TRENTUNO
‘Devo fare
di più, di più’ pensò don Marco, e programmò di trascorrere una notte intera a
pregare per Roberta, a vegliare vicino a lei. Una notte intera, e se poteva
servire anche una notte al mese, alla settimana. Esagerare, perché la santità
era esagerazione e pazzia. E quella sera decise di mettere in pratica il
proposito. Non lo aveva programmato. Anziché alzarsi all’imbrunire e scendere
nella tendopoli per la cena, restò seduto nel corridoio. Digiunare non gli
faceva paura, anche se al primo pensiero di quel digiuno sentì una vampata di
appetito. Aprì il quaderno dove appuntava i suoi pensieri e scrisse: ‘Mi fermo
sino all’alba. Devo fare sino in fondo la mia parte, da uomo di fede. Di
preghiera. Potrei pregare anche nella mia tenda. Sento che mi è chiesto altro.
Cosa sarà mai questo sentire? La mia coscienza? La voce di Dio? Semplicemente
un pensiero come tanti? Un senso di colpa per essere ancora vivo, quando Romano
è morto e non sono stato capace di salvarlo? Che domande idiote. Le domande
senza risposte non meritano il nostro tempo. Inutile sprecare un tempo già così
sfuggente, minimo. Pregare pregare pregare…questo solo farò, pregare come un
martello pneumatico che infine penetra nella roccia e la spacca.’
Anche quella
sera, poco alla volta, se ne andarono tutti: i genitori di Roberta, la sorella,
don Elio, i medici in servizio durante il giorno, le infermiere che non
avrebbero dovuto sopportare il turno di notte.
Andandosene,
il cappellano gli aveva detto: “Rimani ancora?”
“Cinque
minuti, qualche minuto” era stata la sua risposta.
“Buona
serata, allora” e se n’era andato, lasciando il ricordo del rumore dei suoi
passi e del penzolare della corona del rosario.
“Anche a te”
aveva detto lui, osservando il suo passo strascicato, pesante benché fosse magrissimo.
‘Il peso della vecchiaia’ pensò don Marco ‘meglio andarsene prima.’
La notte
arriva presto in ospedale. Dall’esterno salivano al prete i rumori e la luce di
una serata estiva. Ebbe la tentazione di rinviare la veglia più in là, magari
dentro una giornata di pioggia. Mantenne fede alla promessa e si alzò,
portandosi alla finestra. Nel cammino sentì il fastidioso dolore al ginocchio,
che da tempo gli procurava una modesta zoppia. Non aveva voglia di andare dal
medico, non aveva voglia di dire a se stesso che era disturbato da quella fitta
da niente, ma era costretto ad ammettere che non sapeva soffrire. Un male
minimo lo insospettiva, lo preoccupava e gli faceva rivoltare l’umore. Benché
cercasse di nascondere la sua ridicola pena (ridicola se confrontata con
l’immenso dolore del popolo d’Abruzzo) quella si imponeva, gli raccontava che
avrebbe potuto essere un tumore, chissà, un domani avrebbero dovuto amputargli
la gamba, costringerlo alle protesi. E un tumore è vigliacco, si diffonde, può
far male davvero. Dal ginocchio saliva alla mente la paura di morire. E se era
facile pregare Dio nella salute, per la salute degli altri, gli veniva la
nausea se pensava ad un padre che permetteva quel male al suo ginocchio.
Si avvicinò
al davanzale, sentì il suo ventre gonfio appoggiarsi al bordo, provò ancora
disagio, cercò di dimenticarsi di se stesso, il solo modo per trovare un po’ di
quiete. ‘La mia vita sono gli altri, la mia vita sono gli altri’ ripeteva, e
gli occhi scendevano in basso, nel cortile interno dell’ospedale. Stavano
parcheggiate auto e ambulanze, qualche bicicletta e una moto di grossa
cilindrata. Una decina di alberi salivano al cielo, avvinghiati al tronco dal
cemento. Dopo il cortile altri palazzi del nosocomio, il resto oltre
quell’orizzonte di calce e mattoni era da immaginare: i colli feriti, le case
diroccate, la gente carica di pazienza nelle tendopoli, le bestemmie di chi non
aveva fede e di chi la stava perdendo.
31-1 continua
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