Otto
Sofia camminava
davanti a lei, goccia di quel torrente di studenti che saltellava a valle, in
pendenza dal colle del ‘Cairoli’. Compagnia ciarliera e policroma, i tanti
colori pastello degli Eastpack e delle polo a mezza manica, voglia di un
buon pranzo ma soprattutto di raccontarsi, di raccontare i fatti altrui e di
curiosare, in silenzio, le mosse di un amore ipotetico. Molti ridevano
soddisfatti, come chi si è liberato di un peso e gode per uno spazio di
piacevole, momentanea libertà.
Sofia parlava con
un’amica. Non s’era accorta che la sua professoressa la seguiva, che ne
curiosava le mosse, gelosa dei suoi diciannove anni. Accese il piccolo Mp3,
uscì della musica, poi si tappò le orecchie con gli auricolari. Non aveva
bisogno di ancheggiare, con quelle forme. Né di passarsi le dita fra i capelli
e pettinarli, facendoli svolazzare verso le nuvole, perché di capelli ne aveva
in avanzo e a quell’età non bisogna inventarsi nulla, per piacere.
Giunsero in fondo
al colle, nei pressi del masso sacro, ricordo di guerre, di sacrifici, di
ideali.
Ma dove andava, adesso, Sofia? Perché attraversava? E con
quella fretta?
Matilde si fermò a
spiarla. Sull’altra sponda di via Venticinque Aprile sostava un ragazzo, in
sella ad una moto piuttosto malmessa, un ragazzo col casco che stava porgendo
un casco rosso anche a lei, che l’aveva baciato sulla bocca e insieme erano
partiti.
Eccolo dunque
l’albanese, che si raccontava fosse il suo nuovo ragazzo, dopo Bingo.
Frugò nella borsetta. ‘Dove diavolo ho messo le chiavi?’
e s’inquietò, poi le trovò, si calmò ma s’agitò di nuovo pensando al pranzo che
avrebbe dovuto rimediare.
Non sarebbe stato
un pomeriggio assonnato.
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