TRENTUNO due
Roberta
era bella. I segni del terremoto sulla sua pelle erano scomparsi. Solo piccoli
graffi sulle guance, un occhio leggermente gonfio; la pelle aveva ritrovato la
sua giovinezza. Le braccia si distendevano fuori dal lenzuolo, parallele al corpo.
Nel suo sonno senza risveglio dava l’impressione di sorridere ad un sogno
piacevole. Don Marco si avvicinò al letto, le sfiorò la mano, le accarezzò la
fronte, spostò i capelli che si erano abbassati e lambivano le sopracciglia.
Allontanò la tentazione di darle un bacio sulla guancia, le prese la mano
destra e pregò per la sua guarigione. Tese il lenzuolo in alto, accomodò la
rivoltina, la chiamò a voce bassa, temendo di essere sorpreso, benché sapesse
che erano rimasti solo gli infermieri di turno. Pensò che avrebbe potuto avere
una figlia di quell’età, che forse sarebbe stato un buon padre, anche migliore
del padre spirituale che era stato sino a quel momento. Provò nostalgia per ciò
che aveva perso, disagio per aver
fallito la scelta di una vita.
Si
mise a camminare lentamente intorno al letto, con le mani dietro la schiena,
gli venne in mente don Abbondio in cammino, prima dell’incontro frutto di
tribolazione; quel prete senza coraggio lo rappresentava troppo bene, provò
disgusto ma era costretto ad accettare il verdetto della sua coscienza.
Procedeva a piccoli passi, con una lentezza esasperante, aveva tutta una notte
e di preghiere ne avrebbe recitate sino alla nausea.
Era
circondato da sottili rumori che non gli davano fastidio, altra era l’origine
della sua ansia, non forte ma costante, un cuore che correva e che lo obbligava
a respiri mozzati. Campanelli che suonavano raramente, lamenti di malati e le
ricorrenti frasi delle infermiere, abituate alla pazienza, a digerire l’altrui
sofferenza come un pasto leggero, per non farsi ferire dal dolore. In
quell’ospedale i locali erano puliti, asettici, per far indossare al male un
abito decoroso.
Gli
salì dal profondo un atroce verdetto: era tutto inutile, la sua preghiera, il
suo sacrificio in quella camera, l’esistenza, perché se anche Roberta si fosse
risvegliata, fosse stata capace di dimenticare e di vivere sino a novant’anni,
alla fine sarebbe morta seguendo il destino di tutti. Un fiotto amaro di
disillusione lo obbligò a sedersi, cercò di scacciarlo subito, sentì l’ansia
montare. Ora sulla poltrona riprese fiato, un poltrona dal cuscino troppo duro,
scomoda. Dava le spalle alla finestra, davanti a lui il letto, oltre il letto
la parete, imbiancata di recente, spoglia, due quadri e un crocifisso, sottile,
di metallo, con un Cristo stilizzato. Più che quadri erano due poster con
grandi fotografie di paesaggi, montagne, probabilmente dolomiti, e mare,
un’alba o un tramonto con un sole enorme, di un arancione innaturale.
Guardò il crocifisso, si distrasse perché osservò
Roberta e pensò che quei due ragazzi probabilmente stavano facendo l’amore
quando la notte si era messa a tremare e il soffitto li aveva travolti
abbracciati. E lui l’amore non l’aveva fatto mai. ‘Ma che pensi?’ si disse e
cercò di scacciare quella mancanza come doveva allontanare ancora quel senso di
vuoto esistenziale, ma non ci riuscì e pensò che ne aveva il diritto, almeno di
pensare a ciò che voleva e non era colpa sua se nella mente si formavano quelle
immagini. Né era colpa sua se l’istinto gli ribolliva dentro, nonostante il suo
voto rinnovato di castità, tante buone intenzioni e preghiere, sempre preghiere
ad un Dio sordo e muto, ad un Dio di sole pretese.
Guardò l’orologio, stretto al polso destro. Erano le
ventitré e quindici. L’impianto dell’aria condizionata era in riparazione,
faceva caldo. L’alta temperatura dilatava le vene, slacciò il cinturino che gli
aveva lasciato un segno sulla pelle. Si asciugò il sudore dal polso, stirò i
peli verso il basso, mise l’orologio nella tasca dei pantaloni. Gli dava fastidio
tutto, il caldo, la pelle gonfia, la sofferenza quieta di Roberta, il suo
futuro. Tornò al crocifisso alla ricerca di pace, di un senso. Sentì un
pizzicore sul braccio sinistro. Guardò. Un ragno dalle lunghe zampe e dal
piccolo corpo tondeggiante stava risalendo sopra di lui. Con un movimento
schifato lo allontanò. La bestia finì a terra e cercò di scappare sotto il
letto. Il prete la seguì nella sua disperazione, decise, allungò il piede e la
schiacciò con rabbia. Si pentì quando vide l’animale muovere una zampa.
31-2 continua
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