Sette
Matilde fumava.
Seduta, gomiti appoggiati sulla grande cattedra della sala professori. Gambe
accavallate, la mano s’appoggiava al braccio, l’altra mano s’allungava in dita
nervose, che stringevano il piccolo cilindro di tabacco. Scodinzolava il fumo
verso il neon, bucavano il fumo gli occhi di lei e si posavano qualche metro più
innanzi, alla macchinetta delle bevande.
Quattro colleghi
stavano in piedi. Anche Franco. Guardava Franco e il paragone con Giulio era
impietoso. Per Giulio. Franco...gli rubò soprattutto le spalle, la vita
stretta, il gonfiore dei muscoli delle braccia. Tradire Giulio sarebbe stato
necessario e stupendo. Franco era la preda.
Ma Giulio dov’era?
Lo chiamò; s’era ricordata che doveva essere via per lavoro, due giorni...due
giorni la casa libera. Scavallò le gambe; forse si poteva fare quello stesso
pomeriggio, no, aveva l’appuntamento col Caravati. Ci sarebbe stata la notte.
Perché Giulio non gli aveva lasciato nemmeno un biglietto? Neppure il solito
bacio asfittico? Spense la sigaretta, prese il cellulare e compose il numero.
***
“Dove sei?”
“Al lavoro...dove
dovrei essere?” Giulio cercava di nascondere i sintomi dell’ansia, ma respirava
come un asmatico.
“Ma non dovevi
andar via?”
“Dovevo…”
“E allora?”
“Non si va più.”
“Non potevi
dirmelo?”
“Scusa...”
“Scusa? Ma a che
ora sei uscito?”
“Non lo
so...sette, sette e mezza...”
“Perché così
presto?”
“Perché l’abbiamo
deciso presto se andare o no...”
“Ah...” e Matilde
stava vomitandogli addosso la verità del biglietto. “A pranzo ci sei?”
“Ci sono...” e
quasi inciampò, scendendo dalla rizzàda.
“Ma dove diavolo
sei?”
“Te l’ho già
detto...”
“Hai il
fiatone...”
“Qui dentro manca
l’aria...non hai sentito che caldo?”
“Sembra estate.
Solita ora? Vuoi qualcosa?”
“Forse finisco
prima. Ce la fai per mezzogiorno?” Voleva vederla.
“Ho la quarta ora,
dodici e mezza, non prima.”
“Bene.”
“Puntuale.”
“Puntuale.”
“Ti sento strano.”
“Tranquilla.”
Tranquilla?
Matilde l’avrebbe sgonfiato come un palloncino da Luna Park. Era appuntita come
un istrice.
***
Suonò la
campanella. L’intervallo era finito.
Franco s’era
seduto di fianco a lei.
“Tuo marito?”
“Il rompiballe.”
“Ma va là...”
“Voi uomini siete
tutti rompiballe” e gustava i suoi occhi. Avrebbe dovuto alzarsi, raccogliere
il registro, i libri, la borsetta, incamminarsi verso la terza c ma si
tratteneva, incollata sulla sedia dal piacere di ciò che, con quell’uomo,
avrebbe potuto fare. Che aveva il diritto di fare, ormai.
“Andiamo?”
“Se proprio si
deve....” disse Matilde.
“Cos’hai?”
“Terza c...e tu?”
“Avrei voglia...”
e le sorrise.
Matilde arrossì.
Così esplicito non era stato mai. Forse aveva capito che con Giulio davvero non
andava bene. “Voglia di che?”
Franco fece il
misterioso.
“Non mi hai
risposto” insisteva Matilde.
“C’è il preside.”
Il dirigente
sorrise ai due ritardatari, il solito sorrisetto baffuto che voleva dire tutto e
niente, perché altro il preside non sapeva fare: sorridere e andare in giro a
raccontare che il ‘Cairoli’ era la scuola più prestigiosa della città.
Salendo le scale
verso l’aula della terza c, Matilde pensò che quella notte avrebbe avuto di
fianco, nel letto, soltanto suo marito. Ma prima sarebbe arrivato il pranzo e
poi ci sarebbe stato l’avvocato e più di tutto c’era, adesso, la rabbia
d’essere stata tradita.
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