TRENTA
Don Marco se
ne rendeva conto: più i giorni passavano, più sarebbe stato difficile per lui
tornare indietro, tradire la sua promessa, come un nuotatore, certo di poter
raggiungere l’altra riva, ma questa non arriva e le forze scemano ma il punto
di partenza si allontana e ogni metro in avanti rende meno probabile il
successo di un ritorno al punto di partenza. E allora si continua, si guarda l’approdo
e si spera, perché altra strada è stata fatta e ora sarebbe impossibile
rientrare e non restano che due ipotesi: annegare o arrivare sulla sponda che
ci sta di fronte. Così si procede, non è più possibile tradire l’idea che ci
aveva buttati in acqua, resta solo l’affidamento alla nostra volontà.
Don Marco
aveva nuotato molto in avanti nei giorni, era diventato per gli uomini della
tendopoli il prete venuto dal nord, che si era affezionato agli abruzzesi e
alla loro sciagura. Per chi frequentava l’ospedale cittadino, invece, dove
ancora sopravviveva nel coma Roberta, quel sacerdote era colui che aveva
contribuito ad estrarre la ragazza dalle macerie e che non aveva voluto più
abbandonarla, con un gesto che qualcuno giudicava miracoloso, segno della possibilità
di una rinascita, frutto della caparbietà umana e di un aiuto divino.
Don Marco
ogni giorno, nel tardo pomeriggio, dopo la celebrazione della Messa nella
tenda, entrava in ospedale e si metteva seduto lungo il corridoio, a metà fra
la camera di Roberta e la piccola chiesa. Si alzava, chiedeva notizie della
ragazza, quando glielo consentivano entrava in camera, usciva, si sedeva di
nuovo, leggeva, scriveva, si rialzava e andava nella cappella a pregare. Era in
confidenza con i genitori della ragazza, con molti medici e infermieri, con il
cappellano dell’ospedale, con il quale aveva avuto più di una discussione di
natura teologica. La vedevano diversamente su molte faccende che avevano al
centro Dio e, come corollari, la morte, il dolore, il senso di un terremoto, la
sofferenza dei bambini. Era benvoluto da
molti, ammirato da qualcuno, criticato dagli invidiosi che
ipotizzavano chissà quali interessi dietro quella dedizione, comprensibile solo
se Roberta fosse stata sua figlia.
Ma nessuno
di costoro (genitori, medici, infermieri e preti) sapevano che don Marco era
incollato a quella sedia e a quel destino perché aveva avuto l’ardite di
sfidare Dio. Ora Lo attendeva al varco.
Un segno. Un
segno proprio per lui, personale, che sancisse la verità delle promesse
evangeliche: chiedete e vi sarà dato,
pregate il Padre mio, e ciò che chiedete ve lo concederà. Pretendeva un segno
chiaro e inconfutabile, come i molti miracoli lasciati da Gesù lungo le tappe
del suo cammino terreno: lui supplicava la guarigione di Roberta. Il suo
risveglio avrebbe salvato due vite: quella della ragazza e la vita spirituale
di don Marco. Perché a che serve salvare il corpo, se perderete l’anima? Meglio
entrare nella vita eterna senza un occhio, che finire con entrambi gli occhi
nella geenna: tutte parole che sapeva a memoria, da una vita.
Così ora
vigilava pregando incessantemente, perché il Padre non lo rimproverasse di aver
trascurato l’insistenza sino all’esasperazione: così quel padre vi aprirà,
fosse solo per togliersi un rompicoglioni che viola la notte bussando alla
porta di una casa amica, chiedendo ospitalità anche se i bimbi dormono e lui
con quei colpi potrebbe svegliarli. E l’amico che fa? Alla fine apre, sbuffando
ma apre e l’accontenta.
Per continuare
a fare il prete, per non disfarsi di quella tonaca sempre più stretta, ora gli
occorreva davvero un miracolo: perché la meditazione non gli serviva più, il
cuore della Parola era risaputo, i dubbi si rigeneravano come le code delle
lucertole. Solo quel miracolo, perché lui non era fra i beati che, pur non
avendo visto, continuavano a credere. A quel punto, fraternizzava solo con San
Tommaso.
****
Don Marco
sentì aprirsi la porta della camera di Roberta. Uscì don Elia, il cappellano.
Fece per girare a sinistra, vide l’amico prete seduto al solito posto, esitò,
ruotò a destra e si incamminò lungo il corridoio. Lo raggiunse, fermandosi in
piedi davanti a don Marco, vicino, tanto da mettergli sotto i naso il profumo
di cuoio del copribreviario e l’odore della tonaca, bisognosa di un bucato.
“Non ti
siedi?” chiese don Marco.
“Vado…solo
un saluto” disse don Elio.
“Sei proprio
un prete.”
“Non siamo
tutti uguali, nemmeno noi che abbiamo lo stesso vestito.”
“E’
vero…scusa.”
Forse fu proprio quell’ammissione di colpa a convincere
don Elio. “Solo un attimo” disse e si sedette, tirando verso l’alto la lunga
veste nera. Non poteva essere così fisicamente distante da don Marco: secco
come una canna, radi capelli brizzolati nell’emisfero sud del cranio, scattante
nei movimenti, dal gesticolare ansioso, don Elio tamburellava i piedi sul
pavimento, si rimpallava il breviario da una mano all’altra, si stirava il naso
con i polpastrelli. Probabilmente temeva il confronto con quel sacerdote,
grasso e inquieto. Lo metteva a disagio, lo spingeva all’angolo, sulla
difensiva.
“Solito?”
chiese don Marco. Si riferiva a Roberta.
“Nessuna
novità.”
“Ha un
senso?”
“Quel che
Dio vuole” disse don Elia, guardandosi i piedi e scappando dai suoi occhi.
“Ha un senso
che Dio voglia questo?”
“Mistero.”
“Non mi
basta più.”
“Dobbiamo
farcelo bastare.”
“E se Dio
non c’entrasse?”
“Col
dolore?”
“Con questa
miseria che siamo.”
“Ne abbiamo
già parlato.”
“E
riparliamone.”
“Come fai a
dire che non c’entra…Lui…l’Onnipotente…”
“Un Padre
buono non fa del male ai suoi figli.”
“La nostra è
una visuale ridotta…la nostra logica…”
“La nostra
logica non è quella di Dio…lo so, don Elio, sono più vecchio di te. In
seminario ero il migliore.”
“Me l’hai
già detto.”
“Povera
ragazza.”
“Almeno non
soffre.”
“Così dicono…o
Lui non c’entra, o Lui non mi serve più.”
Don Elia lo
bruciò con lo sguardo, ammonendolo a vista che stava sfiorando la bestemmia. Ma
don Marco era altrove, parlava, discuteva ma non dava credito alle parole di
don Elio. A nessuna parola umana. Ora toccava a Dio fare la sua parte.
30 - continua
Nessun commento:
Posta un commento