocce che filtravano, scivolavano, rimbalzavano sui poveri beni di quelle
famiglie accampate.
“Fa freddo” disse don Marco.
“Quando le fa storte, Dio ci va giù pesante” disse l’uomo, incenerito
dallo sguardo della moglie. Ma lui fissava don Marco, quella frase era per
l’uomo di Dio, da lui si aspettava una replica decente.
“Se conoscessi i pensieri di Dio” rispose don Marco.
“Se non li capisce lei” disse il padrone di casa.
“E finiscila” disse la donna. “Ho invitato don Marco per il caffè, non
per il tuo processo.”
Il prete si sentì a disagio, cambiò discorso, prese a pretesto la
canzone che non aveva lasciato lo schermo. “Mi diceva di questa canzone…di che
si tratta?”
“Una cinquantina di cantanti famosi” disse il papà di Marco, “si sono
ritrovati per noi, per raccogliere soldi….chissà quando li vedremo…ma qui ci
vorrebbe un miracolo” e si passò la mano nei capelli, lunghi capelli neri.
Don Marco pensò che il miracolo era già presente in quella loro
pazienza, nella voglia animalesca di non voler morire, di resistere alla
tragedia. ‘Non siamo così soli…non siamo così soli…’ ripetevano i cantanti alla
tele, in un abbraccio canoro.
Arrivò il caffè. Il prete guardò l’orologio, fece due calcoli, non
avrebbe rispettato il tempo di digiuno prima della celebrazione eucaristica,
preferì tradire le regole ecclesiastiche, non il desiderio di condividere il
suo tempo con quella famiglia. Fatti e non parole. Di prediche ne aveva scritte
a migliaia, una vita di sermoni con l’impressione che non sarebbe mai stato in
grado di mettere in pratica quelle buone intenzioni, che lanciava dal pulpito
come coriandoli a carnevale.
Bevve il caffè, ringraziò, saluto, guardò Marco che stava incollato al
video. Il ragazzetto si girò e gli sorrise, con la felicità incosciente dei
piccoli, che non vedono lontano e s’accontentano del loro eroe televisivo, che
dimenticano alla svelta, non ancora tarlati dal virus della memoria, dal
terrore dell’epilogo.
Don Marco uscì dalla tenda, aprì il grande ombrello che aveva preso
con sé e si diresse verso la chiesetta da campo: solo un’altra tenda, con un
tavolo per altare, qualche sedia, un tabernacolo provvisorio e la candela
rossa, accesa per non perdere la speranza che quel pane tondo e piatto fosse
davvero il corpo secco di un Dio.
29 - continua
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